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Dimenticare Las Vegas?


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Il postmodern architettonico e la società della comunicazione
nell'ambito del nuovo capitalismo

 

 

I magazzini BEST di Houston

 

Alba del postmodern

Nel 1972 Robert Venturi, architetto e docente americano di notorietà internazionale, pubblica insieme alla moglie Denise Scott Brown e al collega Steven Izenour un libro dal titolo sorprendente, “Learning from Las Vegas”. Nel 1974 il gruppo SITE progetta la facciata indeterminata, o meglio apparentemente crollata, dei magazzini BEST di Houston, primi di una celebre serie. Nel 1978 Charles Moore completa il progetto di Piazza d'Italia nel centro di New Orleans, da molti considerata il paradigma del nuovo stile. Nel 1980 la “Strada Novissima” della Biennale di Venezia porta le nuove scelte sulle prime pagine delle riviste e dei giornali, mentre il libro di Paolo Portoghesi “Dopo l'architettura moderna” ne pone una base teorica all'europea: il postmodern ormai è nato, ha ricevuto il suo nome e si sviluppa rapidamente. Oggi, 2013, la sua morte è già stata decretata diverse volte, ma è senza alcun dubbio una morte apparente.

Al principio si pone quindi un testo che ha come tema la città di Las Vegas, uno di quei luoghi fisici e mentali che gli intellettuali europei tendono a disprezzare come “americanate”; Learning from Las Vegas fu un libro di successo, citato da moltissimi e letto da pochi, capito correttamente nella sua forza provocatoria, spesso frainteso nelle sue proposte architettoniche. La tesi di Venturi proponeva Las Vegas come sintesi e perfetta materializzazione dell'ideale capitalistico, vale a dire il manifesto tangibile di una esuberanza economica che diventa esuberanza visiva.

Las VegasLas Vegas nel 1972 è la città delle insegne, dei casinò colorati e rutilanti, del gioco e della prostituzione sfacciatamente esposti, della possibilità di arricchirsi senza fare nulla. Bob Venturi non sa ancora che a Las Vegas si costruiranno Torri Eiffel e Ponti di Rialto e che l'architettura della città si svilupperà in chiave Disneyland; Venturi non lo ha previsto, ma nella sua intuizione di imparare dalla pubblicità dei casinò si trova qualcosa di geniale da un lato e di ossessivo dall'altro: geniale perché Learning from Las Vegas è diventato uno slogan fortunato, ossessivo perché l'attacco di Venturi a Mies e a Le Corbusier, negli anni Settanta ancora mitici e presi a modello da tutti gli studenti d'architettura del mondo, è pieno di ingiustificato livore, come se le scelte dei grandi architetti moderni fossero state dettate da ignoranza e da insipienza.

La scelta di mettere Las Vegas al centro di un corso universitario (tale è l'origine degli studi di Venturi, professore a Yale, e del libro stesso) alla fine degli anni Sessanta appare in effetti scandalosa, ma al di là di alcune trovate nella terminologia il libro di Venturi, ripetitivo e abbastanza sconnesso nell'esposizione teorica, è poca cosa rispetto – ad esempio – a qualunque libro di Le Corbusier1. Volendo riassumere, secondo Venturi il mondo occidentale deve vedere in Las Vegas un punto d'arrivo, non solo come aspetto formale, ma anche come contenuti; è il simbolismo l'argomento centrale, quel simbolismo combattuto dai modernisti nel nome della funzione e che ora si vuole riportare in luce come cuore della progettazione. Venturi sfida le convenzioni, affermando di preferire le architetture brutte e banali a quelle originali e straordinarie; indica nella Pop Art il riferimento artistico e confronta le insegne luminose sulla Strip di Las Vegas con le cattedrali gotiche, con gli archi di trionfo, con i palazzi del Rinascimento: ce n'è abbastanza per gridare allo scandalo o per battezzare un nuovo profeta. Pur privi di omogeneità stilistica, secondo Venturi gli spazi urbani di Las Vegas

non hanno alcun debito verso lo spazio così come si è storicamente configurato. Lo spazio di Las Vegas non è contenuto e racchiuso come quello medievale, né classicamente bilanciato e proporzionato come quello rinascimentale; non è mosso da un movimento ordinato ritmicamente come quello barocco, né fluisce attorno a elementi isolati come in quello moderno. È un'altra cosa. Ma cosa? Non il caso, bensì un nuovo ordine spaziale, che mette in rapporto l'automobile e la comunicazione della highway in un'architettura che abbandona la pura forma a favore della combinazione di media. Lo spazio di Las Vegas è talmente diverso dai docili spazi per i quali avevamo sviluppato strumenti analitici e concettuali, che per poterne trattare abbiamo bisogno di nuovi concetti e di nuove teorie2.

