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Per non essere io, fingerò... Su Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene.


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Dio Dio! È fatto di due nomi il nome di Dio!
Carmelo Bene

 

Diventare cretini(il lavoro sul personaggio)

«A volte, sospendeva la prova come un attore – ancora in testa la corona di spine – e ripensava a tutti i cretini del mondo. Avrebbero tutti volentieri barattato la propria idiozia con i laghi del suo fallimento»1, così scrive, ad un certo punto, il protagonista di Nostra Signora dei Turchi, commentando i suoi reiterati tentativi di “diventare cretino”. Siamo nella sua casa ad Otranto, una casa che si trasforma di continuo da camerino d’attore a palcoscenico, a retropalco.

In questo folgorante romanzo del 1966 è condensata, a mio avviso, tutta la poetica teatrale di Bene2. Il romanzo, se letto in questa prospettiva, oltre ad essere una complessa partitura scenica, è una continua riflessione sul teatro e, in particolare, sul lavoro dell’attore. Cercherò di far emergere tale assunto soffermandomi su tre momenti “critici” di tale lavoro: il lavoro sul personaggio (e su se stesso),l’entrata in scena, e l’essere in scena, in modo tale che la paradossalità del discorso teatrale beniano appaia in tutta la sua forza e la sua aporetica lucidità.

L’obiettivo esplicito che il protagonista del romanzo persegue, il diventar-cretino, ha strette attinenze con quello che, nella tradizione novecentesca post Stanislavskij, si chiama il “lavoro dell’attore su se stesso” (e il “lavoro dell’attore sul personaggio”)3. Ma ne è la parodia.

Il protagonista si prepara ad entrare di scena, sottoponendosi ad esercizi rituali. Ne inventa molti di riti e li ripete. Quello descritto nel primo capitolo, ad esempio, assomiglia alla preparazione, parodistica e seria nello stesso tempo, della messa cattolica. C'è uno specchio, c'è un tavolo su cui il protagonista poggia oggetti vari, candele, cianfrusaglie. La ripetizione del rito dovrebbe portarlo al perfetto stato di “demenza” (o di cretineria). Eppure, «in questi riti, salvo una o due volte soltanto, non era mai riuscito a superare i preamboli – egli scrive –. Si era smarrito nel rituale, sfinito, ferito, addormentato o ubriaco, e senza grazia»4. Nel quarto capitolo – immaginando/descrivendo un sinodo vescovile a casa sua che, dopo attento esame del suo diario, decide di farlo santo – il protagonista chiarisce che «ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna»5. I primi, è chiaro, sono i santi ignoranti, come san Giuseppe da Copertino, che, “a bocca aperta” e sguardo rivolto verso l'alto, volava e vedeva la Madonna: «ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono»6, sfuggendo al loro io attraverso l'identificazione con l'oggetto della loro contemplazione7:

vedono in una visione se stessi, con le varianti che la fede apporta: se vermi, si vedono farfalle, se pozzanghere nuvole, se mare cielo. E dinanzi a questo alter ego si inginocchiano come davanti a Dio […]. Divino è tutto quanto inconsciamente hanno imparato di sé. Hanno visto la Madonna. Santi8.

Più difficile è capire chi siano, invece, “i cretini che non hanno visto la Madonna”. Una traccia però l'abbiamo. Questi cretini sono in effetti dei cretini "mancati", vale a dire dei cretini che “mancano” la santità-demenza, che mancano lo stato di incoscienza. Resta loro solo la consapevolezza dell'impossibilità di diventare perfettamente cretini e l'impossibilità di non desiderarlo. Nostra signora dei Turchi è la descrizione di tale necessario fallimento, di tale “necessaria” rovina dell'attore. La santità dei santi ignoranti, come San Giuseppe da Copertino, è tale, infatti, perché priva di “io” – ed è una santità cui va sempre tutta l’ammirazione di Bene9. Non si può diventar cretini senza perdere l’io. Per tale ragione, l’attore che vuole raggiungere questo stadio di santità-demenza non può farlo attraverso l’identificazione con il personaggio, in quanto tale identificazione renderebbe ipertrofico l’io: è l’io, infatti, l’io dell’attore (l’io di ognuno) che è nella sua struttura “personaggio”10. Credere che il lavoro dell’attore possa consistere in una tendenziale identificazione con il personaggio porterebbe all’ipertrofia dell’io-narciso, porterebbe all’iperbolica alienazione speculare dell’io e mai alla demenza, mai all’ignoranza di sé, mai alla santità. Il “cretino che non ha visto la Madonna” è, allora, l’attore che, senza privarsi della coscienza, sa che il suo scopo (lo stato di grazia e di demenza) può realizzarlo solo “mancandolo” e fallendo l’identificazione con il personaggio e, innanzitutto, con il suo stesso “io”. Se lo stato di demenza è uno stato di depensamento (parola beniana centralissima), allora i Santi ignoranti lo raggiungono dimenticandosi («chi vola non si sa»11), mentre l’attore può raggiungerlo solo fallendone il raggiungimento, solo, quindi come non-attore, attraversando il processo della distruzione del sé e della sua immagine speculare, ma senza abbandonare la “coscienza”.

Il primo capitolo descrive due modalità del fallimento: la prima è l'essere esposti alla contingenza di accadimenti imprevisti: per quanto l'attore abbia predisposto la cerimonia del rito – il protagonista del romanzo denomina tale predisposizione orsa-maggiore – c'è sempre il rischio del prodursi di eventi casuali – li definisce l'orsa-minore – che mandano all'aria la perfetta riuscita della cerimonia. L'altra modalità del fallimento lo indica nel «versaccio sacrilego» capace di “sconsacrare” il rito:

la sconsacrazione era l’agente forse più pericoloso in tutto l’esercizio, e poteva subentrargli ovunque, minandogli o la fase propiziatoria o il pieno della improvvisazione, quanto più imprevedibile, tanto più incontrollata. Come un tic. Lo specchio se ne incrinava e tutto era perduto. Continuare a questo punto era impossibile. In questi casi, e quanto frequenti, egli copriva lo specchio con uno straccio opaco, disordinava il tavolo, come gli altari il venerdì santo e ingeriva una dose di sonnifero12.

