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Fabio Ciaramelli e Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza

 



Fabio Ciaramelli,
Ugo Maria Olivieri


Il fascino dell’obbedienza




Mimesis edizioni, Milano 2013,
pp.123, €. 12,00
ISBN-13 9788857513119












Questo libro di Fabio Ciaramelli e Ugo Maria Olivieri rilegge in maniera acuta ed originale un saggio cinquecentesco, Il Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie, e allo stesso tempo scava nelle sottigliezze del nostro presente, dove le logiche di servilismo hanno puntellato momenti e fasi della storia d’Italia. Come è noto, il Discorso di La Boétie è al centro di una lunghissima querelle interpretativa che ne ha contraddistinto le vicende editoriali, dal XVI secolo fino alla seconda guerra mondiale e oltre, tanto che lo stesso titolo dell’opera ha subito più volte modifiche e riletture, come attestano sia le edizioni nella lingua francese che italiana, inglese e tedesca. L’analisi della servitù volontaria denunciata dal giovane de La Boétie (avviato alla carriera giuridica e amico fraterno di Montaigne) è sconvolgente, perché a suo giudizio il desiderio di servire non dipende dalla volontà del tiranno ma dall’attività stessa dei dominati, che sono poi gli artefici consapevoli del proprio asservimento – come se il servilismo fosse insito nella stessa natura (contraddittoria) dell’uomo. La Boétie scrive negli anni che vedono l’acuirsi delle guerre di religione in Francia dopo il massacro degli ugonotti nella notte di S. Bartolomeo intorno al 1576 (anno presunto della pubblicazione), mentre cominciano a delinearsi le basi dello Stato assoluto: perché gli uomini, fatti per essere liberi, rinunciano con tanta naturalezza alla loro libertà? Perché la volontà di servire, come servitude volontaire, alberga nell’animo degli individui, come desiderio di identità e di riconoscimento e non è, invece, una costrizione che li piega al dominio del tiranno? Del resto, scriveva Simone Weil in un celebre scritto del 1937, Meditazioni sull’obbedienza e sulla libertà, «la sottomissione dei molti ai pochi, questo dato fondamentale in quasi tutte le organizzazioni sociali, non ha mai cessato di sbalordire tutti coloro che ci riflettono un poco». Ciaramelli e Olivieri, autori dei due rispettivi saggi che compongono il volume (La servitù svelata e Dal consenso alla legittimazione. Le vicissitudini della servitù volontaria ieri e oggi), ci riflettono con metodo storico-ermeneutico affermando preliminarmente che le logiche di asservimento volontario della moltitudine alla volontà del capo o del tiranno rappresentano sempre e comunque una minaccia per la democrazia. Da questo presupposto muove l’indagine, peraltro motivata dal paradosso semantico del titolo: il fascino dell’obbedienza che sembra essere il collante misterioso ed ineffabile della natura umana, sorretto dal sottotitolo, Servitù volontaria e società depressa.

Nel primo saggio Olivieri esplora la figura paradigmatica della tradizione classica, ossia quella del tiranno, signore solitario della polis, che non esita a rivendicare la sua illimitata volontà di potenza rispetto al nomos, alla legge. Nel transito dall’epoca classica all’epoca moderna, la tirannide come negazione dell’umano è già reperibile nelle opere di Senofonte, di Platone e poi in Leo Strauss. Nel Gerone, che fu tiranno siracusano, Senofonte racconta dell’uomo stretto dalle maglie del potere, e dell’intrigo che rappresenta l’elemento distintivo della sua vita personale e politica. Senofonte descrive l’incontro tra il poeta Simonide e il tiranno Gerone, sviluppando il dialogo intorno alla questione della vita del tiranno, il quale è costretto a una costante dissimulazione, non potendo fidarsi neppure di coloro che gli sono più vicini. Ma l’elemento peculiare che si afferma nel dialogo è il problema del potere, su cui richiama l’attenzione nel 1948 un filosofo politico come Leo Strauss, che in un saggio sul Gerone vi ha voluto vedere la differenza tra la tirannia antica, «ancora fondata sull’immagine della forza “naturale” come molla dell’obbedienza dei popoli e il totalitarismo moderno che ha a disposizione tecniche ed ideologie per organizzare attorno a sé il consenso dei dominati» (p.13). Solo con Machiavelli il nesso comando/obbedienza subisce una curvatura tale da «mettere in scena una forma politica come composizione mobile e aperta del conflitto, come sfruttamento dell’energia pulsionale e razionale del Principe per mantenere gli uomini all’interno di un’artificiale socievolezza» (p.17). Le analisi del Segretario fiorentino sui fondamenti della politica moderna e in specie sulle ragioni del consenso da parte del popolo incrociano quelle del giovane umanista La Boétie; e in questo consiste forse il tratto più innovativo e più sconcertante dello scritto che anticipa la teoria moderna della sovranità e il superamento della dicotomia tra il Principe e il tiranno. Non stupisce che Il Principe e il Discours appaiono in un’epoca durante la quale il pensiero politico europeo sta elaborando una creatura nuova, lo Stato nelle sue varie declinazioni: moderno, assoluto, autoritario, leviatanico. La Boétie, contro ogni consuetudine, ci annuncia il suo giudizio di illegittimità di “ogni” potere: «In tutta coscienza va considerata una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai dire con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio, secondo il proprio arbitrio».

