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Politiche ed estetiche della malavita tra illegalismi e delinquenza in Michel Foucault


 


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Introduzione: la malavita come potere, ordinamento, istituzione, regime

 

Declinato ora nel senso della difettività, ora della corruzione, ora ancora della deviazione di contro a una dirittura del mondo o della vita, il concetto di malavita, e con esso il tentativo di esaminarne lo statuto, sono antichi quanto la filosofia stessa. Nelle riflessioni sulla natura del potere, sulla giustizia e sul diritto, la malavita ha sempre ricoperto un ruolo fondante, o quantomeno dirimente ai fini della partizione tra la vita giusta, morale o normale e la vita orientata verso l’ingiustizia, difettiva, corrotta, manchevole, viziosa, vorace, noncurante, al punto che mai, dall’antichità a oggi, le teorie giuridiche, politiche e morali hanno cessato di dibattere sulla possibilità di distinguere una comunità politica da una banda di ladroni, un potere legittimo da uno illegittimo, un ordinamento giuridico dall’esercizio di un potere di fatto, etc.

Prima di venire all’oggetto principale del presente discorso, vale a dire al contributo offerto da Michel Foucault a tale tradizione di pensiero, riteniamo opportuno ripercorrere di questa alcuni snodi essenziali. E, molto schematicamente, si potrà ricordare innanzitutto come sebbene in diversi orizzonti di riflessione sia il concetto stesso di malavita, inteso in senso lato, a determinare il ‘normale’ diritto o la ‘normale’ politica – si pensi ai miti di fondazione (nei quali l’ordine è spesso il prodotto di un crimine originario, o comunque di un gesto rinviabile in ultima analisi al registro del male), o ancora alle teorie realistiche, concordi nel sottolineare come ogni ordine di potere rinvii alla conquista violenta, all’assoggettamento, a una volontà che si impone –, e in altri sia a tal punto intrecciato e strutturalmente congiunto con il diritto e la politica da apparirne indiscernibile – così, ad esempio, nella coincidenza shakespeariana di regalità e abominio –, nella stragrande maggioranza dei casi, però, esso dipenda integralmente dal modo in cui il diritto e la politica si definiscono, si intendono o si vivono.

Ne offre un esempio già il dibattito tra Socrate e Trasimaco nel I libro della Repubblica, che segna l’ingresso sulla scena del pensiero del personaggio concettuale del brigante, e nel quale Platone si sforza di mostrare da un lato che anche una banda di briganti non potrebbe esistere senza rispettare una norma di giustizia, e dall’altro, soprattutto, che a differenza di quanto sostenevano i Sofisti l’ingiustizia produce l’infelicità come un destino1. Ma si pensi anche, su un altro fronte, alla problematica agostiniana dei magna latrocinia, dove è evidente come in assenza di una norma di giustizia superiore, in assenza di una sanzione divina, lo stato non si riduca che a un’associazione a delinquere2. O ancora, per venire a tempi più recenti, alla definizione della malavita organizzata come stato nello stato, cui è chiaramente sotteso, quale carattere specifico della malavita, il suo porsi in concorrenza rispetto al monopolio statale dell’uso della forza di marca weberiana.

In quest’ultimo esempio – sarà chiaro – non vi è più alcun riferimento alla giustizia o a Dio nella giustificazione del potere, così che sia lecito presumere che la declinazione della malavita organizzata come ordinamento giuridico riposante sul monopolio della violenza sia totalmente dipendente, in negativo, dal dispositivo concettuale filosofico-politico del moderno potere giuridificato. Come ha mostrato Giuseppe Duso3, è infatti con la modernità che il riferimento alla giustizia nell’edificazione del potere viene a scomparire, e il potere è assunto come forza propria del corpo politico – nell’autonomizzazione della sfera del comando –, cui si obbedisce non perché sia giusto, ma perché il Potere, il comando, è sempre Potere e comando di tutti, nascendo dalla libertà e dalla volontà di coloro che obbediscono, e presupponendo dunque, secondo il dettato hobbesiano, la necessità della legittimazione e della giustificazione razionale, una concezione della libertà come indipendenza della volontà, etc. Il monopolio della violenza legittima tanto può esistere in quanto l’obbedienza risiede esclusivamente nel libero consenso offerto dagli individui in vista della costituzione di una sovranità fondata sull’identità tra sudditi e sovrano, tra governati e governanti. Conseguentemente, la politicità o la giuridicità del potere di un brigante è negata non perché questo agisce in disprezzo di norme morali o di giustizia, ma perché non fonda il suo potere sulla volontà di chi obbedisce. Non a caso Rousseau, al cui pensiero non è certo estraneo questo preciso dispositivo teorico, rinviava la figura del brigante all’ambito della forza, vale a dire di ciò che non può appunto pretendere obbedienza per sua stessa definizione. Cedere al più forte è per Rousseau un atto necessario, o al limite di prudenza, non certo di dovere, e pertanto se il comando di un brigante si fonda sulla pura forza, solo un potere legittimo può costituire un dovere di obbedire4. Tra l’obbedienza al comando dello stato e quella al comando di un brigante, insomma, corre una differenza sostanzialmente equivalente a quella che sussiste tra l’obbedienza a un principio e la costrizione a un fatto.

L’antico e il moderno giustificano dunque entrambi, sia pure ovviamente in modi diversi, l’obbedienza al potere rivendicando per esso la circostanza di incarnare un più di senso (giustizia, legittimità) rispetto alla forza.