Solo una o due volte, scrive, «egli era riuscito a sfiorare l’idiozia»13.

 

Sbagliar casa (l'entrata in scena)

Nei capitoli quinto e sesto troviamo introdotto in modo più chiaro il tema dell'assedio turco. Confondendo i piani temporali e, al contempo, quelli di un’immaginosa descrizione e di una realistica allucinazione, la narrazione passa continuamente dalla leggenda del martirio dei cristiani d'Otranto perpetrato dai turchi cinque secoli prima, dopo lungo assedio, alla descrizione del nuovo assedio e dell'imminente invasione dei turisti estivi.

Cominciava un assedio, un altro. – si legge – E il paese tutto bianco si industriava ad affrontarlo. Era ovunque un odore di calce. Egli seguiva l’opera dei muratori, restauratori e imbianchini, mobilitati tutti in una volta da un’estate prematura. Quest’assedio sarebbe durato di più. C’era anche una spiegazione: l’ufficio d’igiene aveva senz’altro comunicato che il paese non si sarebbe arreso finché l’ultima cantina non fosse stata tutta rimbiancata e in ordine14.

Il palazzo moresco, che si erge di fronte alla casa di lui, è il simbolo di un'antica dominazione e di una reiterata, estiva, e ben più pericolosa invasione turistica. Il protagonista immagina di essere uno dei martiri cristiani dell'antico massacro turco, le cui spoglie, conservate nella cripta della Cattedrale, sono in attesa degli sguardi distratti, al tempo stesso incuriositi, dei turisti. Tuttavia, a differenza degli altri martiri egli conserva, nel volto coperto di perle e diamanti, gli occhi e la capacità di guardare: «se ne stava immobile in attesa che nessuno se lo portasse via»15. Questo elemento, che può apparire bizzarro e unicamente provocatorio, è invece legato al tema dell’attore-vampiro, non-morto, su cui Bene rifletterà continuamente nel corso della sua vita teatrale. Ma di questo dirò dopo. Conviene ora continuare il commento di queste pagine. Dopo aver introdotto la questione dell’assedio turco-turistico, il protagonista immagina di proporre all'assessore al turismo di Otranto l'allestimento di una sacra rappresentazione durante l’imminente occupazione turca. Per contrastare lo scetticismo dell'assessore gli spiega che, «dal momento che la città è indifesa»16, a nulla sarebbe valso tentare di organizzare una resistenza. Meglio sarebbe stato tentare di recitare a tale platea di condannati …

con disimpegnato furore, una qualunque parabola senza principi, esaltante il dubbio e la vigliaccheria [...] una preparazione spirituale alla resa, se non si voleva farne dei martiri. [...] Ve li immaginate i turchi sfondare una porta aperta? Entreranno. Non troveranno una fede da castigare. Si ridurranno a vagabondare per le vie del centro, turisti alla ricerca di quanto avrebbero dovuto fare, perduti a sera, tra le inesattezze della loro storia, finché, scandalizzati dai prezzi, se ne andranno17.

Il teatro per Bene non ha finalità politiche né etiche, anzi è l’esonero da ogni politica possibile, anche da quella rivoluzionaria, e da ogni etica “dei beni”18. È esonero dai presupposti stessi sia della politica (la presa del potere) che di ogni etica dei beni (il legame con l'altro in vista di un bene comune). Rispetto alla prima, la Politica, il teatro è piuttosto una "preparazione spirituale alla resa". Rispetto alla seconda, l'etica dei legami e dei beni (da spartire), il teatro è solo monologo che “separa”, mai dialogo che (falsamente) unisce. Il teatro beniano non serve a costruire la Storia, né la Politica né l’Etica, senza essere con ciò nichilista. Né è una forma estetizzante di ritiro intimistico dal mondo e di rifugio nel teatro, perché proprio quest’ultimo, come mostra innanzitutto Nostra Signora dei Turchi, non è un interieur dove rinchiudersi, non è una casa da abitare, al riparo dal mondo.

Per comprendere meglio quest’ultimo passaggio, conviene ora spostare l’attenzione su di un episodio narrato nei capitoli sesto e settimo del romanzo, che, esemplificando la problematica dell’entrata in scena, è la perfetta teorizzazione dell’inabitabilità della scena teatrale.

Il protagonista del romanzo scrive lettere che spedisce (agli altri e a se stesso) e lettere che non-spedisce, che non invia, lettere senza destinatario ma che contengono – lo si lascia intendere – essenziali verità che lo riguardavano. Decide di rileggerle quelle lettere, ma rileggerle equivale a derubare se stesso: «avrebbe dovuto sorprendersi, quando magari era assente. Avrebbe dovuto assentarsi, agire fuori di sé, aprirsi un varco attraverso il muro»19. Insomma, avrebbe dovuto derubare se stesso, a sua insaputa (sic). È l'attore che si prepara ad entrare in scena. Prepara le valigie, mettendoci surrealisticamente dentro: «la bandiera tricolore, due cilindri, un pacco di candele, carta igienica, una veste da donna, una corona di rose, una di spine, una risma di carta bollata, l'elenco del telefono di Nizza [...]»20.

Non sorprende che il suo tentativo fallisca. Da quanto sin qui detto, è chiaro che il fallimento sia strutturale, che esso sia la modalità d'essere del non-attore. Infatti, dopo una rocambolesca fuga da Otranto, con valigie al seguito, il protagonista vi ritorna e, approfittando del rumore dei fuochi artificiali della notte di San Lorenzo, rientra in casa rompendo faticosamente un muro – dal momento che vuole mostrare agli altri di essere stato derubato mentre era fuori città – scoprendo, tuttavia, di aver sbagliato casa: «Non era in casa sua. Non era quella la sua stanza, né quella di prima la sua anticamera»21; e conclude: «non avrebbe più letto le sue lettere, almeno quest'anno»22.