Las VegasNaturalmente, non solo Venturi deve essere introdotto tra i padri del nuovo stile; se si parla di storicismo più che di formalismo, i grandi teorici del postmodern architettonico sono due architetti europei, il lussemburghese Rob Krier e l'italiano Aldo Rossi3. Entrambi hanno definito e affermato la fine della modernità in architettura, il primo accusandola soprattutto di superficialità, il secondo con toni più moderati, ma alla fine con la stessa denuncia di scarsa comprensione della storia.

 

L'economia e il postmodern

L'America di Las Vegas negli anni Settanta sta uscendo dalla modernità, intesa come dimensione positivistica, razionale e ancora industriale, e sta affrontando il percorso successivo fatto di speculazioni finanziarie, di scommesse intellettuali, di un'economia non più collegata alla produzione industriale ma all'azzardo finanziario, un percorso diretto verso la costituzione della successiva New Economy, interamente basata sulla virtualità di Internet.

Si ricorderà che gli anni Settanta in Europa sono gli anni di piombo, e gli anni Ottanta e Novanta quelli del riflusso. La dimensione politica, ovvero dell'impegno politico, cambia drasticamente e vede una sorta di assestamento dopo il movimento rivoluzionario del Sessantotto e gli autunni caldi dei sindacati. Gli americani vivono queste fasi con largo anticipo perché i loro movimenti studenteschi e sindacali si sono manifestati almeno cinque anni prima (e il disimpegno segue una tabella cronologica simile): Bob Dylan e Joan Baez sono sulla cresta dell'onda già nel 1963.

 

Piazza d'Italia a New Orleans

Tuttavia, non ha importanza cercare date precise per segnalare la nascita o la fine di una tendenza; si può dire grossolanamente che negli ultimi due decenni del XX secolo l'Occidente assiste a un progressivo ribaltamento nella struttura produttiva, con la sistematica diminuzione delle braccia operative, gli operai, il crescere dei colletti bianchi, e soprattutto l'affermarsi della nuova locomotiva economica, non più l'industria ma la finanza. Lo sviluppo rapido dei collegamenti telematici e la loro diffusione garantiscono uno scambio istantaneo di notizie e di dati, consentendo ai mercati di gestire in tempo reale i capitali investiti. Negli anni della presidenza Clinton (1992-2000), la speculazione di borsa e l'avvento delle società legate a Internet, le dot.com, provocano quella che verrà chiamata la bolla finanziaria della New Economy, destinata a esplodere tra lacrime e sangue negli anni zero del duemila.

Negli ultimi quattro decenni si sono affermati quindi valori nuovi, spesso molto discutibili, ad esempio nel merito del rapporto tra il mondo sviluppato e quello in via di sviluppo, sistematicamente sfruttato dal primo. La grande novità a livello internazionale è stato poi l'emergere delle due potenze asiatiche, Cina e India, che hanno saputo capire il punto debole dell'Occidente, il costo della mano d'opera, inserendosi nella base stessa del meccanismo produttivo, con la massiccia creazione di fabbriche di elementi basilari a bassissimo costo.

Il postmodern architettonico è l'immagine e il riflesso di questi dati economici; ma non bisogna cadere nella trappola di costruire paralleli con il liberismo reaganiano o thatcheriano, perché a livello strutturale si tratta di argomenti legati al capitalismo avanzato, che tanto la destra che la sinistra hanno sposato da molto tempo. Per gli architetti, come scrive Fredric Jameson4,

le posizioni postmoderne sono sorte insieme a una critica implacabile del moderno avanzato e del cosiddetto International Style […]. Di tutte le arti è però l'architettura quella costitutivamente più vicina all'economia, con cui intrattiene un rapporto potenzialmente immediato, sotto forma di commissione e valore dei terreni; non sorprenderà quindi che la straordinaria fioritura della nuova architettura postmoderna sia basata sul patronato del giro d'affari multinazionale, che si espande e si sviluppa in stretta contemporaneità con essa.

