Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Startup, classe creativa e capitalismo delle “relazioni”.

download del file pdf






Note per una discussione

Le riflessioni che seguono sono relative alla lettura di due libri sulle nuove “forme del lavoro” e sul “capitalismo digitale”. Il primo di questi libri, il più importante, serio e stimolante, è quello di Carlo Formenti, intitolato Felici e sfruttati. Il capitalismo digitale e l'eclissi del lavoro1. Il secondo, molto meno stimolante, ma a suo modo utile come “oggetto” teorico su cui riflettere, è il libro a più (troppe) mani, curato da Gianni Vattimo, Pasquale Davide de Palma e Giuseppe Iannantuono, dal titolo Il lavoro perduto e ritrovato2.

La discussione di tali libri mi ha dato l'opportunità di rileggere l'importante saggio di Jean-Luc Nancy, La création du monde ou la mondialisation3, pubblicato in Francia nel 2002. Tale rilettura mi ha portato a porre in questione l'ideologia della creatività che è il presupposto (in parte non ancora indagato) sia delle teorie neo-liberiste relative alla “classe creativa” (Florida4) sia delle teorie che (apparentemente) si oppongono alle attuali forme del capitalismo tecno-globalizzato.

 

1. Lavoro produttivo-lavoro improduttivo

Ancora negli anni Settanta dello scorso secolo, nella fase di inizio della profonda crisi dell'economia capitalistica fordista e pre-informatica, la distinzione/opposizione tra “lavoro produttivo” e “lavoro improduttivo” sembrava teoricamente e politicamente sostenibile. C'erano lavori che producevano “valore economico” (per il capitale) e lavori che per definizione non lo producevano, come i lavori di “servizio” statali (burocrazia, esercito, polizia, scuola, università). Per “lavoro produttivo” si intendeva allora quello specificatamente operaio, mentre quello improduttivo era invece quello dei travèt statali, ma anche quello degli insegnanti o dei poliziotti. Tuttavia, la “centralità” del lavoro operaio per il profitto capitalistico faceva sì che, in modo a volte indiretto ma sempre ideologicamente potente, quel tipo di lavoro assumesse i connotati di “lavoro umano” per eccellenza, con una confusione di piani discorsivi alla quale pochi si sottraevano. Tanto che allora era molto comune l'equiparazione tout court del lavoro intellettuale al lavoro improduttivo, anche se sarebbe bastato leggere meglio Marx per riportare la distinzione ai suoi termini precisi.

Carlo Formenti, a questo proposito, ricorda un passo di Marx molto significativo (che qui cito in una versione più ampia e in una differente traduzione):

 Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l'imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d'istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all'operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale [corsivo mio].5

 Marx, quindi, non concepiva affatto il lavoro operaio di fabbrica come lavoro “caratteristicamente umano” o comunque superiore “in dignità” ad altre attività umane perché “produttivo” di valore economico (per il capitalista). Qualsiasi attività umana sfruttata economicamente da altri produce profitto, quindi valore economico. Dal brano prima citato è evidente che per Marx “produttiva” è qualsiasi attività umana se “sfruttata” per estorcere profitto.

Il corollario di tale tesi è che tutte le altre attività umane, e la stessa attività che gli operai potevano svolgere fuori della fabbrica, avrebbero dovuto essere considerate “improduttive”, perché non soggette allo sfruttamento capitalistico. L'aggettivo “improduttivo”, quindi, non indica affatto un'attività umana di grado inferiore, ma semplicemente l'attività umana non (ancora) soggetta allo sfruttamento capitalistico. C'è un'attività umana sfruttata economicamente e un'altra no. La prima è “produttiva”, la seconda no.

Come già Marx ed Engels avevano previsto, il capitalismo ha progressivamente eroso questa stessa distinzione e separazione di attività6. Formenti cita opportunamente a tal proposito il famoso “frammento sulle macchine” contenuto nei Grundrisse di Marx7, per mostrare come le categorie marxiane siano ancora valide per comprendere la trasformazione del capitalismo da capitalismo hard di tipo fordista a capitalismo informatico e cognitivo che ha mutato nel profondo le forme del lavoro contemporaneo. L'utilizzo dell'informatica è stato il “catalizzatore” di una trasformazione radicale del capitalismo; trasformazione che ha reso non più praticabile la separazione tra lavoro produttivo e improduttivo, in quanto è l'intera attività umana che è divenuta sfruttabile e sfruttata (cfr. infra).

Le reti informatiche hanno trasformato il capitalismo dei consumi, che prosperava ancora sulla (relativa) separazione tra tempo di lavoro (coatto e sfruttato nella grandi fabbriche fordiste) e tempo del loisir,dell'intrattenimento, in un bio-tecno-capitalismo che sa sfruttare ogni manifestazione vitale dei prosumers (“producer” + “consumer”) attraverso la loro continua e radicale “profilatura”, fino ad individualizzare l'offerta ad un punto tale che tra l'offerta e la domanda individuale non ci sia più differenza: l'offerta commerciale, potremmo dire, non è che la domanda “in forma invertita”8.