Sul fronte della teoria del diritto Hans Kelsen pone invece il problema del brigante come dirimente in relazione alla qualificazione di un ordinamento come giuridico, tentando di distinguere la norma giuridica dal comando di un bandito senza necessariamente rinviare a una legittimità o ad altri postulati etici. Per Kelsen è giuridico l’ordinamento che regola la propria produzione normativa: il diritto è un complesso di norme precettive miranti a regolare il comportamento umano, secondarie rispetto alle norme coattive che disciplinano l’uso della forza, e tali per cui il diritto può distinguersi dagli altri ordinamenti sociali proprio in quanto è organizzazione della forza. Le norme si inseriscono in un sistema dinamico, ove ciascuna di esse è valida perché prodotto di un potere-organo autorizzato a produrla in ragione di una norma superiore, e così via sino a una Grundnorm posta all’apice della gerarchia normativa. Quest’ultima è una norma presupposta che rinvia a un’effettività dell’ordinamento giuridico e conferisce giuridicità a una situazione di fatto, corrispondendo all’esistenza effettiva (il fatto continuativo dell’obbedienza) di un senso oggettivo delle norme (la pretesa di valere a cui si crede si debba obbedire, diversamente che al comando di un brigante)5 che compongono un ordinamento giuridico. Tanto il comando di un pubblico ufficiale quanto quello di un brigante si presenta come una prescrizione comportamentale accompagnata dalla minaccia di certi mali, ma mentre il comando non autorizzato da un ordinamento giuridico possiede un senso esclusivamente soggettivo, il comando autorizzato ha anche il senso oggettivo dell’atto di comando, valendo come norma vincolante per i destinatari. Come ha mostrato Norberto Bobbio, il problema cambia allorché «si raffronta il comando giuridico non con il comando isolato di un bandito ma col comando di un bandito appartenente a una banda organizzata, in cui il singolo bandito intimando al passante di dargli il denaro sotto minaccia della vita, ubbidisce a una norma dell’organizzazione, per cui si può dire, a ragion veduta, che anche il suo potere, come quello di un organo dello stato, è un potere autorizzato»6. La soluzione adottata da Kelsen per distinguere il comando giuridico da quello non giuridico è allora l’efficacia, vale a dire l’osservanza generale delle norme prodotte: «Ciò che manca alla banda di briganti, posto che i suoi atti vengano abitualmente colpiti dall’ordinamento statuale come illeciti, è l’effettività». L’ordinamento di una banda di briganti riposerebbe insomma su una norma fondamentale soltanto se avesse un’efficacia continua, se fosse cioè generalmente ed abitualmente obbedito7.

Ora, se un potere è giuridico per il fatto di essere abitualmente obbedito, da un punto di vista teorico, allora, uno stato che si conduca con violenza nei confronti dei suoi cittadini, e che trovi obbedienza presso di essi, non è meno stato di quello che operi secondo giustizia – come già notava Norberto Bobbio8 –, e un diritto abominevole, o uno stato totalitario, o canaglia, o mafioso9, non sono meno diritto o meno stato di altri diritti o altri stati fondati su principi e valori fondamentali.

Non possiamo non ricordare, a questo punto, le considerazioni di Benedetto Croce, che nel tentativo di negare dignità scientifica alla filosofia del diritto e ridurla alla filosofia dell’economia, rifiuta al diritto ogni carattere morale o statuto di universalità – intendendo al contrario il diritto come attività pratica (dunque economica e individuale) e per sé amorale, identificabile con la sfera delle azioni pratiche propria della storia sociale e politica di un popolo –, mostrando come l’immoralità di certi diritti non li privi con ciò di giuridicità (una sentenza iniqua o immorale resta pur sempre una sentenza). Alla possibile obiezione che in tal modo si dovrebbe riconoscere carattere giuridico anche agli statuti delle organizzazioni criminali, Croce risponde: «Precisamente: dal punto di vista scientifico, bisogna riconoscere, alle associazioni delittuose, questo carattere; come il fatto che una bella poesia sia empia verso gli Dei o esalti sentimenti di voluttà e di vendetta o contenga spropositi scientifici, non toglie all’opera il carattere letterario di poesia. Il diritto di un’associazione a delinquere ha, contro di sé, il diritto di una società più vasta; soggiacerà a questo secondo, come al più forte; soggiacerà meritatamente, come il non morale al morale; ma vive come diritto e soggiace come diritto». E osserva inoltre: «del resto, anche le più perfette società giuridiche sono poi al tutto libere dei caratteri immorali delle associazioni a delinquere? Nei rapporti degli Stati tra di loro non persistono di frequente i procedimenti stessi di lotta, che seguono le associazioni criminose?»10.

Un limite di simili impostazioni può essere rinvenuto in Hermann Heller, per il quale il potere politico è un rapporto sociale che si regge sulla legittimità, nella misura in cui i princìpi di giustizia della classe dominante risultano accettabili come potenze etiche anche da parte dei dominati. Pertanto, se tutte «le istituzioni umane sviluppano […] potere», «senza la determinazione della funzione di senso del potere specificamente statale, quest’ultimo non potrà venire distinto né da una banda di ladroni, né da un cartello del carbone, né da un club di birilli»11.

Ciò non toglie, tuttavia, che come può esservi un’ingiustizia legale, così può darsi anche una legittimità illegale. Riprendendo la tesi del monopolio della violenza (che, seppure elaborata sociologicamente, conserva il presupposto della volontà dei dominati), è chiaro infatti che anche una società di pirati o un’associazione a delinquere potranno essere intese come ordinamenti giuridici o politici, presentando esse un capo o un gruppo che detiene il monopolio dell’uso della violenza e ottiene abitualmente e volontariamente obbedienza. Ora, premesso che più opportuno sarebbe parlare di monopolio tendenziale della violenza12, dal momento che in ogni società politica sono diversi gli usi della violenza che non fanno capo al potere politico e che da questo non sono autorizzati (organizzazioni criminali, organizzazioni terroristiche, etc.), la tesi sopra esposta, come evidenziato da Mario Stoppino, potrebbe esser valida nel solo caso in cui i membri della banda costituissero una società a parte, non essendo soggetti a comandi esterni (dei detentori del potere politico, ad esempio) e adoperandosi per la soddisfazione dei requisiti essenziali per la perpetuazione della vita sociale.