Olivieri ricostruisce con perizia filologica i vari strati del Discours,ne coglie la complessa strategia retorica e performativa, ne esplora il nocciolo misterioso ovvero il dono della servitù: «se si vedono non cento né mille individui, ma cento paesi, mille città, un milione di uomini che non attaccano quell’uno solo che nel migliore dei casi li tratta come servi e schiavi, come chiameremo ciò?» (p.31). La Boétie avverte che l’origine nascosta della tirannia, il suo fondamento, sta «nella possibile persistenza del desiderio di libertà in una situazione di latenza e di abitudine alla dipendenza» (p.35). L’abitudine impone all’uomo una sorta di seconda natura, una “natura artificiale” che lo plasma modificandolo integralmente. Nel Discours è dunque all’opera una concezione di natura tutt’altro che ingenuamente naturalistica, un concetto complesso, dinamico e aperto all’intervento dell’educazione e dell’abitudine; un intervento il cui esito appare tuttavia – almeno a questa altezza – molto più minaccioso che non positivo, poiché tende a far accettare passivamente la condizione di asservimento – come se essa fosse “naturale”, nel senso di immutabile perché inscritta in una essenza umana sempiterna. Ed è sulla abitudine come causa prima della servitù volontaria «proprio come avviene ai più indomiti destrieri», che Olivieri avvicina il suo sguardo con gli strumenti dell’analisi testuale al Discorso, che si espande persino come testo diagnostico del nostro tragico Novecento «quando ritroviamo la bruciante modernità di un’osservazione sul ruolo dell’abitudine nell’acquiescenza alla tirannide, sotto mutata forma, anche nella riflessione politologica di Hannah Arendt sul totalitarismo» (p.37). Benché le differenze tra la tirannide all’alba della modernità e quella dei regimi totalitari siano notevoli, in La Boétie - spiega Olivieri - è sempre l’enigma del consenso attorno al potere che unisce le due tirannidi distanti nel tempo e nelle forme, una sorta di incantesimo quella che piega gli individui al dominio dell’uno e della sua immagine simbolica. Dopo l’abitudine, le vie maestre della servitù volontaria, di «questo vizio mostruoso che la lingua si rifiuta di nominare» solcano il terreno della politica moderna. E qui Olivieri richiama l’interpretazione di un grande studioso di La Boétie che è Claude Lefort, filosofo francese della politica e allievo di Merleau-Ponty, che segnala per noi lettori moderni la prorompente attualità del Discours,teso com’è a descrivere la fascinazione che il desiderio di un’unità originaria esercita su ogni individuo; ognuno tende ad identificarsi nel tiranno nella misura in cui vuole diventare signore di un altro. Identificandosi psichicamente e politicamente con tale idea, l’individuo atomizzato e frodato dalla crisi democratica trova un compenso alla sua derelizione e - in un’immaginaria ipostasi di potenza - accetta come un male minore, volontariamente, la servitù. Aggiunge Olivieri che dietro «la costruzione dello stato moderno non c’è solo l’obbedienza dei sudditi, ma c’è qualcosa di più radicale e sconcertante: il loro ostinato desiderio di rispecchiamento nell’Uno» (p.46).