L'attore, sembra dirci Bene, entra in scena davvero solo se la manca, solo se “sbaglia casa”. Il risultato, comico e tragico nello stesso tempo, è la sua completa “dis-identificazione”, un fallimento che è, però, un’acquisizione, un fallimento che è la condizione per poter restare in scena. Tale fallimento è visibile sul suo corpo d'attore: allo specchio il protagonista contempla la «deposizione più rossa e disarmante che avesse mai ammirato. Era il suo corpo un compito svogliato, segnato da errori a matita rossa [...]»23. Da una delle sue valigie prende una corona di spine e se la pone sul capo; «era ormai su una pubblica piazza. Esigevano. Si voltò agli sguardi. E non osò – poté guardarsi»24. È solo in scena, solo davanti al pubblico.

Se volessimo analizzare, con tutti i rischi della schematizzazione, questa complessa solitudine dell’attore sulla scena, dovremmo descriverla come attraversata da due istanze, quella dell’assenza della donna e quella inesistenza dell’attore (del non-attore).

 

Non esisto, dunque sono (l'essere in scena)

La prima e l’ultima frase del romanzo sono quasi identiche e dicono, per quanto nella forma della battuta teatrale ad effetto, l’assenza della donna: «Flora, vestiti e vattene! Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata»25.

Le donne che compaiono nel testo sono tre: Margherita, Santa Margherita, e la servetta adolescente dell’ultimo capitolo e che il protagonista chiama Flora, anche se solo nelle due occasioni citate. Le prime due figure di donna in effetti sono la stessa donna, per così dire, raddoppiata. Margherita, raddoppiata in Santa Margherita, è un’evidente parodia delle Gretchen della tradizione faustiana26. La prima, quella “terrena”, quando appare svolge il ruolo dell’amante (o della fidanzata); la seconda – che spesso è chiamata dal protagonista “fata”, con cripto-riferimento intertestuale alla “fata turchina” del Pinocchio beniano27 – appare come la Signora che “salva” e “perdona”. Spesso i due ruoli si sovrappongono, spesso non è subito chiaro a quale delle due Margherite il protagonista si rivolge – a volte, esplicitamente, è ad entrambe nello stesso momento28 – ma è evidente che non è di esse che la solitudine dell’attore “manca”. È anche troppa la “presenza” di loro due, in fondo, ed è una presenza scenica da cui il protagonista continuamente si ritrae. Sia nel secondo capitolo del romanzo che in una delle scene più riuscite del film del 196829, la donna/Margherita appare, secondo una crudele parodia pop-kitsch, o nelle vesti di una Santa Margherita da processione oppure come una giovane moglie/amante che, fumando a letto, sfoglia distrattamente una rivista femminile di gossip. Non è della donna-fidanzata (e futura e prolifica moglie), né della donna-fata-mamma che “salva e perdona” (Nostra Signora) che il non-attore, nella sua solitudine di scena, sente la mancanza.

Ciò che manca al non-attore è il femminile come de-pensamento e grazia, come s-pensieratezza e in-coscienza, come abbandono. L’attore stesso è definito da Bene come il «femminile elevato a Coscienza»30 – concetto quasi sovrapponibile a quello del “cretino che non ha visto la Madonna”. Al di là dell’indubbia misoginia beniana (di stretta derivazione laforgueana31), non credo sia possibile comprendere la sua poetica teatrale senza il riferimento costante a questa assenza (del femminile), nello stesso tempo critica constatazione (ci sono solo donne in giro sulle scene teatrali, mai abbandoni) e aporetico perseguimento dell’idea di un teatro fondato sull’assenza e non sulla presenza, sull’assenza di Dio e l’assenza della donna, e sulla morente e comica solitudine del non-attore.

Il culto come oltraggio al dio assente – scrive Bene in Sono apparso alla Madonna – mi avrebbe poi destinato a quella ‘rivoluzione’ teatrale ‘copernicana’, alla ‘sospensione del tragico’, al rifiuto d’essere nella storia, in qualunque storia, anche e soprattutto in scena.

L’essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita è se si vuole la chiave del mio smarrimento gettata in mare una volta per tutte. L’essermi alla fine liberato anche di me.

Il rifiuto alla crescita è conditio sine qua non alla educazione del proprio ‘femminile’. È rifiuto alla Storia, e alla conflittualità dell’historiette del quotidiano. […]

In croce ci sta sempre chi non è. In croce ci sta un Dio, non una donna.

Nella croce della ‘diffamazione’ c’è il soi, il medesimo. Diffamazione che cancella l’io o almeno lo ingiuria come fastidioso, arrogante, criminale, imbecille. Ma non di quella imbecillità senza pensiero tanto agognata, di quella cretineria che dorme a bocca aperta, da ‘cretino che avrebbe voluto mirarsi dormire’. Ecco il peccato di guardarci cretini mai abbastanza.

Questa grazia, questa spensieratezza che dovrebbero attribuire un femminile alla donna, non si dà, e allora qualcuno si dovrà assumere non solo la femminilità, ma anche l’idiozia della femminilità, il depensamento32.

La terza figura femminile che compare nel romanzo, quella della servetta bambina (in effetti adolescente nelle descrizioni), da un certo punto di vista sembra “alternativa” alla dicotomia amante/mamma, esemplificata dalle due Margherite – sembra infatti l’apparizione della femminilità “bambina” e s-pensierata, che spesso Bene evoca nei suoi testi («la bambina non è. Attraverso la bambina, la donna stessa non è»33) – ma che, in fin dei conti, non sfugge ad esser-donna anch’ella, attratta dalle incombenze casalinghe34 e strumento inconsapevole di procreazione della specie.

Della donna il non-attore fugge proprio questa “presenza” legata alla “cura” (del loro uomo, dei figli, della casa) e al “sesso” (in ultima istanza, sempre riproduttivo). Il femminile è tutt’altro, è abbandono, superficialità, maquillage, spensieratezza, in una parola, come si diceva, depensamento. A questo proposito c’è un altro passo della autobiografia beniana che è possibile mettere in stretta relazione con un episodio di Nostra Signora dei Turchi .