Diversamente, un giurista quale Santi Romano concepisce l’associazione criminale come un vero e proprio ordinamento giuridico tra gli altri, senza ovviamente esprimere con ciò alcun giudizio di legittimità. Contrapponendosi alle teorie formalistiche e normativistiche che identificavano il diritto con lo Stato o con la norma, Romano guarda al diritto come a un qualcosa di logicamente e materialmente anteriore alla norma, come a una forma di organizzazione sociale, a un’istituzione13, e riconosce pertanto carattere giuridico a istituzioni non statali, come la Chiesa, e eventualmente anche in contrasto con lo Stato, come i partiti rivoluzionari o le organizzazioni criminali, nella convinzione che queste certo: «non costituiranno diritto per lo Stato che vogliono abbattere o di cui violano le leggi […] ma ciò non esclude che […] abbiano delle istituzioni, delle organizzazioni, degli ordinamenti che, isolatamente presi e intrinsecamente considerati siano giuridici»14. Allorché, dunque, un’istituzione extra-statuale esiste su di un piano oggettivo, benché illecito, essa deve essere qualificata come giuridica.

Dialogando con Romano, Giuseppe Capograssi osserva a sua volta che un’organizzazione criminale va sì equiparata a un ordinamento giuridico in quanto ne contiene il principio, ma va altresì distinta da esso poiché al contempo lo nega. In forza di un’argomentazione rinviabile in ultima analisi al modello platonico o agostiniano, Capograssi sostiene che l’universalità e la verità ultima dell’esperienza giuridica umana sono tali da essere affermate anche da quella società dei ladroni che pure tende a negarle. La qualità di ordinamento di quest’ultima è infatti incontestabile, sussistendo in essa «un ordine, […] un completo sistema di principi di norme di organi di diritti e di sanzioni»15, ma soprattutto «quel principio di verità e di ragione che trasforma in ordinamento ogni fatto di vita associata: si crea col sacrifizio dell’obbedienza dei singoli a una realtà comune, e ogni singolo partecipa secondo il suo sforzo al vantaggio di questa realtà». In altri termini, neanche il ladrone può esserlo del tutto, e anche lui ha bisogno di agire come uomo predisponendo appunto intorno a sé quel contesto ‘umano’ umano che possa consentirgli una vita comune, l’ordinamento giuridico. E tuttavia la società di ladroni non è un ordinamento giuridico in quanto l’universalità dell’origine non è rinvenibile nella sua concretizzazione pratica, ove il riconoscimento della necessità del principio coesiste con la sua negazione16. Sulla scia di Capograssi, Antonio Pigliaru analizza in dettaglio la normatività del banditismo sardo, operando una distinzione tra l’organizzazione criminale – che nasce contrattualmente, e in ragione di un fine particolare – e la comunità di vita – che concretizza un sistema giuridico spontaneo, intriso di una cultura comune –, riconoscendo perciò solo a quest’ultima il carattere di ordinamento giuridico17.

Ad ogni modo, quelle richiamate sino ad ora non sono che alcune delle voci più note di un dibattito che nel Novecento ha visto le scienze sociali in prima linea nel postulare la lettura di una malavita come organizzazione a matrice ora etnica, ora economica (mafia come impresa), etc.18. Di un dibattito, sia chiaro, nel quale talvolta i criteri adottati rendono difficile tenere ben ferme le distinzioni (così nella teoria del diritto, in assenza di elementi valutativi), e talaltra le differenze pure fondate su criteri solidi non sono però garanzia di progressività (come è vero che un governo giusto, una comunità di vita o un potere legittimo possono sempre condursi verso terzi in modo ingiusto, senza perdere con ciò la propria aura di universalità). Senza contare, infine, che se alcuni criteri risultano del tutto inadeguati rispetto al campo di governamentalità che tanto lo stato quanto la malavita esercitano (nel caso del monopolio tendenziale della violenza, tra gli altri)19, sempre presente, nella gran parte delle teorie richiamate, è il rischio di naturalizzare la malavita eludendone la dimensione storica. Al di là delle loro intenzioni, e in modo evidentemente differente, tanto il formalismo quanto l’istituzionalismo, ad esempio, rischiano di convalidare uno stato di cose che è parte della costituzione materiale di una società, naturalizzando un ordine e rimuovendo i conflitti che ne sono alla base.

Probabilmente a ragione, allora, Giovanni Fiandaca, rileggendo Romano a partire dalla rivisitazione datane da Massimo Severo Giannini, sostiene la necessità di un approccio teorico di tipo antropologico-giuridico, che «non si limiti a ricondurre la mafia allo schema dell’ordinamento giuridico autonomo, ma ne indaghi al tempo stesso in profondità le radici storico-culturali, funzioni sociali e funzioni economiche»20. Ma quel che ci sembra ancor più decisivo – oltreché assente nelle teorie richiamate sopra – è una prospettiva che inquadri la malavita come una determinata produzione storica, più o meno compatibile con l’architettura giuridica di una società, ma sempre e comunque parte della strutturazione di un ordine governamentale di cui deve assumersi la non-necessità. E questo, appunto, è quanto crediamo sia in grado di offrire la riflessione di Michel Foucault, come cercheremo a questo punto di mostrare.