Il successo del postmodern si affianca di fatto a un disincanto politico ed economico ed esprime la sua avversione al Moderno, se si identifica il Moderno con la grande fase industriale e razionale che ha costruito la ricchezza del capitalismo occidentale. D'altra parte, il postmodern gioca con l'eclettismo, si imbeve di disinvolte citazioni classiche, di libertà compositiva, di irrazionalità, di fantasia, con un sistematico sconfinamento nel cattivo gusto, trasformato in ironico e buono5. Postmodern quindi come opposizione al moderno, ma anche semplicemente come decadenza e conseguenza del moderno; di fatto, un termine talmente ambiguo da consentire letture opposte6. Non sembra casuale che la critica d'arte, non ancora la storia, si dimostri vaga nel definire i limiti dello stile, a volte visto come un enorme contenitore di tendenze diverse, a volte come un delimitato momento manierista, conclusivo della modernità, allo stesso modo in cui il Manierismo cinquecentesco segnò la fine del Rinascimento.

Ma per restare ai tempi nostri, i romanzi di Don DeLillo, Thomas Pynchon e Umberto Eco, le sculture di Jeff Koons e i film di Matthew Barney, il design di Philippe Starck e di Ettore Sottsass, hanno manifestato e manifestano con esiti molto più validi lo stesso impianto giocoso e/o irrispettoso delle regole che Robert Venturi delinea imparando da Las Vegas. In parallelo, le banche e la finanza internazionale continuano a giocare molto seriamente a dadi e ignorano quelle regole del capitalismo e dell'industrializzazione che sembravano sacre ed eterne: produrre beni concreti, investire ciò che si guadagna, rischiare ma non troppo, indebitandosi solo nell'ambito del guadagno possibile.

Oggi un capitalista miliardario produce servizi, vende comunicazione, e vive in uno stato di perenne rischio fallimentare, anche se in realtà il rischio è coperto dalle stesse banche cui deve miliardi. In un anno di produzione record, i padroni della FIAT potevano incassare denaro liquido in quantità X, oggi il padrone di Mediaset incassa varie volte X vendendo pubblicità sulle proprie reti di comunicazione: parole che comprano parole, oggi, non certo manufatti che utilizzano materie prime, come ieri.

Lo ha scritto lucidamente Gianni Vattimo7:

 […] un altro grande fattore è stato determinante per la dissoluzione dell'idea di storia e per la fine delle modernità, ed è l'avvento della società della comunicazione. […] Questa moltiplicazione vertiginosa della comunicazione, questa presa di parola da parte di un numero crescente di sub-culture, è l'effetto più evidente dei mass media, ed è anche il fatto che – intrecciato con la fine, o almeno la trasformazione radicale, dell'imperialismo europeo – determina il passaggio della nostra società alla postmodernità.

L'architettura di questo nuovo capitalismo basato sulla comunicazione è quindi un gioco complesso, leggero e giocoso nella volatilità delle insegne luminose come dei capitelli e dei frontoni colorati, drammatico nella disgregazione di parti come nell'assemblaggio di stili diversi. È il postmodern dei suoi stessi teorici Venturi, Rossi e Krier, e di personaggi popolari come Frank Gehry, James Sterling, Michael Graves, Philip Johnson, Mario Botta, Richard Meier e tanti altri; da alcuni di loro sarebbe poi nata la costola effimera e in fase di scomparsa del decostruttivismo architettonico, lo stile probabilmente più dispendioso e formalistico che si sia conosciuto dai tempi di Villa Adriana. Collegandosi direttamente alla crisi finanziaria degli ultimi cinque anni, la parabola del decostruttivismo, dopo il vertice raggiunto nel 1997 dal celebre Museo Guggenheim di Bilbao, si è oggi volta bruscamente verso il basso, con buona pace di quanti si ostinano a ritenere le architetture aeroportuali di Zaha Hadid un atto di opposizione all'eclettismo postmodern e non una sua morbosa variante.