L'economia web 2.0, sostiene Formenti con ottimi argomenti, non è affatto fuori dal capitalismo, come affermano molti guru della wikinomics, ma è una nuova fase del capitalismo, fase in cui «il tempo e le idee donati dai prosumers vengono integralmente convertiti in semilavorati per la creazione di merci. Le grandi testate della stampa economica, come il Wall Street Journal e l'Economist, lo chiamano crowdsourcing (estrazione del valore generato spontaneamente dalle folle interconnesse)»9.

Gli stessi sostenitori dei commons digitali e dell'attività degli sviluppatori di software gratuito, o gli stessi hacker rischiano oggi seriamente di «fare la figura degli “utili idioti” convocati per ammorbidire la durezza del capitalismo globale»10.

Il nuovo capitalismo digitale non prevede più la separazione tra lavoro produttivo e improduttivo né quella tra tempo di lavoro e tempo del loisir. Tutto il tempo della vita dei prosumers, nonché quella della “classe dei creativi” (cfr. infra) è materia “semilavorata” da vendere con profitto alle aziende capitalistiche.

Tutto il tempo della vita è percepita dai “creativi” come tempo di loisir, anche “dentro” le aziende. E il management più avanzato ne è consapevole da tempo. È quello che si chiama “management della complessità”, così definito da Alessandro Cravera: «il management della complessità prevede un salto epistemologico. Il manager che vuole governare la complessità mette in secondo piano l'azione diretta e si pone come obiettivo fondamentale, diretto e consapevole la creazione di un contesto di lavoro che favorisca l'emergere di dinamiche auto-organizzative coerenti con gli obiettivi dell'impresa»11. E cita, come è ovvio, le organizzazioni aziendali della Google e della Apple. A proposito della prima, la Google, Cravera sottolinea: «nell'azienda di Mountain View, i dipendenti sono incoraggiati a spendere il 20% del loro tempo lavorativo nel modo che preferiscono, occupandosi dei progetti che suscitano maggiormente la loro passione, curiosità e interesse»12.

 

2. Creazione del valore economico

Sono molti i sostenitori della “fine del lavoro”13. Almeno all'interno dell'economia capitalistica informatizzata occidentale, questo sembra essere un punto di arrivo. Non si tratta di un'utopia, ma dell'effettiva condizione di vita di alcuni milioni di individui. Che poi all'interno di questi milioni di individui solo una piccola percentuale (diciamo alcune decine di migliaia) siano effettivamente ai vertici sociali e produttivi, mentre la stragrande maggioranza non è che una semi-élite precarizzata e sottopagata, non sembra intaccare l'assunto fondamentale delle teorie della “fine del lavoro”: la trasformazione dell'attività lavorativa in attività creativa spontanea e (apparentemente) non “coatta”. Per dirla in termini polizieschi è come se il crimine capitalistico (lo sfruttamento del lavoro altrui) fosse scomparso per mancanza di denunce e per l'assenza di prove. Se i “creativi” considerano la loro attività una passione e il tempo di lavoro semplicemente un tempo di libera espressione della loro “potenza di vita” (per dirla con Spinoza-Deleuze), allora il lavoro coincide con vita stessa, con la massima espressione delle sue capacità creative. Se non c'è più nessuno che denuncia il “crimine capitalistico” dello sfruttamento del plus-lavoro, allora forse siamo addirittura al di là del capitalismo stesso, siamo in un nuovo modo di produzione, come ha sostenuto Jeremy Rifkin, con la sua teorizzazione dell'economia dell'accesso14?

Formenti, appoggiandosi a sua volta ad altre analisi (Nicholas Carr15, Jaron Lanier16, Tim Wu17, Nello Barile18), ha buon gioco nel mostrare l'inconsistenza teorica di tali posizioni.

Non siamo affatto “fuori” dal capitalismo, ma in una sua nuova fase. Il capitalismo digitale è un bio-capitalismo che, sulla base della tendenziale identificazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, è capace di estrarre valore economico da tutte le espressioni della vita dei miliardi di persone inter-connesse. Il crowdsourcing, la “profilatura” dei prosumers non sono altro che le forme attuali di estrazione del valore economico, di estrazione di plus-valore.

Tuttavia, su questo punto il discorso dello stesso Formenti sembra incontrare un'aporia costitutiva, di cui solo in parte sembra essere consapevole. Ne parlerò fra un po'. Prima vorrei fare (con Formenti e non solo) un passo indietro agli anni Sessanta-Settanta dello scorso secolo. Sono gli anni dell'inizio della crisi della fase fordista del capitalismo industriale in occidente e sono gli anni della contestazione giovanile dei baby boomers.

Il Sessantotto, sostiene Diego Fusaro, fu «un ricco e variegato fenomeno di protesta che, nella sua logica, si rivolse contro la borghesia (con la sua morale autoritaria, paternalistica, conservatrice, ecc.) ma non contro il capitalismo […]. Con il Sessantotto, il controllo totale della società e, insieme, la crescente liberazione della sfera privata si sono sviluppati dialetticamente, in modo sinergico, tramite l'adozione di un'ideologia antiborghese e, per ciò stesso, ultracapitalistica»19.