Nel corso della sua produzione, Foucault ha costantemente rivolto uno sguardo singolare su quelle che possono ben definirsi le forme-limite dell’esperienza. Oltre e accanto al sogno, alla follia, al fuori, alla trasgressione, ai limiti del linguaggio e della società – tutti temi, insieme a numerosi altri, oggetto dei suoi primi lavori – è stata infatti anche e forse soprattutto la malavita a focalizzare la sua attenzione in una maniera del tutto peculiare; in una maniera, più esattamente, irriducibile a una sociologia, a una psicologia o a una fenomenologia del crimine, e sempre di natura essenzialmente strategica e genealogica, poiché relativa alle condizioni del costituirsi delle scene del mondo che abitiamo, condizioni che rinviano alle relazioni di potere, ai giochi di verità e alle forme del rapporto con sé e con gli altri – tre elementi, questi, costituitivi per Foucault di ogni forma di esperienza possibile. È stato dunque, quello foucaultiano sulla malavita, un tipo di sguardo inevitabilmente politico – nella misura in cui la malavita può renderci edotti dei rapporti di potere in una società – e a un tempo estetico – analizzando esso anche le ridefinizioni storiche delle nostre forme di vita e di razionalità. Ed è per tale ragione che nelle pagine che seguono proveremo appunto a ricostruire la politica e l’estetica della malavita per come definite da Foucault in Sorvegliare e punire e nel suo precedente più prossimo, ossia nel corso ancora inedito al Collège de France del 1973, La société punitive, nonché in altri scritti successivi di minor respiro ma non meno importanti.

Per far ciò inizieremo col rilevare un punto mai enfatizzato a sufficienza, vale a dire la possibilità di rinvenire nel pensiero foucaultiano una riflessione che iscrive la malavita nel codice del politico, e in particolare tutta una storia della malavita nella modernità, con le sue trasformazioni sette e ottocentesche e le sue relazioni con le tecnologie di potere proprie del regime disciplinare. Al contempo, va debitamente sottolineato come Foucault abbia impiegato solo raramente il concetto di malavita (milieu o pègre), e assai più spesso concetti come illegalismo o delinquenza, irriducibili al loro senso comune; il suo linguaggio, insomma, ha una marcata consistenza concettuale, e la complessità dei suoi discorsi – tale da renderli talvolta poco digeribili, e talaltra, e più frequentemente, suscettibili di fraintendimento – necessita quindi di essere compresa a fondo. Dovremo allora innanzitutto analizzare la malavita entro la cornice del concetto di illegalismo, coniato da Foucault e irriducibile alla nozione giuridica o morale di crimine come pure alla sua sostanza sociologica o psicologica, nella misura in cui indica sì le pratiche e le condotte che in un campo sociale violano una legalità data (scritta o consuetudinaria), esprimendo disordine o indisciplina, ma appunto non in senso giuridico, esistenziale, morale o psicologico, bensì strategico. Pur potendo comprendere tutte le pratiche qualificate come difettive e corrotte in opposizione a una dirittura o a un ordine del mondo, esso pone infatti l’accento non tanto su costanti antropologiche, quanto sulla gestione differenziale di tali pratiche da parte di una società, ossia sui modi in cui una società le categorizza o meno, le sanziona o meno, distribuendole nel corpo sociale. Ecco dunque che l’illegalismo non configura propriamente per Foucault l’insieme degli atti che violano la legge, né la delinquenza criminologicamente intesa, ma come ha sottolineato Pierre Lascoumes: «l’insieme delle attività di differenziazione, di categorizzazione, di gerarchizzazione e di gestione sociale delle condotte definite come indisciplinate»21. Esso corrisponde cioè a quanto viene selezionato e differenziato in una data società nello scarto tra il lecito e il vietato, nel campo del tollerabile e dell’intollerabile e in funzione di un sistema di potere, e non a quanto è semplicemente oggetto della repressione sociale o statale. Nella prospettiva di analizzarlo, non sarà allora sufficiente fare ricorso ai codici giuridici che sanciscono una condotta come sanzionabile, né ai codici morali che assegnano una vita al registro del male, essendo piuttosto necessario comprendere come questi, insieme ad altre pratiche e ad altri discorsi, articolano in modo differenziale il campo della malavita. Ebbene, nucleo fondante delle tesi di Foucault è che, seppure in forme diverse, in ogni formazione sociale il sistema penale non ha tanto il fine di reprimere gli illegalismi, bensì di differenziarli e graduarli, garantendo in tal modo la conservazione di un dato sistema di potere22. In altri termini, non tende propriamente a reprimere ciò che ha ad oggetto, ma a farlo vivere in un certo modo23, in un ordine che è sempre un ordine di dominio in cui giocano differenti gruppi sociali, e con essi diversi codici giuridici o morali, diversi saperi, diverse forme di punizione, e conseguentemente diverse forme di soggettività. I processi di soggettivazione possono essere infatti compresi a partire non dai codici morali o giuridici, ma dalle concretizzazioni strategiche di questi codici in un determinato campo sociale e da specifiche tecnologie morali e strategie sociali. Poiché non sono i valori a dirci dei nostri modi d’essere al mondo, ma i discorsi e le pratiche con cui li valorizziamo e li riutilizziamo strategicamente. L’illegalismo inoltre, per come differenziato socialmente, non escludendo dalla sua definizione lo specifico modo di vita che viene condotto da chi si dibatte in esso, nonché gli stessi modi di percepire il fenomeno malavitoso (che dipendono in ultima analisi dai discorsi che in una società ne dispongono le soglie di tollerabilità), fa allora parte di quell’insieme di processi positivi che decidono dei nostri modi d’essere al mondo. È chiaro dunque che l’indagine foucaultiana innova la tradizione di cui sopra perché sostanzialmente ne rovescia le domande, non tendendo a classificare la malavita a partire dalla verità che si pretende di avere in nome della legge, della morale o dell’ordine, né a classificare l’ordine o giustificare un’istituzione in forza del sapere che della natura umana e della delinquenza si possieda, ma piuttosto a mostrare come, a partire da una singolare economia dei rapporti di potere, le pratiche malavitose vadano modificandosi nel corso della storia dando luogo nuovi regimi di illegalismo, vale a dire a nuove figure e rappresentazioni non solo della delinquenza, ma della natura umana e delle istituzioni stesse. Iscritta nel concetto di illegalismo, la malavita si rivela insomma da un lato prodotto storicamente costituito, e dall’altro parte dei meccanismi di potere vigenti nella società, e parte integrante del suo funzionamento positivo. E ciò vale, nel discorso di Foucault, sia per l’Ancien Régime che per le successive trasformazioni in senso disciplinare della società, che rispondono allo scarso potere repressivo delle punizioni – dotate sino ad allora di un forte valore simbolico – generalizzandole ed edificando un più efficace sistema punitivo.

