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Le insicurezze del lavoro in Robert Castel

 

  (cfr. il testo di Robert Castel)


 Se nella configurazione delle nostre società, poste sotto l’egemonia del capitale finanziario, la precarietà e l’insicurezza sono incontestabilmente divenute un attributo permanente delle nostre vite, pochi però come Robert Castel hanno saputo analizzarne le ricadute regressive nel campo dei diritti sociali, e le ragioni per le quali le trasformazioni del lavoro risultano tanto più difficili da sopportare per le attuali generazioni.

Nel breve testo intitolato Il ritorno dell’insicurezza sociale, scritto nel 2011, Castel mostra appunto, nel modo più chiaro possibile, come il lavoro non rappresenti più oggi il centro della protezione sociale, e quali conseguenze discendano, in termini di esperienza personale e collettiva, da un tale stato di cose, definendo la specifica articolazione contemporanea del rapporto tra protezione e sentimento di insicurezza.

In verità, per quell’attitudine denaturalizzante che gli è propria, già in un importante scritto del 2003, L’insicurezza sociale, Castel aveva dimostrato come il sentimento di insicurezza non possa essere banalmente inteso come un dato immediato della coscienza, in quanto dipendente da configurazioni storiche differenti, nella misura in cui «la sicurezza e l’insicurezza sono rapporti relativi ai tipi di protezioni che una società assicura o non assicura in maniera adeguata»1. L’insicurezza, cioè, non consegue semplicemente all’assenza di protezioni sociali – che, se così fosse, sarebbe impossibile spiegare la sua diffusione nelle nostre società, protette come nessun’altra –, ma è l’effetto di un «dislivello tra un’aspettativa socialmente costruita di protezioni e le capacità effettive, da parte di una determinata società, di farle funzionare»2.

A partire dal XIX secolo, infatti, le conquiste maturate dalle lotte sociali hanno progressivamente costituito un sistema di protezione dai rischi originato dal compromesso tra capitale e lavoro proprio del dopoguerra, che ha visto i lavoratori associati piegarsi alle esigenze del capitalismo beneficiando in cambio di un complesso di protezioni estese sulla base di condizioni stabili di impiego. Le protezioni sociali sono state cioè il frutto di questo compromesso, e per la prima volta nella storia dell’umanità hanno posto un argine a quella che Castel definisce l’insicurezza sociale permanente, vale a dire l’impossibilità storica delle classi popolari di securizzare l’avvenire per la precarietà delle condizioni materiali della loro esistenza. Più esattamente, nel riconoscimento dei diritti sociali risiede la risposta al fallimento della promessa liberale di una società fondata su rapporti contrattuali di individui liberi ed eguali, che produce in realtà l’esclusione di tutti coloro «le cui condizioni di esistenza non possono assicurare l’indipendenza sociale necessaria per entrare alla pari in un rapporto contrattuale»3.

Ma nel corso degli anni Settanta, dopo il primo shock petrolifero e per effetto delle esigenze dell’internazionalizzazione degli scambi, lo Stato non riesce più a far fronte alla nuova direzione dell’economia, e mentre il compromesso di cui sopra viene meno, il nuovo capitalismo tende ad aumentare la sua redditività attraverso l’abbassamento dei salari e degli oneri sociali e la deregulation del lavoro. Si colloca qui l’origine delle disparità infracategoriali – le quali hanno generato una concorrenza all’interno delle stesse categorie di lavoratori –, della mobilità discendente di gruppi dapprima assicurati, della precarizzazione diffusa e della mobilità dei percorsi professionali con conseguente dequalificazione di massa e condanna alla marginalità, e finanche di quella gestione fluida e flessibile del lavoro che è divenuta oggi patrimonio comune, nell’incapacità degli stati di rispondere alle nuove congiunture economiche, e nell’assenza di potenze pubbliche internazionali in grado di contenere la frenesia del profitto.

In Il ritorno dell’insicurezza sociale, a distanza di tre anni dalla crisi del 2008, dopo aver analizzato i tratti dell’insicurezza sociale che ha storicamente segnato la condizione popolare, Castel ne mostra il ritorno, ma con i tratti inediti propri della precarietà generalizzata. Da circa quindici anni, sottolinea il sociologo, «la categoria dei lavoratori poveri è riapparsa nel nostro paesaggio sociale. Si può di nuovo lavorare e trovarsi comunque sul filo del rasoio per provvedere ai propri bisogni e a quelli della propria famiglia»4. E benché il ‘vivere alla giornata’ non sia affatto un fenomeno nuovo nella storia, il suo ritorno, con tutto il suo carico di insicurezza, è di gran lunga peggiore della sua configurazione premoderna, proprio perché successivo a una stagione di sicurezza e perciò ben più difficile da accettare. Difficile anche perché i sistemi statali di protezione sono stati completamente interiorizzati dagli individui, essendo divenute la protezione e la sua stessa rivendicazione parte della loro ‘natura’, in modo opposto rispetto a quando si riteneva che l’insicurezza sociale fosse un destino comune e dunque un carattere ineluttabile della condizione popolare. Tesi, questa, che rende in qualche modo conto di come la convinzione di essere lasciati ai margini, nell’incapacità di controllare il proprio futuro, alimenta costantemente come reazione un diffuso sentimento di abbandono e di risentimento da parte di quei gruppi sociali e di quegli individui che, in passato assicurati, vengono a trovarsi ora sovraesposti e indeboliti.

Sono queste ragioni a rendere necessaria la creazione di protezioni all’altezza della nuova congiuntura capitalistica, ed è convinzione di Castel, espressa in questo saggio come già nel 2003, e sulla scorta dell’aspirazione di Karl Polanyi ad addomesticare il mercato, che ciò potrà appunto discendere solo da un nuovo compromesso tra capitale e lavoro.

Ciò, si può aggiungere, è oggi ancor più necessario anche perché, dopo tanti anni in cui gli individui hanno vissuto, di fatto e di diritto, in condizioni sociali che hanno garantito loro una seppur minima indipendenza, il venir meno delle protezioni e delle forme di sicurezza del lavoro, accompagnato dalla tendenza allo smantellamento dei cosiddetti settori improduttivi, annovera tra i suoi effetti il rinsaldarsi di vincoli di dipendenza sociali, e conseguentemente la radicalizzazione dei rapporti di potere e il rafforzamento del ricatto cui è sottoposto tanto il lavoratore quanto colui che aspiri a esserlo, e ancora chi lo è di fatto ma non di diritto, finendo col compromettere il senso stesso della cittadinanza sociale.

1 R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti? (2003), trad. it. di M. Galzigna e M. Mapelli, Einaudi, Torino 2004, p. 5.

 

2Ibidem.

 

3 Ivi, p. 39.

 

4 Id., Il ritorno dell’insicurezza sociale, infra.