Il discorso di Formenti, per quanto alla fine coerente con tale giudizio un po' drastico, è più articolato perché capace di ri-costruire un nesso tra le teorizzazioni operaiste di quegli anni cruciali e l'esaltazione della creatività in quelle a noi contemporanee. Forzando un po' il suo discorso potremo dire che tra le teorie operaiste del “rifiuto del lavoro” e le attuali teorie della “fine del lavoro” c'è intima coerenza.

I teorici italiani dell'operaismo (Raniero Panzieri, Mario Tronti, Antonio Negri), ponendo a tema, agli inizi degli anni Settanta, la crisi del capitalismo fordista, proposero al movimento operaio una netta trasformazione strategica della lotta di classe. L'obiettivo non doveva più essere la “gestione operaia” della fabbrica, ma la sua “distruzione” al fine di costruire nuove relazioni produttive e sociali. Potremmo dire che allora – forse al di là delle intenzioni dei teorici operaisti – si comincia ad opporre, sul piano della politica concreta, al capitalismo delle merci un'economia delle relazioni sociali (che poi si trasformerà in un capitalismo delle relazioni). Come scrive Formenti, si trattò allora di trovare anche nuove forme e strumenti organizzativi e politici: «partiti e sindacati vanno superati, in quanto le loro strutture sono speculari alle gerarchie del controllo capitalistico; l'organizzazione della lotta deve restare saldamente nelle mani degli operai, attraverso organismi di democrazia di base che escludano qualsiasi delega ai protagonisti della politica»20.

Ma accanto ai nuovi strumenti organizzativi della lotta di classe, i teorici dell'operaismo ritennero di poter identificare un nuovo “soggetto rivoluzionario”; non c'è teoria della rivoluzione, infatti, senza un “soggetto rivoluzionario” che sia tale in senso “oggettivo” – in quanto prodotto degli stessi processi storici – ma che poi, attraverso gli strumenti della lotta di classe, dovrà essere capace di quell'assunzione di “coscienza” rivoluzionaria che sola può dare inizio alla rivoluzione sociale. Questo soggetto non è più riducibile all'operaio di fabbrica ma deve essere “allargato” fino a comprendere il “proletariato giovanile” in senso lato e i nuovi movimenti femministi e ambientalisti. Il nome dato a questo nuovo soggetto rivoluzionario fu quello di “operaio sociale”. Le nuove rivendicazioni dell'operaio sociale segnarono allora una netta frattura con la posizione “socialdemocratica” del resto della sinistra tradizionale: «alla rivendicazione di salari sganciati dalla produttività subentra la richiesta di salario sociale sganciato tanto dall'attività lavorativa quanto dalla compatibilità con i livelli di spesa pubblica contrattati da stato, sindacati e imprese»21.

Formenti correttamente lega queste teorizzazioni e queste rivendicazioni alla teorizzazione della categoria “neo-operaista” di moltitudine elaborata, in Impero22, da Hardt e Negri. Il concetto di “operaio sociale” è il diretto antecedente di quello di “moltitudine”. Ed è del tutto convincente quando connette questa categoria bio-politica a quella della “classe creativa” teorizzata ad esempio da Richard Florida23, composta dai knowledge workers (scienziati, ingegneri, designer, architetti, giornalisti, artisti, esperti di marketing, sviluppatori di software …). Infatti, in entrambe le nozioni si tratta di opporre (ovviamente tale enfasi la si trova in particolare nei teorici della moltitudine) al capitalismo delle merci un'economia delle relazionisociali – fondata comunque sullo sviluppo delle tecnologie informatiche e sulla tele-comunicazione di rete – capaci di produrre valore economico-sociale non sfruttabile in senso “proprietario”24. In fondo, anche dietro la teorizzazione dei “beni comuni” c'è la stessa idea: quella che sia possibile organizzare un'economia sociale delle relazioni fondata su processi di valorizzazioni non sfruttabili capitalisticamente.

Le obiezioni che Formenti oppone ai teorici della moltitudine sono sostanzialmente due: da un lato ha gioco facile nel dimostrare come il bio-capitalismo “imperiale” di cui parlano Hardt e Negri sia un tipo di capitalismo che estrae valore economico sia dalla “classe creativa”, di cui sfrutta le capacità di innovazione, sia dai miliardi di prosumers, “profilati” in modo sempre più individualizzante e proprio attraverso le reti orizzontali e “comunitarie” del web 2.0. Dall'altro lato egli mostra come la “sfruttabilità” di tale vitale creatività delle “moltitudini” sia “monetizzata” dai processi di “privatizzazione” monopolistica che, nell'ultimo decennio, si sono prepotentemente imposti a dispetto della logica di libera condivisione tipica del web (ma sfruttandola). Questa tendenza privatizzante e monopolistica si è affermata attraverso accordi tra i produttori di nuovi oggetti iper-mediali, come gli iPod, gli iPhone, gli iPad (e qui il ruolo “capitalistico” di Steve Jobs è centrale al di là della pop-mitologia che lo ha trasfigurato), le aziende che forniscono le connessioni di rete e la grande industria culturale internazionale che fornisce i “contenuti”. In tal modo la logica “orizzontale” e free del web sta lasciando il posto a quella dei cosiddetti walled gardens, mondi “chiusi” ai quali si accede o attraverso i nuovi “oggetti” iper-mediali (con le loro App a pagamento)oppure attraverso i social-network come Facebook.