Se va da sé che una siffatta impostazione del problema comporta una netta storicizzazione dei concetti di criminalità e di malavita, i quali non sono nulla di naturale, ma parte integrante di un sistema sociale e della sua forma di governamentalità, quando Foucault parla però di delinquenza si riferisce invece a una specifica forma di illegalismo, a un fenomeno storico che è al contempo oggetto di sapere – in quanto costituito da specifici campi discorsivi che lo prendono in carico – e operatore di potere – nella misura in cui costituisce una forma di illegalismo politicamente docile ed economicamente meno pericolosa, nonché controllabile e utilizzabile, configurandosi come effetto, ingranaggio e strumento del sistema disciplinare24. Foucault considera infatti la delinquenza moderna come un prodotto della prigione, e più ampiamente del funzionamento stesso del sistema disciplinare, il quale, se da un lato ha il fine di rispondere – come si vedrà a breve – alle nuove forme di illegalismo, dall’altro però produce e fabbrica delinquenza esso stesso, in una pluralità di sensi, come fenomeno sociale – ambiente marginalizzato ma politicamente controllabile – e come oggetto di sapere – forma di soggettività patologica. E in tale senso, ossia come sinonimi di delinquenza, devono intendersi anche altri concetti impiegati da Foucault, quali quelli di milieu o pègre, che pure di primo acchito sembrerebbero rinviare a una dimensione più esistenziale, sociologica o psicologico-morale.

Se dunque, come anticipato, il problema foucaultiano è di natura essenzialmente strategica, sarà quantomeno necessario – prima di affrontare tutto il campo teorico che ne discende – richiamare il significato che Foucault attribuisce a questo concetto, a partire dall’assunzione della friabilità del nostro suolo storico, assunta tra le premesse fondamentali del suo metodo. Foucault ha difatti spesso affermato di essere intenzionato a far emergere il sistema di razionalità sotteso alle nostre pratiche e ai nostri saperi, a «mettere in luce, nel loro potere di coercizione ma anche nella contingenza della loro formazione storica, i sistemi di pensiero che ora ci sono divenuti famigliari, che ci sembrano evidenti e che entrano a costituire le nostre percezioni, i nostri atteggiamenti, i nostri comportamenti»25. Ebbene, le condizioni che, in un dato momento storico, rendono tale o tal altra pratica accettabile costituiscono per Foucault un campo autonomo di ricerche in virtù della loro regolarità, della loro ragione o del loro regime. Ragione che è intesa da Foucault non come fondamento intemporale di un fenomeno, ma come strategia, ragion d’essere dei mutamenti fenomenici. Per comprendere adeguatamente cosa intenda Foucault con strategia sarà sufficiente pensare alla sua analisi delle prigioni – analisi strategica capace di tenere insieme elementi eterogenei solo all’apparenza sganciati gli uni dagli altri (potere disciplinare, produzione di delinquenza, architettura, discorso giuridico-politico, discorso scientifico, trasformazione dei modi di produzione e della ricchezza, etc.) – come ingranaggio produttivo in un sistema complesso, e non certo strumento repressivo del potere26. Quella tracciata da Foucault non è infatti una storia delle prigioni, ma la storia della razionalità che opera nelle istituzioni e nella condotta dei soggetti, e dunque un’analisi dell’istituzione nella misura in cui essa, attraverso determinate condizioni di accettabilità, permette di integrare rapporti differenziali di forza in un campo sociale27.

 

 

La malavita nel regime di verità e di potere

 

In Sorvegliare e punire Foucault osserva come la riforma penale illuminista della fine del XVIII secolo avesse in qualche modo unificato la lotta contro gli illegalismi minando alle basi la rete di appoggi che nell’Ancien Régime stringeva gli uni agli altri gli illegalismi di differenti classi sociali; e osserva, soprattutto, come tra ’700 e ’800 l’addolcirsi delle leggi fosse stato preceduto dall’addolcirsi dei crimini – ossia da una considerevole diminuzione dei delitti di sangue, a fronte dell’aumento di quelli contro la proprietà –, e come tutta una piccola delinquenza, sino ad allora trascurata dall’azione penale, fosse divenuta suo principale bersaglio: «lo spostamento da una criminalità di sangue ad una criminalità di frode fa parte di tutto un complesso meccanismo, in cui figurano lo sviluppo della produzione, l’aumento delle ricchezze, una valorizzazione giuridica e morale più intensa dei rapporti di proprietà, i metodi di sorveglianza più rigorosi, un più stretto controllo della popolazione, tecniche più avanzate di individuazione, di cattura, di informazione: lo spostarsi delle pratiche illegali è correlativo ad una estensione e ad un affinamento delle pratiche punitive»28. La trasformazione del sistema penale in senso disciplinare coincide allora con l’emergenza di un nuovo illegalismo popolare, il quale, come notato da Stéphane Legrand, risulterebbe difficile (oltre che poco vantaggioso economicamente) cercare di limitare, e che perciò si preferisce mantenere e strumentalizzare29. In questa nuova politica della popolazione la prigione gioca un ruolo decisivo, e tra le sue utilità figura appunto quella di produrre delinquenza.