 

Intermezzo: due esempi postmodern

Vediamo ora, seguendo una linea analitica, di confrontare una situazione New Economy con un'architettura postmodern; i casi di Google da una parte e del berlinese Sony Center a Potsdamer Platz possono essere a mio avviso una buona scelta. Si tratta di due colossali scommesse, nello spirito più ottimistico degli anni appena descritti: sia Google sia il Sony Plaza hanno infatti giocato e vinto a Las Vegas.

Il Sony Center di Berlino

Gli americani da qualche anno usano un nuovo verbo “to google”; ad esempio, I googled you significa che ho fatto una ricerca in Internet su di te. I più giovani, nel senso anagrafico ma anche nel senso di freschi utenti del web, pensano che Google sia Internet, convinti forse che l'ente denominato Google sia il padrone di questa misteriosa risorsa denominata Web. Ma per chi in rete c'è entrato negli anni Novanta, la presenza di fatto di un monopolio nelle ricerche continua ad apparire singolare, confrontata con il disordinato e molteplice meccanismo dei primi anni. Google è nata appena sedici anni fa, naturalmente nell'area di San Francisco e naturalmente fondata da due studenti, Brin e Page, e oggi da semplice motore di ricerca innovativo si è trasformata in un'azienda di dimensioni colossali, con 30mila impiegati e 900mila server sparsi per il mondo, in grado di rispondere in microsecondi alle richieste di qualunque utente.

Il Sony Center a Berlino comprende il palazzo della Sony, il Museo e il Palazzo del cinema, alcune sale di proiezione, altri palazzi di residenze e di uffici, tra cui il grattacielo delle Ferrovie Tedesche; è caratterizzata dalla piazza coperta da un tendone obliquo di quattromila metri quadrati, opera dell'architetto tedesco-americano Helmut Jahn; l'intera area supera i tre ettari di superficie. La gente tuttavia identifica il Sony Center con la piazza coperta, sulla quale si affacciano uffici, ascensori trasparenti, ristoranti, il nuovo museo del cinema, e maxi schermi televisivi; al centro una fontana circolare, al di sotto il più avanzato cinema multisala della capitale tedesca8.

È inutile in questa sede soffermarsi sui numeri impressionanti che caratterizzano le performance di Google e del suo indotto (si ricordi che all'azienda californiana appartengono YouTube, Gmail, GoogleMaps, e il sistema operativo Android); qui ci interessa sottolineare come Google rappresenti uno degli archetipi del nuovo mondo postmoderno. Infatti, chi mai in epoca passata avrebbe non immaginato, ma soltanto pensato di raccogliere notizie su un conoscente tramite il telefono? O di ritrovare in tempi minimi e rivedere un programma televisivo di vent'anni fa? O di leggere gratuitamente sullo schermo di un PC un libro dell'Ottocento? Google consente agli utenti di essere attivi, di scegliere, e si presenta come il perfetto maggiordomo del padrone/cliente. La società della comunicazione indicata da Vattimo si esprime al suo meglio nella rete hardware/telefono di Internet e nel software/algoritmo di Google. Va infatti capito bene che senza l'algoritmo che guida Google, Internet (o meglio il Web) sarebbe un caos; le ricerche su migliaia di siti sarebbero snervanti e la possibilità di non trovare qualcosa sarebbe alta, pregiudicando la ricerca stessa. Se tramite Internet è stato creato l'infinito archivio del mondo, Google ne è oggi il catalogo ragionato, che rende l'archivio utilizzabile.

Nel Sony Center, Helmut Jahn ha affrontato il tema urbano per eccellenza, la piazza, e ne ha fornito una versione nuova e straordinaria, perfettamente adeguata alle premesse del postmodern. Jahn ha descritto la sua opera parlando di entertainment e di virtualità, e forse la sua architettura rappresenta il più compiuto esempio della maniera di questo quarantennio, laddove la televisione, il cinema, lo spettacolo, la folla, i reality-show, sono protagonisti e artefici di strutture promiscue, accoglienti, caotiche, inutili.