Formenti comprende perfettamente che ciò che descrive è una “contraddizione” interna all'attuale fase del tecno-bio-capitalismo: infatti «lo sforzo di “recinzione” dei commons immateriali che il capitalismo è costretto a compiere per integrare questa creatività sociale “indisciplinata” nella catena del valore, rischia di ammazzare la gallina dalle uova d'oro, indebolendo la spinta motivazionale alla libera cooperazione. D'altro canto non c'è via d'uscita, dal momento che, senza “privatizzare” i commons, il capitale non può trasformare i produttori indipendenti in forza lavoro»25.

Infine, è chiaro (ovviamente anche ai teorici della moltitudine) che l'attuale bio-tecno-capitalismo non potrebbe reggersi senza l'outsourcing della forza lavoro “fisica” nelle aree de-nazionalizzate (e privatizzate) del “quarto mondo”; la creazione dei commons immateriali in occidente non solo non esclude, ma si fonda sulle delocalizzazioni trans-nazionali delle imprese “hard” produttive di “merci materiali”.

Ma questo è un argomento troppo noto e tematizzato per soffermarci ora. Mentre vale la pena mettere in evidenza un'aporia che si situa per così dire a monte della stessa critica di Formenti.

 

 

3. Start-up (il capitalismo costituente)

Facciamo il punto sulla situazione appena descritta. Quel che ho chiamato sinteticamente bio-tecno-capitalismo mi sembra essere caratterizzato da una “generalizzazione” e da un “restringimento”: da un lato, infatti, la sfruttabilità dell'attività vitale altrui si è generalizzata, dall'altro il suo sfruttamento capitalistico tende a restringersi nelle mani di élite economico-finanziarie. Gran parte delle analisi sociologiche sono concordi nel descrivere la tendenziale sparizione delle “classi medie”. Nelle megalopoli “globalizzate”, in cui si concentra la maggioranza assoluta sia della “classe creativa” che del potere finanziario, questa tendenza sembra inarrestabile. Tuttavia, ciò che le analisi sociologiche che attestano la sparizione delle classi medie non sempre mettono in evidenza è questa “polarizzazione” tra la generalizzazione della sfruttabilità delle relazioni sociali e la concentrazione dello sfruttamento, cioè della ricchezza “proprietaria” e monetizzata nelle mani di élite sempre più ristrette. Quindi, la tesi che sostiene che gli individui che compongono la classe “creativa” sono, in quanto creativi e iper-connessi, sempre più sfruttabili e sfruttati dalle grandi aziende del tecno-capitalismo globalizzato, afferma senza dubbio il vero, ma sottace qualcosa e manca di qualcos'altro. Dimentica innanzitutto di ammettere che, paradossalmente, nella classe creativa bisogna necessariamente includere tutta l'imprenditoria capitalistica. Anzi, la condizione “creativa" è una sorta di generalizzazione della condizione capitalistica, per lo meno in statu nascendi. Non a caso alcuni teorici della classe creativa parlano di “capitalismo personale”. Io parlerei a questo proposito piuttosto di “capitalismo delle relazioni”. Si tratta insomma della tendenziale estensione all'intera umanità della concezione neo-liberale dell'individuo e delle sue relazioni sociali. E sulla pervasività di tale ideologia molto si è scritto e detto. Ma non sempre si è messo in evidenza come anche la teoria della moltitudine (la versione di “sinistra” della “classe creativa”) si fondi in ultima istanza sulla medesima (storica) “antropologia”. Chi ritiene che i processi di valorizzazione siano innanzitutto processi sociali di circolazione di idee, progetti, linguaggi, saperi tecnici, legami, relazioni (circolazione di relazioni di relazioni ...), per quanto sostenuto con le migliori intenzioni anti-capitalistiche, non si accorge che questi processi sono l'humus dell'impresa capitalistica. È come opporre (ancora una volta)26 il buono del movimento (capitalistico) al cattivo dell'istituzione (capitalistica), ma soprattutto è come opporre le cosiddette start-up alle grandi imprese già stabilizzate. Insomma, l'esaltazione delle relazioni in quanto “produttive” di valore (simbolico o economico, in questo caso non fa differenza) in questa fase storica in particolare (ma credo che il discorso possa essere con buoni argomenti generalizzato) coincide con l'esaltazione dell'humus stesso del capitalismo. Investire in relazioni è da sempre il vero start-up dell'impresa capitalistica. Uno start-up non-ancora-monetizzato, ma start-up.