Durante l’Ancien Régime tra l’illegalismo dei ceti bassi e quello delle classi sociali più alte vi erano infatti conflitti, ma anche forme di comunicazione: «il rifiuto dei contadini di pagare certi canoni statuali o ecclesiastici non era necessariamente malvisto dai proprietari terrieri; la non-applicazione da parte degli artigiani dei regolamenti di fabbrica era incoraggiata spesso dai nuovi imprenditori; il contrabbando – la storia di Mandrin accolto da tutta la popolazione, ricevuto nei castelli e protetto dai parlamentari, lo prova – era largamente sostenuto». Insomma, «il gioco reciproco degli illegalismi faceva parte della vita politica ed economica della società. Meglio ancora: un certo numero di trasformazioni (la desuetudine, ad esempio, dei decreti di Colbert, l’inosservanza delle pastoie doganali, nel regno, la dislocazione di regole corporative) si era operato nella breccia quotidianamente allargata dall’illegalismo popolare; e di queste trasformazioni la borghesia aveva avuto bisogno e su di esse aveva fondato una parte della crescita economica»30. Ma tra il XVIII e il XIX secolo, contemporaneamente alla genesi del capitalismo e alla trasformazione della classe popolare in classe lavoratrice, ha luogo una massiccia trasformazione degli illegalismi popolari di cui Foucault individua tre processi consistenti nell’inserzione degli illegalismi in un orizzonte politico generale, nella loro articolazione sulle lotte sociali, e infine nella comunicazione tra differenti forme e livelli di infrazione. Emerge così un nuovo illegalismo popolare, o più esattamente, l’illegalismo popolare si sviluppa secondo nuove dimensioni, intersecando «i conflitti sociali, le lotte contro i regimi politici, la resistenza al movimento di industrializzazione, gli effetti delle crisi economiche»31. L’illegalismo si interseca cioè con le lotte di classe contro le nuove forme della proprietà, l’abbassamento dei salari, l’allungamento della giornata lavorativa, etc., che il nuovo sistema di potere tenderà a limitare cercando di impedire l’organizzazione politica degli individui e di spoliticizzare gli illegalismi popolari.

Non è però tanto in Sorvegliare e punire che viene sviluppato questo tema, quanto in La société punitive, dove si connota altresì di più marcati echi marxiani. È qui infatti che per la prima volta Foucault lega esplicitamente la nascita della delinquenza, nel senso sopra specificato, al sistema disciplinare, edificato quest’ultimo come risposta ai nuovi illegalismi popolari indirizzati contro le nuove forme di accumulazione del capitale, e funzionale al consolidamento del dominio borghese e alla riproduzione dei rapporti di produzione32. Se dunque nel XVII secolo e ancora per buona parte del successivo sussiste una forma di compatibilità e di comunicazione tra l’illegalismo popolare e quello ‘borghese’ – così, ad esempio, nei tentativi di evasione della regolamentazione reale sulle forme di produzione e del prelievo fiscale (che cominciano a realizzare un rapporto di tipo capitalistico in un campo regolamentare che non lo consentiva) –, nella seconda metà del XVIII secolo questo equilibrio comincia ad incrinarsi, e con la trasformazione dei modi di produzione, con le nuove forme di accumulazione della ricchezza e con l’intensificazione degli scambi, «quell’illegalismo che funzionava innestato sullo sviluppo dell’economia, [diviene] incompatibile con esso»33. La borghesia non può certo tollerare l’illegalismo nei confronti della proprietà fondiaria, e ancor meno quello rivolto contro la proprietà commerciale e industriale. Gli stocks, i mezzi di produzione e tutte le altre nuove forme della ricchezza sono affidati ogni giorno alle mani degli operai, che sono complici della maggior parte dei furti. Nasce qui il bisogno di costruire un popolo come soggetto morale separandolo dalla delinquenza (e ciò anche mediante una specifica strategia di percezione della delinquenza); nascono qui le pratiche di moralizzazione delle classi operaie: in precedenza «non c’era una classe autonoma di delinquenti […]. A partire dal momento in cui l’accumulazione del capitale ha messo nelle mani della classe popolare una ricchezza investita sotto forma di materie prime, di macchine, di strumenti di lavoro, è stato assolutamente necessario proteggere questa ricchezza […] attraverso una morale rigorosa: di qui la formidabile cappa di moralizzazione che è piombata dall’alto sulla popolazione nel XIX secolo»34.

È opportuno al riguardo richiamare un brano molto esemplificativo, benché poco noto, nel quale Foucault enuncia le pratiche attuate dalla borghesia per reprimere gli illegalismi popolari:

 

1) la denuncia di tutte queste forme socializzate di illegalismo, di coloro che praticano l’illegalità come nemici sociali: mentre il delinquente del XVIII secolo, che praticava la frode e il contrabbando, non era un nemico sociale, nella misura in cui consentiva al sistema di funzionare, alla fine del secolo il delinquente è definito nemico pubblico. Ecco così che la nozione teorica del criminale come soggetto che rompe il contratto sociale è riarticolata all’interno di questa tattica della borghesia;

2) l’applicazione sistematica, all’inizio del XIX secolo e al fine di distruggere le formazioni illegali, di strumenti quali l’infiltrazione di elementi sobillatori (noyautage), l’informatore, il delatore (mouchard). Certo, il delatore esisteva già nel XVII secolo, e serviva essenzialmente a sorvegliare; ma oramai la borghesia infiltra i suoi agenti all’interno dei gruppi delinquenti;

3) infine, la borghesia aspira ad ottenere che tra l’operaio e l’apparato di produzione che questi ha tra le mani si inscriva qualcosa che non sia soltanto la legge negativa “questo non è tuo”. Vi è bisogno di un supplemento di codice che venga a completare e far funzionare questa legge: bisogna che l’operaio stesso sia moralizzato. Nel momento in cui gli si dice: “tu non hai che la tua forza lavoro e io la compro al prezzo di mercato”, e nel momento in cui gli si mette tra le mani tanta ricchezza, bisogna iniettare nel rapporto tra l’operaio e la materia su cui lavora tutta una serie di obbligazioni, di costrizioni che vanno a raddoppiare la legge del salario, che all’apparenza è la semplice legge del mercato. Il contratto salariale deve essere accompagnato da una coercizione che funziona come la sua clausola di validità: bisogna rigenerare, moralizzare la classe operaia […];