La piazza di Jahn è di fatto un teatro cosmopolita, le cui quinte sono le facciate interne di palazzi commerciali, enormi schermi sovrastanti gli attori, che sono gli spettatori stessi. La memorabile copertura del forum, fatta di vetro e acciaio a forma di imbuto rovesciato e inclinato sul proprio asse di simmetria, è un miracolo tecnico legato soprattutto all'uso di vetri laminati, tenuti insieme da un anello d'acciaio alla base e da un cono in cima. La copertura diventa allora l'architettura per eccellenza, che copre e ripara dal sole o dalla pioggia e che, cambiando colore sia per il variare delle ore e del clima sia per un giocoso sistema di illuminazione elettrica, desta la sorpresa e l'ammirazione della folla.

 

Prospettive sostenibili

Se quindi il quarantennio postmodern si trova agli sgoccioli della sua capacità propulsiva, cosa possiamo aspettarci dopo? Battezzare post-post-modern ciò che viene dopo il postmodern sarebbe davvero un cedere le armi davanti alla storia, ma suona improbabile anche l'affermarsi di una nuova fase razionalista e/o funzionalista, seguendo l'antico concetto di alternanza. Qualcosa c'è di pronto, ma è talmente avanzato, corretto e positivo che il suo successo appare improbabile, visti i tempi di crisi economiche, terrorismi, colpi di stato e rovesciamenti politici. Questo qualcosa è la sostenibilità, un termine usato spesso male e con intenti pubblicitari, ma che possiede una grande profondità culturale, riassumibile in una sola parola: qualità. La qualità opposta alla quantità, il risparmio contro lo spreco, la sintesi contro l'analisi, il rispetto contro la distrazione. In termini economici, il blocco della speculazione finanziaria usata come struttura economica e l'utilizzo di fonti di energia rinnovabili; in termini politici, l'avvento di amministrazioni attente all'ambiente e proiettate verso la riqualificazione dell'esistente piuttosto che verso la sua distruzione; in termini architettonici e urbanistici, la progettazione di residenze e infrastrutture che sappiano generare da sole la propria sopravvivenza e che garantiscano un rapporto dolce con il suolo.

Per ora, nessuna azienda, nessuna banca e soprattutto nessun paese sta scegliendo in pieno questa strada, anche se i Paesi Scandinavi e la Germania appaiono lanciati su strade virtuose in tal senso; contemporaneamente tuttavia una corrente architettonica si è sviluppata e delineata con chiarezza, al punto che le sue scelte dovrebbero porsi come riferimento per le scelte politiche. La bioarchitettura, o architettura sostenibile, esiste da alcuni decenni come pratica sotterranea di architetti ecologisti, ma solo nel Duemila ha potuto produrre grandi e piccoli edifici, in grado di integrarsi nel modo meno invasivo con l'ambiente e di sfruttarlo per la produzione di energia. Le stesse direttive dovrebbero diventare i fondamenti di un'economia ripulita dall'azzardo, dalla scommessa finanziaria, dalla speculazione urbanistica, dallo sfruttamento delle risorse dei paesi arretrati a vantaggio di quelli avanzati. Saremo in grado di dimenticare Las Vegas?


Note al testo

1 Molto più interessante era stato alcuni anni prima (1966) il volume di Venturi Complexity and Contradiction in Architecture, un manifesto di rivolta contro il modernismo imperante.

2 Imparare da Las Vegas, pag. 104

3 I libri più importanti dei due architetti sono: Rossi, A., L'architettura della città, e Krier, R., Lo spazio della città, due testi che - come dicono i titoli stessi - affrontano un'analisi più legata all'urbanistica che all'architettura.

4 Jameson, F., Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989, p. 15

5 È chiaro che ci sono stati grandi preannunciatori della fine del Moderno già in tempi lontani, e io vedo due grandi austriaci nati ai tempi di Francesco Giuseppe come antesignani: Robert Musil inventore del romanzo in cui non succede nulla, e Adolf Loos, il nemico della decorazione, inventore di un'architettura iper-razionale che usa le forme classiche con la massima disinvoltura.

6 Parole siffatte sono decisamente comode da coniare, perché abbinano al significato un elemento cronologico, finendo per essere spesso contraddittorie

7 Vattimo, G., La Società trasparente, Milano, Garzanti, 1989, p. 7

8 Gran parte della descrizione del Sony Center risale al mio articolo Tra Parigi e Potsdam pubblicato nel 2007 su European Art Magazine, oggi sul mio sito personale www.andreabonavoglia.it