Arrivo quindi alla mia tesi: è la stessa nozione di “creatività” che dovrebbe essere decostruita e/o messa in discussione. Compito estremamente complesso, per quanto a mio avviso urgente.

Non potendo svolgerlo in questa sede, sono costretto a limitare il discorso ad un punto, nello specifico alla discussione di un'aporia che, a proposito della “creatività”, risiede nel cuore della teoria marxiana della rivoluzione.

 

4. Schöpfung und Produktion (la “creazione del mondo” o la mondializzazione)

Nel 2002 Jean-Luc Nancy pubblica il suo La création du monde ou la mondialisation, che si presenta come il tentativo di pensare quella che potremmo chiamare l'aporia (marxiana) della creazione del valore. Nancy trovava che nella teoria marxiana della rivoluzione comunista ci fosse un'aporia che bisognava lavorare e tematizzare per avere la possibilità di comprendere come nel movimento reale della storia e del capitalismo fosse all'opera (per quanto nella forma dell'inoperosità27) il comunismo. Bisognava comprendere come questo sviluppo storico del capitalismo fosse anche il dispiegamento delle condizioni del comunismo.

Per farlo Nancy commentava alcuni famosi passi dell'Ideologia tedesca.

C'è un brano, in particolare, in cui Marx ed Engels, utilizzando un termine carico di teologia, vale a dire Schöpfung, parlano della “creazione degli uomini” (da parte degli uomini). Prima di citare questo brano, su cui si concentra il commento di Nancy, vorrei ricordare, per avere un termine di confronto, che, nel Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels sosterranno che la condizione oggettiva del comunismo sarebbe stata progressivamente realizzata dal capitalismo attraverso la proletarizzazione universale,conseguenza dell'esproprio della stragrande maggioranza dell'umanità di ogni “proprietà privata”28. Perché ricordo questa tesi così nota? Perché questa tesi, più o meno coeva con quella (differente) dell'Ideologia tedesca, descrivendo una situazione di estrema indigenza, non parla in modo esplicito della questione della “creazione degli uomini” o di quella di un “mondo umano” finalmente libero dal giogo capitalistico. La predilezione di Nancy per (alcuni brani de) l'Ideologia tedesca nasce forse dal fatto che la tesi del Manifesto, per quanto meno problematica, non sarebbe in grado di spiegare come sia possibile che il processo capitalistico, che è un processo di radicale espropriazione faccia crescere dentro di sé un mondo umano e non piuttosto la distruzione di ogni umanità possibile. So bene che tutto sta a comprendere il significato della nozione di “espropriazione”, che tanto può essere intesa come distruzione di ogni forma di proprietà privata – con la conseguente “produzione” di “comunità” (ma anche su questo tema le opzioni teoriche sono molteplici29) – tanto può essere intesa come la distruzione della possibilità stessa di un “mondo umano” derivante dalla definitiva riduzione di qualsiasi relazione umana a puro e semplice calcolo capitalistico (che implica, nella sua struttura, lo sfruttamento del lavoro degli altri). Nancy si rende perfettamente conto che qui si tratta forse di un punto di non ritorno: “socialismo” o “barbarie” come si diceva un tempo; “creazione del mondo” oppure “agglomerazione” (vale a dire riduzione del mondo ad un agglomerato di merci), come egli scrive, con la consapevolezza teorica che quell'oppure ha (“simultaneamente ed alternativamente” egli precisa, mettendo le mani avanti rispetto all'aporia che sa di aver trovato) un senso “disgiuntivo” (tra “creazione del mondo” e “agglomerazione” bisogna scegliere), “sostitutivo” (la “creazione del mondo” è sinonimo di “agglomerazione”)30 o “congiuntivo” (la “creazione del mondo” e l'agglomerazione conducono allo stesso risultato).

Ma vorrei riportare subito il famoso passo dall'Ideologia tedesca su cui si concentra Nancy:

Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto “Spirito del mondo” ecc.), a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista e la proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell'individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutto il globo (creazione degli uomini) [corsivo mio]31.

Nancy, mettendo in campo nozioni come quelle della ricchezza come “sfarzo” (opposta alla scambiabile ricchezza della “merce”) e del “valore dell'esser al mondo”, traduce la marxiana “ricchezza spirituale reale dell'individuo” (vedi sopra) nei termini di una ricchezza “simbolica” eccedente l'ordine mercantile-capitalistico dell'equivalenza universale (ordine derivante dalla scambiabilità delle merci con il denaro); ricchezza prodotta continuamente, “senza ragione” (calcolabile), dallo stesso “con-esser-al mondo”32 degli uomini.