4) affinché questo supplemento di codice possa funzionare effettivamente, e il delinquente appaia come un nemico sociale, è necessario qualcosa in più: la separazione effettiva, all’interno degli strati popolari che praticano l’illegalismo, tra delinquenti e non-delinquenti. È necessario che questa grande massa continua di illegalismo economico-politico – che andava dal crimine di diritto comune alla sedizione politica – sia distrutta, e che vi siano da un lato i delinquenti puri, dall’altro coloro che, liberi dalla delinquenza, potranno essere chiamati non-delinquenti. In tal modo, ciò che la borghesia realizzerà non è tanto la soppressione della delinquenza; l’essenziale dell’obiettivo del sistema penale è il taglio di questo continuum dell’illegalismo popolare e l’organizzazione di un mondo della delinquenza. Per far ciò, vi sono due strumenti: a) uno strumento ideologico, ossia la teoria del delinquente come nemico sociale: non più colui che lotta contro la legge, che vuole sfuggire al potere, ma colui che è in guerra con ogni membro della società (l’aspetto improvvisamente mostruoso che assume il criminale alla fine del XVIII secolo, nella letteratura e nei teorici della penalità, corrisponde appunto a questo bisogno di operare un taglio netto all’interno dell’illegalismo popolare); b) degli strumenti pratici; e come precisamente la borghesia sostanzializzerà e isolerà la delinquenza? 1) Il primo mezzo è la prigione: appena definita la sua istituzione, appena aperti i primi complessi, si sapeva già che la prigione aveva come proprietà quella di ricondurre a sé quanti ne fossero usciti. Il grande ciclo della recidiva è stato percepito e riconosciuto immediatamente; si trattava di stabilire un circuito chiuso della delinquenza affinché questa si staccasse dal grande fondo dell’illegalismo popolare […]. 2) L’altro mezzo consiste nel mettere in concorrenza gli uni con gli altri i delinquenti e quelli che non lo sono; è così che nelle prigioni il lavoro è stato presentato come qualcosa in grado di concorrere con il lavoro operaio. Le prigioni del XIX secolo, in ragione delle condizioni materiali in cui si trovavano i detenuti, non erano peggiori delle condizioni di alloggio e di sussistenza degli operai: questa specie di concorrenza nella miseria è stata anche uno dei fattori di questa frattura. 3) Infine, da mezzo principale ha funto l’instaurazione di rapporti di ostilità reale tra delinquenti e non-delinquenti. Discende da qui la scelta di reclutare in modo privilegiato la polizia tra i delinquenti, e di adoperare l’esercito, da Napoleone in poi, come strumento per assorbire la delinquenza e per servirsi di quanti avevano rifiutato quest’etica del lavoro che si cercava di inculcare agli operai proprio contro gli operai, negli scioperi e nelle rivolte politiche35.

 

Prima che in “Bisogna difendere la società”, è dunque già in La société punitive che Foucault, rilevando per l’Ottocento la diffusione di una chiara coscienza tanto dell’esistenza di un clima di guerra sociale (padroni contro proletari, classi normali contro classi pericolose), quanto dell’apparente universalità delle leggi (così nei discorsi dell’epoca, di parte borghese e proletaria), assume la guerra come griglia di intelligibilità dei rapporti di potere, rovesciando lo schema hobbesiano dello stato come sospensione della guerra, e riconoscendo nella ‘guerra civile’ una matrice al cui interno il potere si rielabora36.

Ma torniamo a Sorvegliare e punire. È qui infatti che Foucault osserva come i tre processi sopra richiamati – l’inserzione degli illegalismi in un orizzonte politico, la loro articolazione sulle lotte sociali, la comunicazione tra diversi livelli di infrazione – siano «sufficientemente precisi da servire come supporto alla grande paura nei confronti di una plebe che si ritiene criminale e sediziosa insieme al mito della classe barbara, immorale e fuorilegge che, dall’Impero alla monarchia di Luglio, ossessiona il discorso dei legislatori, dei filantropi o degli studiosi della vita operaia». A corroborare questa paura concorrono anche quelle teorizzazioni, estranee alla teoria penale, per le quali il crimine è proprio di una specifica classe sociale, e lungi dal rendere estranei alla società, è piuttosto esso stesso prodotto del fatto che si vive in una società come estranei, «che si appartiene a quella razza imbastardita di cui parlava Target, a quella “classe degradata dalla miseria, i cui vizi si oppongono come un ostacolo invincibile alle generose intenzioni che vogliono combatterla”»37.

Dallo sviluppo di illegalismi mal tollerati dalla borghesia discende, ad ogni modo, non solo la generalizzazione della prigione, ma anche, come vedremo a breve, la produzione di specifici discorsi popolari e scientifici (dalla cronaca nera ai romanzi polizieschi al sapere criminologico) indirizzati verso individui o classi naturalmente pericolose, nonché di una delinquenza controllabile strumentale alla conservazione di un ‘ordine’ sociale: di una delinquenza isolata e marginale che è necessario allontanare dalle simpatie del popolo – che la borghesia ha invece interesse a costituire come classe lavoratrice da disciplinare – e che proprio in quanto ambiente chiuso su se stesso funge da maggiore deterrente alla politicizzazione dei nuovi illegalismi popolari.

La malavita moderna resta comunque in gran parte un prodotto della prigione, e per comprenderlo è necessario ricordare con Foucault come lo scacco della prigione debba considerarsi parte del suo funzionamento generale, tale per cui dinanzi alla constatazione del suo fallimento, la sola soluzione adottata sia stata quella di rilanciare la prigione stessa riattivando i princìpi della tecnica penitenziaria. In altri termini, una volta preso atto dello scacco della prigione, praticamente in contemporanea alla sua generalizzazione sociale, di tale inconveniente si è fatta una riutilizzazione strategica, traendone un’utilità politica ed economica.