Parlando della capacità che le donne hanno di far apparire il “femminile” anche nei momenti più “seriosi” o “drammatici”, Bene scrive:

[…] solo davanti allo specchio [le donne] hanno quell’attimo di depensamento, nel loro rovinoso maquillage, perché è un maquillage che le distrugge, le annienta. Questa lezione di maquillage in che la donna si distrugge vale anche per il teatro.

È una grandissima lezione di teatro.

Qualunque donna parlando di un lutto, o di Martin Heidegger, o di Lacan – perché la donna è sempre disponibile a parlare di tutto – estrarrà fatalmente dalla sua trousse qualcosa, un rossetto, un po’ di cipria, e scimmiescamente, anche parlando di sua madre appena morta, dirà «Era così buona…» tra un colpettino e l’altro del piumino sulla gota. E in questa nuvola di cipria, in questa polvere bianca, svanisce la Madonna. Si smarrisce il «divino» in terra35.

Nel romanzo, invece, durante il rocambolesco tentativo di derubarsi per “sorprendersi” (e leggere le lettere “mai spedite”) – episodio di cui ho già brevemente parlato – il protagonista, dopo essersi fatto portare in taxi fuori da Otranto, con al seguito le due pesanti valigie, intraprende la strada del ritorno a piedi; per evitare di far tardi – lo spettacolo rumoroso dei fuochi d’artificio della notte di San Lorenzo sarebbe di lì a poco cominciato ed egli deve assolutamente raggiungere casa sua per entrarci, violentemente, come un ladro nel cuore della notte –, si sorprende a parlare con “lei”, Margherita e Santa nello stesso tempo:

non era producente camminare con due valigie sul ciglio della strada. Se l’avessero visto. Aveva preso meditando un sentiero immaginario tra gli ulivi, tanto tempo fa, premuroso ogni tanto domandando «sei stanca? ». E in veli, da un altro affanno più rosato, forse dai ciclamini sparsi in cielo, la voce di lei rispondeva «e tu? ». – Facciamo un’altra cosa. Mentre tu ti svesti, io sotterro le valigie, – disse insensato, – arriveremo prima che comincino i fuochi. – Si era messo a scavare con tutte e due le mani. Quando si fu svestita, la seppellì. Quanta terra, rossa ma non di sera; e poi, rivolto alla veste di lei appoggiata a un ramo, innamorato pazzo, le chiese: – Andiamocene!

Ed era o gli pareva ancora di seguire una veste più leggera. Ma sempre con in mano due valigie […]36.

La donna che manca (nel doppio senso: da un lato, la donna che non c’è, e che ci manca; dall’altro, la donna che non c’è, che “manca” a se stessa, che femminilmente depensa) è la capacità di essere completamente “fuori” del proprio “io”, nel maquillage, nei “colpetti di cipria” di fronte alla morte, nelle “vesti”, che qui valgono parodisticamente37 per la “non-presenza” della donna/Madonna. Se la donna, invece, non-manca, sarà il non-attore a sostituire in scena alla “mancanza della sua mancanza”, potremmo dire. Sarà il non-attore a “mancare” allora. In questo modo siamo rimandati all’altra istanza che attraversa la sua solitudine in scena, la sua in-esistenza: «Non esisto: dunque sono. Altrove. Qui. Dove?»38. La sua in-esistenza è in-esistenza-nel-mondo. Potremmo anche affermare che il Dasein del non-attore si dia proprio nella forma della non-esistenza-nel-mondo39, laddove il mondo è quello, “in comune con gli altri”, dei progetti quotidiani, delle forme del fare (praxis, poiesis), è il mondo in cui si esiste grazie al riconoscimento dell’altro, è il mondo dell’economia, della politica, della storia. Ma come è possibile non-esistere nel mondo, se si è pur sempre “al mondo”? Come è possibile per l’attore non-esistere per gli altri, continuando a restare in scena? La risposta beniana, che troviamo già tutta in Nostra Signora dei Turchi, è che l’attore può restare in scena solo nelle forme dell’addio al mondo.

Tutto il mio teatro – scrive Bene – comincia dall’«addio». C’è prima un addio, e poi la non-storia, il non-evento, che coincide con quanto accade, fino al sonno di scena. L’addio è una necessaria premessa. Senza l’«addio» non si dà un cominciamento40.

Come Mercuzio del suo Romeo e Giulietta da Shakespeare41, che non muore nel terzo atto – come nel testo shakespeariano – ma “continua a morire” per tutta la durata dello spettacolo, così il non-attore resta in scena solo come, infinitamente, morente o come non-morto, inumato prematuramente ma capace così di contemplare dal di fuori lo spettacolo del mondo “in quanto rappresentazione”

Questa inquietudine dei non-morti / Che mi dice di muovermi sonnambulo / dalla mia semichiusa bara-letto? […] / Che mi ridesta dalla mia aristocratica inumazione / prematura? / la dottrina dei morti definitivi mi comanda i miei / abituali esercizi / che, ormai soli, mi dispensano dalla umana energia / volitiva, / dalla logica vanità delle occasioni d’amore, / del mondo in quanto rappresentazione. / Perché non-morto? Perché non ancora? / Che mai solletica questa mia indifferenza? / Quali voci (di donna) tesse il vento tutt’intorno / al maniero-figura / della mia estetica derisione quasi assoluta? / Chi mi pensa? Che mai inquieta i non-morti?42

«Chi mi pensa? Che mai inquieta i non-morti?», sono le domande cui dovremo tentare ora di rispondere. La condizione di non-morto non è, evidentemente, una condizione di “quiete”. D’altro canto il non-morto non è più in preda alle inquietudini degli “esistenti”, perennemente alla ricerca di un “senso” che li faccia “soggetti”. Il non-morto ha dato innanzitutto addio a questa ricerca, “umana troppo umana”, di un senso che possa “chiudere”, per così dire, l’insensatezza della vita soggettiva, situata tra il “si nasce” e il “si muore”. Sottrattosi al mondo, esoneratosi da esso, il non-morto non può essere inquieto per gli umani affanni. In che cosa, allora, consiste questa sua inquietudine?