«Se il capitale non riesce a riassorbire integralmente nella merce questa risonanza senza ragione, – scrive Nancy – ciò significa che il capitale non si basa solo sulla merce: qualcosa precede il capitale, e questo qualcosa è la ricchezza come sfarzo, la ricchezza che non produce nuova ricchezza ma produce il suo stesso splendore, la sua opulenza come irradiazione di un senso da cui il mondo è sempre già avvolto […]. Il capitale non fa che convertire lo sfarzo in accumulazione produttiva di una ricchezza definita dalla sua stessa (ri)produttività»33. Si tratta quindi di due “ricchezze”, una sfarzosa e senza-ragione, l'altra derivante dallo sfruttamento capitalistico della prima. Nancy sostiene che il capitalismo non può reggersi se non sfruttando questa creatività di senso continuamente prodotta dagli individui. Sembra quindi descrivere la situazione del bio-capitalismo cognitivo delle relazioni di cui stiamo parlando. Per tale ragione anche per lui – in singolare vicinanza con i teorici della moltitudine – si tratta oggi di lottare per sottrarre allo sfruttamento capitalistico e privatistico questo “fiorire” del senso di mondo, questa creatività produttiva di senso simbolico (perché il mondo è il suo senso simbolico34). È una vera e propria lotta, egli scrive, «dell'Occidente contro se stesso, o del capitale contro se stesso. È la lotta tra due infiniti, l'infinito dell'estorsione e l'infinito dell'esposizione»35. Una lotta che egli arriva a specificare fin nei termini di una domanda morale “quotidiana”: «in che modo ti impegni nel mondo? In che modo ti proietti verso un godimento del mondo in quanto tale e non verso la semplice appropriazione di una certa quantità di equivalenza?»36.

Nancy non sembra accorgersi, quindi, del fatto che proprio quella “creazione di valore simbolico” sia la produzione di quel “semilavorato” (espressione che riprendo dal testo di Formenti) sfruttabile non solo – e questo è il punto – dalle cattive grandi imprese “estorsive” del capitalismo globalizzato, ma da chiunque, essendo quella produzione di valore la “generalizzazione” della condizione start-up del capitalismo. Quando il valore consiste nella creazione di idee, simboli, linguaggi, design, tecnologie, siamo tutti nella necessità di sfruttare il lavoro degli altri fino anche a monetizzarlo. Altro che “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Qui siamo di fronte (almeno nell'ideologia) ad un aumento esponenziale della possibilità del profitto. La pretesa contraddizione tra la “creazione di mondo” e la produzione di un “agglomerato di merci”, che per Nancy è il cuore del capitalismo, è molto più una contraddizione interna ai movimenti e alle teorie di opposizione al capitalismo. Finché si resta all'interno di una logica della “creazione di valore” (sia esso simbolico che monetario), finché si resta all'interno della nozione di produzione (sia essa di beni materiali che immateriali) ci si muove sempre all'interno di un bio-tecno-capitalismo (finanziario nella sua essenza, cfr. infra) ormai diventato condizione di vita e di esistenza.

Bisognerebbe quindi decostruire o comunque fare i conti con il non-detto di questa nozione di “creazione-produzione” che sembra essere diventato il presupposto trascendentale di ogni discorso economico, socio-politico, antropologico.

Un compito complesso e lungo, pieno di insidie e possibili passi falsi. Il primo di questi sarebbe quello di opporre alla logica della creazione-produzione una logica della distruzione e della de-creazione. Il passo falso in questo caso non consisterebbe nella teoria della “distruzione” ma nella sua semplice opposizione a quella della creazione-produzione (come se, per “creare” non si dovesse in qualche modo distruggere...). Con la distruttività, che alberga da sempre nella storia umana, bisogna assolutamente fare i conti, ma non per assolutizzarla o astrarla dall'impasto con l'impulso alla forma e alla creazione. E poi bisognerebbe individuare e descrivere i luoghi e le istituzioni sociali e culturali, se ce ne sono ancora, attraverso i quali la distruzione e la creazione, il dispendio e la conservazione, la morte e la vita, il silenzio e la parola possano trovare il loro dis-armonioso accordo. Ma queste “istituzioni” sociali e culturali sembrano oggi scomparse.

 

4. Scommesse e azzardi

La critica all'ideologia della creatività è materialisticamente già nei fatti, nella stessa storia umana in generale, nella stessa storia recente in particolare.

Lasciando infatti sullo sfondo la realizzazione di una compiuta analisi critica e decostruttiva della nozione di “creatività”37 (compito troppo complesso e lungo, in generale e per il sottoscritto), vorrei limitarmi qui, in conclusione, a mostrare come l'attuale forma del capitalismo sia, nella sua essenza, finanziaria”. In questo modo sarà possibile vedere all'opera quell'impasto di creazione e (auto)distruzione che è già un primo passo decostruttivo dell'ideologia della creatività e dell'economia del win win – vale a dire dell'economia del “tutti vincono (e sono felici)” perché tutti creano quel valore che ognuno può all'occorrenza monetizzare, passando all'incasso (come in un'enorme “catena di S. Antonio”). E perché questo è anche un modo per comprendere come la de-costruzione dell'ideologia della creatività sia già da sempre all'opera nei processi materiali (del capitalismo) delle relazioni.