Anche il saggio di Ciaramelli esplora molti punti paradossali del Discorso,posizionandosi su due questioni rilevanti: la primaè la relazione storicamente e concettualmente determinata tra l’opera di La Boétie e il totalitarismo novecentesco, la seconda riguarda il legame tra servilismo e depressione. Che il testo di La Boétie costituisca una dimora archetipica dell’obbedienza totalitaria è fuor di dubbio poiché «la disposizione razionale ad obbedire si trasforma negli individui mobilizzati dai regimi totalitari in una vera e propria “sete di sottomissione”, per riprendere fin da ora l’espressione di Gustav Le Bon» (p.58), fino a lasciare affiorare l’antica radice che il desiderio di servitù dei singoli individui sia un’inclinazione profonda delle masse, e la sottomissione collettiva la base dell’obbedienza totalitaria. Ciaramelli richiama esplicitamente la lezione arendtiana secondo cui le società totalitarie distruggono lo spazio pubblico e anche la responsabilità individuale al punto tale che ciascuno desidera sottomettersi in un “singolare connubio di disciplina e consenso” al tiranno, e il consenso medesimo si trasforma in una nuova forma di servitù. Tuttavia, a dire dell’Autore, l’obbedienza totalitaria è solo una declinazione attualizzante del testo di La Boétie, perché altre varianti si impongono: l’obbedienza, che sembra assurgere a icona o a simbolo dei nostri ultimi decenni «è una forma di sottomissione protettiva e rassicurante, che sospende la libertà di iniziativa perché mette al riparo dagli effetti stressanti della ricerca inesausta di successo e riuscita personale, tanto nella vita privata quanto nello spazio pubblico» (p.62). In questo modo l’obbedienza diventa una pratica tranquillizzante e benevola che solleva il soggetto da scelte e decisioni; una forma di sottomissione volontaria che si costruisce intorno all’identificazione tra obbedienza e disciplina con rapide deviazioni e digressioni, che rendono il Discorso sgorgante di annotazioni sulla disponibilità all’autoinganno, alla finzione, alle consuetudini della mentalità servile e perciò alla dismissione civile e morale da parte dei cittadini. Ma il punto focale del ragionamento di Ciaramelli è il legame tra depressione e servitù volontaria con tutti i risvolti psicoanalitici che ne conseguono, da Freud a Lacan. Al di là dell’ovvio cerchio del potere e della politica che ha visto l’alternarsi ad esempio nel nostro Paese di ”tanti uomini della Provvidenza”, si apre il nucleo più profondo del Discorso che si origina dal senso di insufficienza, di privazione e di inadeguatezza dell’individuo. Scrive Ciaramelli che la servitù volontaria e la depressione «appaiono accomunate dal fatto che in entrambe va visto l’esito di atteggiamenti, prese di posizione, modi di agire, che gli individui coinvolti non subiscono passivamente, ma nei quali è in gioco, sia pur in forma negativa, la loro libertà, la loro capacità di autodeterminarsi, la loro potenza d’agire» (p.72). Dietro questo nesso costitutivo tra indebolimento dell’autostima, fallimento delle capacità individuali e gratificazione nell’asservimento c’è la paura della catastrofe che l’individuo sente minacciosa su di sé. Del resto, fa notare Ciaramelli, già Leopardi in memorabili pensieri dello Zibaldone spiegava come l’assenza di amor proprio generi «indifferenza, inazione, insensibilità verso sé stessi» (p.73) con effetti assimilabili a quelli della depressione. Che quest’ultima si saldi in maniera sorprendente con la servitù volontaria è il dato più impressionante dell’argomentazione di Ciaramelli nel senso che «balza agli occhi la simmetria fra l’incapacità di assumere l’onere della libertà (incapacità che induce a desiderare la servitù) e l’inettitudine ad affrontare la vita (inettitudine che induce a desiderare la morte)» (p.73). La crisi della democrazia sembra avere qui una propria origine, trova il terreno fertile nella società depressa o nella spinoziana epoca “delle passioni tristi” quando gli individui atomizzati e frodati si rassegnano all’inautenticità, all’interdizione di ogni parola che non sia nel copione che hanno ricevuto dal tiranno materiale o simbolico si chiami l’Uno, o il Padre, o il Capitale. A questo punto si potrebbe dire in modo non ovvio che la servitù volontaria diagnosticata da La Boétie riveli il suo lato estremo e radicale nella inopinata propensione verso l’autodistruzione da parte dei dominati, che «si limitano a dar voce alla negazione del desiderio di esistere […] caratteristico di chi ha perso la voglia di reagire e andare avanti, perché ormai non crede più nella possibilità d’un rilancio del desiderio di libertà e di vita» (p.79).

Questo testo cinquecentesco, sempre in bilico tra stupore, amarezza e invettiva, incita alla riflessione critica, costringe il lettore a prendere posizione perché non si lasci a sua volta assuefare ai poteri dominanti e che non lasci assuefare la propria libertà, che è libertà dal potere e da ogni forma di tirannide. Occorre essere decisi e risoluti nel desiderare la propria libertà. Il Discorso di La Boétie, una volta demistificato il consenso come fondamento della dominazione sociale, parte esattamente da qui, ossia dai toni della sua denuncia per riuscire a dissolvere il misterioso amalgama di sottomissione e libertà che nutre il desiderio dell’uomo.