Nostra Signora dei Turchi anche da questo punto di vista sorprende. È un romanzo dell’inquietudine, ma di un’inquietudine che sfonda gli orizzonti umani, che prescinde dall’essere-nel-mondo, perché ha a che fare con l’inquietudine del non-morto.

Il lungo capitolo ottavo del romanzo – in cui, come e forse più che negli altri, la descrizione delle azioni (sceniche?) si confonde continuamente con l'allucinazione (non con la fantasia o l'immaginazione, ma con l'allucinazione che, come è noto, per chi la vive non è distinguibile dalla percezione) – è un complesso e movimentato confronto dell'attore con la morte. Al protagonista, segnato nel corpo dalle ferite – procuratesi, come abbiamo visto, nel corso del suo tentativo di “derubarsi” –, mentre cerca ristoro in un bagno caldo, riappare Santa Margherita che lo trae – così viene scritto – "fuori dall'urna" per portarlo sul balcone davanti alla folla dei turchi (turisti). Egli recalcitra perché vorrebbe «tornare nella sua bara», ma ella lo rimprovera piangendo: «per te ho lasciato il paradiso!»43. Poco dopo, si narra di come egli richiami la Santa e le chieda di impersonare "lei", l’altra, Margherita. Deve fingere di essere "lei"44. In ogni caso, dopo la scena di un amplesso pieno di erotismo con entrambe le Margherite («Le abbracciava tutte e due, infinito [...]. La Santa in preda all'ebbrezza»45), e dopo un altro bagno caldo, ecco che troviamo intorno al tavolo tutti e quattro: «lui e la Santa, il ricordo di lei e se stesso. Erano a tavola tutti e quattro»46, per giocare a carte. È un bel gruppo di giocatori, anche se in effetti c'è solo lui e i suoi doppi allucinatori. Che, tuttavia, in ballo ci sia il gioco attoriale dell'io e della morte, lo si evince dall'episodio culmine di tale partita: ognuno dei giocatori ha cinque carte, ma, per quanto ciascun giocatore possa eventualmente sbirciare quelle del vicino non può assolutamente vedere le carte di quello che prima è stato designato con l'espressione "se stesso" ma che ora è chiamato semplicemente "il morto". La Santa lo redarguisce: «Che fai, guardi le carte? [...] quelle sono del morto? [...] le tue sono quelle altre! – Il morto era a capotavola di spalle allo specchio. – Il bello è tutto lì, – continuò la fata, – nessuno di noi tre deve conoscerle!»47. Ma, egli ribatte, se la Santa può vedere le carte di Margherita (quella “terrena”) perché mai lui non può vedere quelle del morto (cioè di se stesso)? Ad un certo punto è "il morto" stesso a chiedergli che mandasse via "quelle due", per giocare solo con lui. Egli tuttavia, approfittando di un attimo di distrazione della Santa e del "morto", si nasconde sotto il letto, continuando ad osservare la partita tra quei due "incubi"48, così come li chiama. Il morto gli appare ora esattamente come il suo alter-ego, ma perfettamente guarito e ben vestito; un alter-ego che corteggia la Santa, che dal canto suo fa la smorfiosa. Il gioco allora cambia, non è più quello delle carte ma è una partita a scacchi. Con evidenti riferimenti al Settimo sigillo di Bergman49, di cui Bene fa dissacrante parodia, si descrivono i pezzi utilizzati per questa partita a scacchi:

un garofano appassito […] un tubetto di Veramon e un altro deodorante al posto degli alfieri. Cavalieri due gettoni del telefono e, difesa, agli estremi, due involtini cilindrici di certi preservativi. Dall’altra parte, tant’era la sproporzione della scacchiera, la Santa aveva estratto anche lei più d’un oggetto a caso: due stecche differenti di rossetto, due lettere appallottolate, due accendini ricordo e due mozziconi di matite da trucco […]50

Quello che appare chiaro dal sommario riassunto di questo movimentato capitolo è che il confronto con la morte è assolutamente privo di pathos tragico e privo di toni disperanti. È un confronto risibile e comico quello dell’attore con la sua morte. Quest’ultima è la condizione stessa del suo restare in scena, come dicevo. È a partire dalla sua morte al mondo, è a partire dal suo addio all’esistenza che il non-attore “è”; è capace di essere il suo non-essere. Qui troviamo l’essenza della finzione, della recitazione, così come la concepisce Bene, rifacendosi anche all’antica concezione della maschera dionisiaca, ripresa poi da Nietzsche51. La maschera, se ha una funzione, ha quella di “rivelare nascondendo”, ma non nel senso di rivelare una identità, un “io”, ma nel senso della rivelazione della “mancanza di identità”. Ciò che il non-attore è capace di fare, recitando, è mostrare l’“assenza” che è, il manque che è, il suo non esser-ci, il suo vuoto. Per dire e mostrare il suo non, il “nulla”, il “vuoto” che lo attraversa, l’attore si fa recitare dai personaggi. «Per non essere io, fingerò», sembra dire di continuo. Interpretando a suo modo la tesi lacaniana della “mancanza ad essere” del soggetto inviluppato nei gioco dei significanti52, il manque dell’attore è quello che fino ad ora abbiamo chiamato “depensamento”, “femminilità”, “abbandono”, ma anche “vuoto”. E questo “vuoto”, in molti passi dei suoi scritti, è collegabile a quel che Bene chiama «la nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento»53. Queste cose, che mai non furono, non sono solo delle virtualità inattualizzate della storia, individuale o collettiva che sia, ma un vero e proprio fondo inattingibile e immemoriale, un “nulla” di cui ogni evento umano è atto, pur restandone separato54. Su questo punto Bene si distanzia anche da Nietzsche. In un passo importante del suo dialogo-intervista con Umberto Artioli, egli, infatti, scrive:

Nella tragedia, e qui solamente in senso relativo a Nietzsche, il dionisiaco non c’è più. […]. Nietzsche quando parla di dionisiaco rimpiange qualcosa di barbarico, di assolutamente a monte da tutto ciò […]. Il dionisiaco può essere condivisibile con Nietzsche in quanto nostalgia di qualcosa che non fu, non di qualcosa che fu. La tragedia greca è tradimento, è alto tradimento, è la festa addomesticata di Bataille […] è Natale, suvvia. Un po’ Natale in casa Cupiello. Quando la rappresentazione diventa di Stato, è fatta da assessori che scrivevano, come Sofocle55

Il non-attore è chiamato da Bene anche attore-vampiro56, non-morto per eccellenza. Anche questo è un paragone illuminante. Così come il dandy – scrive Bene – «non s’atteggerebbe affatto, se non fosse guardato»57, così il vampiro che «ogni sera, ogni attimo in cui si fa sera, dopo aver sbrigato le proprie devozioni alla sua spropositata cornice vuota, spenti ad uno ad uno accuratamente i lumi del “dover essere” […] si sforza di prendere sonno nella sua bara-letto»58, è attratto dal pubblico e indotto «a farsi bello, [ad] abbigliarsi allo specchio assente»59, concentrandosi in una toeletta paradossale, poiché, ricorda Bene, i vampiri non si riflettono negli specchi e, quindi, necessariamente sbagliano il trucco. Il risultato è comico e paradossale, come la scena stessa: «parodia d’un’immagine che si nega»60. Questo passo parla dell’inquietudine del non-morto, e ci mostra anche l’altro lato di questo “non”: l’attore, pur non esistendo (al mondo), non è ancora morto. Si prepara ad esserlo, ma è ancora attratto dal pubblico che, svegliandolo dal suo tentativo di prendere sonno, lo induce ancora al mondo, ma solo per consentirgli ancora un po’ di far «salotto», di «flirtare», di essere «convenzionale»61.

L’attore, quindi, recita per non-essere (e può non-essere solo recitando) ma, contemporaneamente, proprio perché recita non è ancora morto (al mondo), è ancora un non-morto.

Ciò nonostante, c’è forse ancora da dire qualcosa sull’inquietudine dei non-morti.

In uno degli ultimi episodi/scene di Nostra Signora dei Turchi, il protagonista immagina di nuovo di essere rientrato nella sua “urna”, insieme agli altri martiri, esposto al pubblico – domenicale, in questo caso, quindi ancora più rumoroso, incuriosito e distratto al tempo stesso. Gli si avvicina la bambina-servetta (di cui ho già parlato), colpita dalla particolarità che quel martire abbia gli occhi. I due si parlano: la fanciulla gli chiede: «Cosa posso fare per te? – E lui: – Seppelliscimi! – Dove, quando? – domanda lei – Questa sera a casa mia! – risponde lui»62.

Seppelliscimi, le chiede. Come intendere questa richiesta? Si tratta di un’ennesima parodia del dialogo, una parodia di quella forma dialogica rifiutata sempre da Bene, in quanto irrimediabilmente legata al legame con il mondo e con gli altri? Non è forse il “dialogo” «l’osteria del dover-essere»63; non è forse la «sospensione del tragico» – da lui sempre rivendicata – una «sospensione del dialogo»?64; non è forse vero, con Bene, che «Monologo è teatro»?65 Forse.

Ci sarebbe, tuttavia, un’altra interpretazione possibile di questa richiesta. Un’interpretazione che spiegherebbe sia l’inquietudine del non-morto che il suo essere ancora attratto da mondo. Quella richiesta («Seppelliscimi!») potrebbe essere semplicemente quella di un estremo atto di pietà non per ottenere un “bene” o un “senso”, ma per ottenere il dono della morte, vale a dire il dono della rottura definitiva del legame con il mondo. È come se le chiedesse: «Dimenticami!», cioè “fa sì che io con il mondo non abbia davvero più a che fare”. Dimenticami!, perché solo così potrai farmi “mancante al mondo” e libero da esso. L’aporia della morte, il suo essere “non-passaggio”66, non può essere risolta da soli, potremmo concludere. Non perché non si muoia sempre “da soli” ma perché questa estrema solitudine ce la potrà donare solo l’altro.

L’attore monologante non è capace di uscire dalla scena da solo. È questa l’estrema aporia del discorso teatrale di Carmelo Bene.



N.B. Questo saggio è già stato pubblicato in "Rivista di letteratura teatrale", n. 4, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2011, pp. 199-210. 

 Note al testo

1 Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, Milano, SugarCo Edizioni, 1978, p. 24.

2 Ad esclusione della sua più matura teorizzazione del teatro della phoné.

3 Il “lavoro su se stesso” e il connesso “lavoro sul personaggio” assumono in Bene caratteristiche opposte rispetto a quelle teorizzate da Stanislavskij. Mentre quest’ultimo ha sempre perseguito l’ideale di una costruzione del personaggio “a tutto tondo”, per così dire, “come se” l’attore dovesse farlo vivere sulla scena attraverso la sua stessa psicologia e “memoria emotiva” – sul presupposto, tutt’altro che scontato, che l’attore fosse un’identità psicologica “unitaria e organica” (cfr. Kostantin S. Stanislavkij, Il lavoro dell’attore su se stesso, a cura di Fausto Malcovati, tredicesima ed., Roma-Bari, Editori Laterza, 2008; cfr. anche Idem, Il lavoro dell’attore sul personaggio, a cura di Fausto Malcovati, tredicesima ed., Roma-Bari, Editori Laterza, 2010 – Bene sostiene che il lavoro dell’attore su se stesso è sostanzialmente un lavoro di dis-identificazione psicologica ed emotiva e che il conseguente “lavoro sul personaggio” non è che lo strumento di quest’operazione di distruzione dell’identità attoriale. Sulle teorie novecentesche relative all’arte dell’attore cfr., per una prima chiara sintesi, Luigi Allegri, L’artificio e l’emozione. L’attore nel teatro del Novecento, Roma-Bari, Editori Laterza, 2009.

4 Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 18.