Il bio-tecno-capitalismo delle relazioni è “finanziario” nella sua essenza. La ragione di ciò riposa, a mio avviso, proprio sul prevalere della sfruttabilità sullo sfruttamento; consiste nel prevalere dei processi di valorizzazione su quelli di sfruttamento privatistico.

Infatti, se le relazioni sociali (per quanto su argomentato) sono indefinitamente “sfruttabili”, la loro sfruttabilità coincide con la loro “finanziarizzazione”; l'investimento in relazioni è la base del capitalismo 2.0 che vede protagoniste imprese come “Facebook” e Google. Ma la logica 2.0 pervade tutti gli ambiti del capitalismo contemporaneo, che per tale ragione è strutturalmente “finanziario”. La finanza è “creativa” sempre, perché scommette sul possibile “sfruttamento” monetario dell'immensa miniera di relazioni creative di valore su cui si fonda. Si possono così “quotare” in borsa “stili di vita” (come è il caso della Apple), “segni di appartenenza” (pensate alle società di calcio), “tendenze cool”38 che, in quanto tali (stili, segni, tendenze), sono di tutti e di nessuno, sono il prodotto della creatività impersonale delle relazioni sociali.

La finanza “creativa” (ed “estorsiva” ad un tempo) scommette, quindi, sul futuro sfruttamento privatistico delle relazioni sociali. Chi compra in borsa questi titoli, compra, tuttavia, soprattutto dividendi di rischio perché le relazioni per loro natura tanto possono produrre futuro profitto tanto futura perdita/catastrofe. L'economia delle “relazioni” e delle merci immateriali è per sua natura infinitamente più instabile dell'economia delle merci materiali. Investire economicamente sulle relazioni significa scommettere fino all'azzardo, tentando al contempo di gestire i rischi di tale gioco. È un gioco in cui si può vincere parecchio ma anche perdere tutto. Come ricorda Marco Dotti nel suo recente “Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana”, gli esperti di marketing internazionale utilizzano da tempo una disciplina, la gamification, con lo scopo di «trasformare il consumo, il lavoro, il tempo libero, la politica, la frustrazione non meno della ricreazione in “gioco”, in narrazione avvincente di sé e, di conseguenza, in simulacro del vissuto»39. Attraverso le tecniche della gamification da un lato si sfruttano a fini commerciali le competenze ludiche acquisite da milioni di prosumers nei giochi informatici e di rete40, dall'altro si “producono” forme di vita psichicamente strutturate a “giocare” con le relazioni sociali. Il gioco così non è più vissuto come momento “separato” dalla vita quotidiana, ma è questa che si trasforma in un gioco continuo nel quale le relazioni diventano sempre più liquide e immaginarie e le possibilità della vincita e della perdita, le possibilità della salvezza e della catastrofe psichiche ed economiche sono vissute come interne al gioco stesso, come possibili “mosse” previste dal gioco e non come la “fine” reale dei gioco e dei giochi. Potremmo dire che la gamification delle “forme di vita” normalizza l'azzardo e la possibilità del rischio reale. Rende la “perdita” una fase del gioco stesso e produce soggettività incapaci di fronteggiare le perdite e le sconfitte reali. Oggi non c'è più “tragicità” neanche nelle forme più esplicite di gioco d'azzardo. L'azzardo “tragico” richiede una forma di soggettivazione che è ormai in via di sparizione.

Ciò che resta è l'oscura dipendenza (dal gioco), una dipendenza sempre più incapace di fare i conti con il suo stesso inferno.


Note al testo

1 C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano 2011.

2 Il lavoro perduto e ritrovato, a cura di G. Vattimo, P. D. de Palma, G. Iannantuono, Mimesis, Milano 2012.

3 J.-L. Nancy, La creazione del mondo o la mondializzazione, trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2003.

4 R. Florida, L'ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori, professioni,trad. it. di F. Francis, Mondadori, Milano 2003.

5 K. Marx, Il capitale. Critica dell'economia politica. Libro I, a cura di D. Cantimori, ristampa dell'edizione anastatica del 1989, Editori Riuniti, Roma, 1994, p. 556.

6 «La borghesia […] ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo di scienza, in salariati ai suoi stipendi» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1979, p. 103).

7 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, edizione italiana a cura di G. Backaus, Einaudi, Torino 1977.

8 Uso liberamente la famosa definizione lacaniana relativa alla “comunicazione umana”.

9 C. Formenti, Op. cit., pp. 58-59

10 Ivi, p. 59.

11 A. Cravera, La rivoluzione della complessità. Per un management controcorrente,in Il lavoro perduto e ritrovato, cit., p. 147.

12 Ivi, p. 151.

13 Primo fra tutti, Jeremy Rifkin, di cui vedasi La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era del post-mercato, trad. it. di P. Canton, Baldini & Castoldi, Milano 2001.

14 J. Rifkin, L'era dell'accesso. La rivoluzione della new economy, trad. it., Mondolibri, Milano 2000.

15 N. Carr, Il lato oscuro della rete. Libertà, sicurezza, privacy, trad. it. di M. Vegetti, Rizzoli, Milano 2008.

16 J. Lanier, Tu non sei un gadget. Perché dobbiamo impedire che la cultura digitale si impadronisca delle nostre vite, trad. it. di M. Bertoli, Mondadori, Milano 2010.