5 Ivi, p. 51.

6 Ivi., p. 52.

7 Questa riflessione di Bene riprende a suo modo un luogo fondamentale della tradizione neoplatonica, sia di quella tardo antica che rinascimentale. Nella quinta Enneade (V 8, 11) Plotino scrive «Ma se uno di noi è incapace di vedere se stesso e, posseduto dal dio supremo, trasferisce fuori di sé la sua visione per poter vederla, egli trasferisce fuori di sé anche se stesso e guarda soltanto la propria immagine abbellita. Se, però, abbandona tale immagine, per quanto sia bella, e raggiunge l’unità con se stesso senza più dividersi, egli è uno e tutto nello stesso tempo, insieme col dio che è presente nel silenzio, e se ne sta con lui, sino a che può e desidera» (Plotino, Enneadi, [a cura di] Giuseppe Faggin, presentazione di Giovanni Reale, Centro di ricerche di metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, terza ed., Milano, Rusconi, 1992, p. 925). Ma cfr. anche quanto scrive Niccolò Cusano nel famoso dialoghetto De deo abscondito: «Si dice “Dio” da “theorò”, cioè vedo. Infatti Dio è nella nostra regione come la vista è nella regione del colore. Non si coglie il colore in altro modo che per mezzo della vista, e perciò, perché possa cogliere liberamente ogni colore, il centro della vista è privo di colore. La vista dunque, essendo priva di colore, non si trova nella regione del colore. Secondo la regione del colore, pertanto, la vista è nulla piuttosto che qualcosa. […] Ebbene: Dio sta a tutte le cose come la vista sta alle cose sensibili» (Niccolò Cusano, Il Dio nascosto, ed. it. a cura di Lia Mannarino, Roma-Bari, Editori Laterza, 1995, pp. 9-10). In tale tradizione il vedere Dio equivale a “vedere la vista”; quindi è estasi, incoscienza. Scrive Bene: «è l'estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci, la bocca sei tu. Divina è l’illusione. Questo è un santo. […] Sacramento è questa demenza, perché una fede accecante li ha sbarrati, questi occhi […]. E gli occhi hanno visto la vista» (in op. cit., pp. 52-53).

8 Ivi, p. 53.

9 Si veda, a tal proposito, la partitura teatrale dedicata da Bene a San Giuseppe da Copertino, dal titolo A boccaperta, in Carmelo Bene, A boccaperta, Torino, Einaudi, 1976, pp. 5-111.

10 Sulla struttura immaginaria dell’io è d’obbligo il rimando a Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in, Idem, Scritti, a cura di Giacomo Contri, seconda ed., 2 voll., Torino, Einaudi, 1974, vol. I, pp. 87-94.

11 Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 52.

12 Ivi, p. 21.

13 Ibidem.

14 Ivi., pp. 57-58.

15 Ivi, p. 61.

16 Ivi., p. 66.

17 Ivi, pp. 66-67.

18 Sull’etica del bene (e dei beni) – in opposizione all’etica del desiderio – si veda, fondamentalmente, Jacques Lacan, Seminario libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), testo stabilito da Jacques-Alain Miller, ed. it. a cura di Giacomo Contri, Torino, Einaudi, 1994, in particolare pp. 277-291. Su questo seminario cfr. Bruno Moroncini, Rosanna Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan, Napoli, Cronopio, 2007.

19 Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, cit. p. 69.

20 Ivi, p. 73

21 Ivi., p. 99.

22 Ivi., p. 100.

23 Ivi., p. 104.

24 Ivi., p. 105.

25 Ivi, p. 17. La battuta di chiusura del romanzo è, invece, «Si sono svegliati, Flora… Vestiti e vattene! – disse piano scoprendo il lenzuolo deserto. Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata» (Ivi, p. 156)

26 Cfr. Wolfgang Goethe, Faust (I e II parte). Urfaust, a cura di Giovanni Vittorio Amoretti, seconda ed., Milano, Feltrinelli, 1976. Sul personaggio di Margherita cfr., naturalmente, anche Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, edizione integrale, pref. di Vittorio Strada, trad. di Vera Dridso, Torino, Einaudi, 1967.

27 Vedi Carmelo Bene, Pinocchio, in Idem, Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, seconda ed., Milano, Bompiani, 2002, pp. 541-625. Pinocchio, insieme ad Amleto (da Skakespeare e da Jules Laforgue), sono, a mio avviso, le due principali fonti di ispirazione del teatro beniano. Il Pinocchio, oltre ad essere stato uno spettacolo teatrale nel 1961, nel 1966 e nel 1981, ha avuto anche una riscrittura radiofonica (ripubblicata nel 2005 in due cd audio dalla Luca Sossella editore)

28 «Le si precipitò addosso, abbracciandola, piangendo calde lacrime. La stringeva forte, baciandola ricambiato, – Sei qui! – vaneggiava, – Sei tornata! – Tra i capelli di lei si perdeva, inseguendosi sulle arcate mussulmane, scivolando le labbra sulla gola, insensato, tra i seni e le cupole, le mani due farfalle morenti dentro un’onda calda, folle, stringendo il vero e il falso se stesso, gli arabeschi le guglie e le ferite, gli affreschi svaniti, vivente, compreso della sua rovina […]. Le abbracciava tutte e due, infinito […]» (Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, cit. p. 116).

29 Il film (restaurato) di Nostra Signora dei Turchi è stato ripubblicato dalla Fondazione L’immemoriale di Carmelo Bene, a cura di Enrico Ghezzi (con un opuscolo a cura di Alessandro Riccini Ricci) nel 2005 (Gianluca e Stefano Curti editori).

30 Carmelo Bene, Opere, cit., p. 997.

31 Si veda a tal proposito, di Laforgue, innanzitutto la sua riscrittura dell’Amleto di Shakespeare: Jules Laforgue, Amleto ovvero Le conseguenze della pietà filiale, in Idem, Poesie e prose, a cura di Ivos Margoni, Milano, Arnoldo Mondadori, 1971, pp. 279-310. Laforgue è stato il vero maestro di “scrittura teatrale” di Carmelo Bene.

32 Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es), Milano, Longanesi, 1983, p. 16 e p. 25.