17 T. Wu, The Master Switch. The Rise and Fall of Information Empires, Alfred Knopf, New York 2010.

18 N. Barile, Brand New World, Lupetti – Editori di Comunicazione, Milano 2009.

19 D. Fusaro, Sensibilmente sovrasensibile. L'ideologia del capitale umano,in Il lavoro perduto e ritrovato, cit., pp. 119-120. Il discorso di Fusaro è molto lucido nelle analisi ma, a mio avviso, oscuro nelle prospettive politiche che egli ritiene di dover esplicitare. Finisce infatti per proporre un«universalismo cosmopolitico delle differenze, ossia un'etica universale, comunitaria e anti-capitalistica, rispettosa del valore assoluto dell'individuo inserito nella comunità» (p. 124).

20 C. Formenti, Op. cit., p. 95.

21 Ivi, p. 97.

22 M Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, trad. it. di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2001.

23 Cfr. R. Florida, L'ascesa della nuova classe creativa, cit.

24 «Il modo di produzione della moltitudine – scrivono Hardt e Negri – si riappropria della ricchezza dal capitale e, con ciò, crea nuova ricchezza, articolata nel potere della scienza e della conoscenza sociale attraverso la cooperazione. La cooperazione annulla i titoli della proprietà. […] La proprietà privata dei mezzi di produzione, oggi, nell'era dell'egemonia della cooperazione del lavoro immateriale, è soltanto un putrido e tirannico anacronismo. Gli strumenti di produzione tendono ad essere ricomposti in una soggettività collettiva, nell'intelligenza collettiva e nell'affettività dei lavoratori; l'imprenditoria tende a essere sempre più chiaramente organizzata dalla cooperazione dei soggetti nel general intellect. L'organizzazione della moltitudine come soggetto politico, come posse, inizia ad apparire sulla scena mondiale. La moltitudine è un'auto-organizzazione biopolitica» (M Hardt, A. Negri, Impero, cit.,p. 379).

25 C. Formenti, Op. cit., p. 115.

26 Cfr. sull'opposizione tra “movimenti” e “istituzioni” il classico studio sociologico di F. Alberoni, Movimenti e civilizzazioni culturali, Unicopli, Milano 1978.

27 Cfr. J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1992.

28 Rivolti ai loro detrattori “borghesi” Marx ed Engels scrivono: «Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell'enorme maggioranza della società» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1979, p. 150-151).

29 Cfr. B. Moroncini, La comunità e l'invenzione, Cronopio, Napoli 2001.

30 Nancy scrive “mondializzazione”, ma credo che sia molto meglio utilizzare anche qui il termine “agglomerazione”, in modo da rendere la tesi più radicale (forse anche oltre le intenzioni di Nancy).

31 K. Marx – F. Engels, L'ideologia tedesca, trad. it. di F. Codino, II edizione, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 27-28.

32 Cfr. J.-L. Nancy, Essere singolare-plurale, trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2001.

33 J.-L. Nancy, La creazione del mondo o la mondializzazione, cit., pp. 29-30.

34 So bene che quello del “senso del mondo” è un tema (forse il tema) ontologico fondamentale del pensiero di Nancy. Qui sono costretto ovviamente a schematizzare molto e a non poter dar conto della complessità e delle aporie di tale nozione e di tale tentativo (oltre al citato Essere singolare plurale, su tale questione cfr. anche il suo Il senso del mondo, trad. it. di F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 1977).

35 J.-L. Nancy, La creazione del mondo …, cit., p. 38.

36 Ibidem.

37 Cfr. ora i contributi contenuti nei due numeri dedicati alla “creatività” da Tropos. Rivista di ermeneutica e critica filosofica: 1) Rethinking Creativity. Between Art and Philosophy, edited by A. Bertinetto e A. Martinengo, Tropos, anno IV, numero 2, 2011; 2) Rethinking Creativity. History and Theory, edited by A. Bertinetto e A. Martinengo, Tropos, anno V, numero 1, 2012.

38 Se ne era già accorta Naomi Klein, in alcune pagine del suo famoso No logo, quando scriveva, a proposito dell'attivismo anti-brand, «gli attivisti […] devono stare attenti che le loro campagne non finiscano per diventare una sorta di “guida agli acquisti” che esalta lo shopping “etico”» (N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, trad. it. di E. Trading e S. Borgo, Baldini & Castoldi, Milano, 2001, p. 401).

39 M. Dotti, Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana, O barra O Edizioni, Milano 2013, p. 83.

40 Sulla gamification vedasi l'articolo di M. Ryan, A. Sleigh, K. Wee Soh, Z. Li, Perché la gamification è una cosa seria, trad. it. in Outlook. La rivista del business ad alte performance, n. 1, 2013 (l'articolo è reperibile all'interno del sito www.accenture.it ).