33 Idem, Opere, cit., p. 1043. «Importante nella bambina è l’assenza della donna. Che cos’è la bambina? Cosa non è, intanto? Non è donna. È deliziosa perché non è […]. La bambina, provvidenza incosciente dell’onnipotenza, è un miracolo, perché, mancandoci come donna, è tuttavia reale e viva. È opera d’arte […]. La bambina è gioco innocente e perverso. Mozartiano. Bambine sono le note di Mozart» (Ivi, pp. 1042-1045)

34 «Poi, come attratta dalla pila dei piatti sporchi, si avvicinò al lavabo e cominciò a sguazzare con le mani nel sugo residuato in fondo alle scodelle. “Non c’è acqua.” Pensò lui, “ma che significa? Non è certo venuta qui a lavare i piatti!” E le si accostò alle spalle. L’abbracciò tutta, stringendole il ventre tra le dita. E allora lei si chinò ancora di più, volenterosa, risoluta a lavarli con la lingua i piatti. La prese così, due volte di seguito» (Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi cit., p. 151).

35 Idem, Sono apparsoalla Madonna, cit., pp. 24-25.

36 Idem, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 86.

37 Nonostante l’evidente gioco feticistico (ricordiamo che, per Freud, il “feticcio” sta per qualcosa che non esiste, vale a dire il “fallo femminile”) questa e altre trovate letterarie e teatrali di Bene devono essere interpretate tenendo presente la sua intenzione parodica, volta a concepire la scena teatrale come luogo del manque del soggetto e, in quanto tale, come luogo tragico e comico al tempo stesso, ma anche sottraibile, in linea di principio, alle strutture psicopatologiche della nevrosi, della psicosi e della stessa perversione. Tuttavia, per mostrare come questo accada, bisognerebbe analizzare a fondo, ad esempio, i debiti e le differenze tra il discorso beniano e quello lacaniano. Cfr., ad esempio, quanto sinteticamente, ma acutamente, scrive Antonio Attisani nella sua introduzione (dal titolo Svestire il vuoto) al volume di Umberto Artioli, Carmelo Bene, Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro, a cura di A. Attisani e M. Dotti, con scritti di E. Fadini e G. Zuccarino e postfazione di C. Sini, Milano, Medusa, 2006, pp. 5-26.

38 Carmelo Bene, Opere, cit., p. 995.

39 Su questa fondamentale tematica del non-esistere (al mondo) mi si permetta il rimando al mio saggio dal titolo La recita della rovina (Carmelo Bene), in Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Krakauer, Lacan, Artaud, Bene, Milano, Mimesis, 2009, pp. 93-107. In tale saggio svolgo un’analisi della tematica dell’in-esistenza nel mondo in relazione alla Analitica esistenziale contenuta in Essere e tempo di Martin Heidegger.

40 Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, cit., p. 37.

41 Lo spettacolo teatrale Romeo e Giulietta (storia di W. Shakespeare), di Bene è del 1976. Su tale spettacolo e sulla poetica teatrale complessiva di Bene si veda l’ormai classico saggio di Gilles Deleuze dal titolo Un manifesto di meno in Carmelo Bene, Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 69-92. Sulla drammaturgia beniana cfr. anche Piergiorgio Giacché, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, nuova ed. aggiornata ed ampliata, Milano, Bompiani, 2007. Sulla figura di Mercuzio in Romeo e Giulietta (anche opera radiofonica) vedi anche Vincenzo Cuomo, op. cit., in particolare pp. 99-107.

42 Carmelo Bene, Opere, cit., p. 995.

43 Idem, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 106.

44 Ivi, p. 111.

45 Ivi, p. 116.

46 Ivi, p. 118.

47 Ivi, p. 119.

48 Ivi, p. 123.

49 Il film di Ingmar Bergman è del 1957. Cfr. anche la sceneggiatura del film: Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, introduzione di Goffredo Fofi, trad. di Alberto Criscuolo, Milano, Iperborea, 1994.

50 Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, cit., pp. 123-124.

51 Cfr. Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, nota introduttiva di Giorgio Coli, versione di Sossio Giametta, secondo ed., Milano, Adelphi, 1978, in particolare pp. 62 sgg.

52 Sulla nozione lacaniana di “mancanza ad essere” cfr. Massimo Recalcati, L’universale e il singolare. Lacan e l’al di là del principio di piacere, Milano, Marcos y Marcos, 1995, in particolare pp. 119-140. Cfr. anche, su Lacan in generale, Antonio Di Ciaccia, Massimo Recalcati, Lacan, Milano, Bruno Mondadori, 2000.

53 Vedi Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, cit. p. 11; la stessa nozione è ripresa da Bene nella conversazione con Umberto Artioli (Idem, Un dio assente,cit., pp. 61-62).

54 Sarebbe interessante indagare sulle vicinanze semantiche tra questa nozione beniana di “nulla” – su cui ci sono solo pochi accenni nei suoi scritti, per quanto ripetuti e importanti – e il lavoro svolto da Massimo Cacciari in Dell’inizio, Milano, Adelphi, 1990.

55 Carmelo Bene, Umberto Artioli, Un dio assente, cit., p. 62.

56 Carmelo Bene , Opere, cit., p. 997.

57 Ivi, p. 996.

58 Ibidem.

59 Ibidem.

60 Ivi, p. 997. Quindi, non “un’immagine che si nega”, come accade nella forma tragica dell’arte – propria di molte produzioni artistiche del Nocevento – ma “parodia dell’immagine che si nega”, parodia che non può che risultare “comica” al di là del tragico. È questa la cifra teatrale di Carmelo Bene. Tuttavia, il “comico al di là del tragico” presuppone quest’ultimo, anche se solo per poterlo “dimenticare”.

61 Carmelo Bene,Opere, cit., p. 996.

62 Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, cit., p. 149.

63 Carmelo Bene,Opere , cit., p. 1001.

64 Ivi, p. 1000.

65 Ivi. p. 1002.

66 Sulla nozione della morte come “aporia”, “non passaggio”, si veda il fondamentale contributo di Jacques Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, trad. it. di G. Berto, Milano, Bompiani, 2004.