Benché concepita come progetto di trasformazione degli individui, la prigione ha mostrato infatti il suo immediato fallimento, rivelandosi del tutto incapace di abbattere il tasso di illegalità e di trasformare i criminali in gente perbene, e contribuendo al contrario a provocare la recidiva e a fabbricare criminali – proprio per il tipo di vita cui i detenuti erano costretti –, favorendo l’organizzazione di un milieu delinquente38. E qui si pone la grande intuizione di Foucault: «Forse bisogna cercare ciò che si nasconde sotto l’apparente cinismo dell’istituzione penale che, dopo aver fatto scontare le pene ai condannati, continua a seguirli con tutta una serie di marchi (sorveglianza che era di diritto un tempo e che è di fatto oggi; passaporto dei forzati, un tempo, casellario giudiziario oggi) e che persegue come “delinquente” colui che si è già liberato dalla punizione? Non possiamo vedere qui piuttosto una conseguenza, che non una contraddizione? Bisognerebbe allora supporre che la prigione, e in linea generale, senza dubbio, i castighi, non siano destinati a sopprimere le infrazioni; ma piuttosto a distinguerle, a distribuirle, a utilizzarle; che essi mirino, non tanto a rendere docili coloro che sono pronti a violare le leggi, ma che tendano a organizzare la trasgressione delle leggi in una tattica generale di assoggettamento. La penalità sarebbe allora un modo per gestire gli illegalismi; di segnare i limite della tolleranza, di lasciar spazio ad alcuni, di esercitare pressioni su altri, di escluderne una parte, di renderne utile un’altra, di neutralizzare questi, di tirar profitto da quelli. In breve, la penalità non “reprimerebbe” puramente e semplicemente gli illegalismi; essa li “differenzierebbe”, ne assicurerebbe l’“economia” generale»39.

Lo scacco della prigione fa emergere «in mezzo ad altri una forma particolare di illegalismo, che essa permette di separare, di porre in piena luce e di organizzare come un ambiente relativamente chiuso, ma penetrabile». La delinquenza è «un illegalismo che il “sistema carcerario”, con tutte le sue ramificazioni, ha investito, ritagliato, isolato, penetrato, organizzato, chiuso in un ambiente definito, e al quale ha dato un ruolo strumentale, nei confronti degli altri illegalismi. In breve, se l’opposizione giuridica passa tra l’illegalità e la pratica illegale, l’opposizione strategica passa tra gli illegalismi e la delinquenza»40.

Prodotto dell’azione congiunta della prigione e dell’apparato penale volta a produrre un illegalismo controllato e controllabile come ingranaggio nel sistema legale, la malavita costituisce allora in quest’ottica una codificazione degli illegalismi popolari sviluppatisi a partire dalla rivoluzione industriale, codificazione che ha senza dubbio numerosi vantaggi. Essa consente infatti e innanzitutto di mantenere la delinquenza sotto stretto controllo, al limite della società e in condizioni precarie di esistenza, e di attenuarne la pericolosità politica, ostacolandone la relazione con una popolazione che avrebbe potuto eventualmente sostenerla, com’era invece accaduto – ricorda Foucault con Hobsbawm – nel caso dei contrabbandieri e di alcuni fenomeni di banditismo41. L’utilità di questo illegalismo concentrato risalta altresì in rapporto ad altri illegalismi: «isolato al loro fianco, ripiegato sulle proprie organizzazioni interne, votato ad una criminalità violenta di cui le classi povere sono spesso le prime vittime, investito da ogni parte dalla polizia, esposto a lunghe pene detentive, e in seguito ad una vita “specializzata”, questo mondo diverso, pericoloso, sovente ostile, blocca o per lo meno mantiene ad un livello sufficientemente basso le pratiche illegali correnti (piccoli furti, piccole violenza, rifiuto o deviazioni quotidiane dalla legge), impedisce loro di sfociare in forme più ampie e manifeste»42. Inoltre la delinquenza può essere utilizzata direttamente, come agente per l’illegalismo dei gruppi dominanti: così, ad esempio, nella colonizzazione, ma soprattutto nell’organizzazione delle grandi reti di prostituzione del XIX secolo (entro la quale funziona come agente fiscale illecito per pratiche illegali43), e infine negli affari politici, dove i delinquenti vengono utilizzati nel funzionamento extralegale del potere, come sorveglianti sorvegliati: provocatori introdotti nei partiti politici e operai, uomini di paglia scagliati contro gli scioperanti, polizia clandestina come esercito di riserva del potere. L’organizzazione «di un illegalismo isolato e chiuso sulla delinquenza non sarebbe stato possibile senza lo sviluppo dei controlli di polizia […]. Sorveglianza particolare prevista dal Codice del 1810 per i criminali liberati e per tutti coloro che, già passati in giudizio per fatti gravi, sono legalmente soggetti alla presunzione di attentare di nuovo al riposo della società. Ma sorveglianza anche di ambienti e di gruppi considerati pericolosi, da parte di spie o indicatori, quasi tutti ex-delinquenti, controllati, a questo titolo, dalla polizia: la delinquenza, oggetto tra altri della sorveglianza della polizia, ne è uno degli strumenti privilegiati»44. Ed è la prigione che facilita il «controllo degli individui dopo la liberazione, perché permette il reclutamento degli indicatori e moltiplica le denuncie scambievoli, perché mettendo i condannati gli uni in contatto con gli altri, precipita l’organizzazione di un ambiente chiuso su se stesso, ma che è facile controllare: e tutti gli effetti di disinserimento che essa genera (disoccupazione, interdizioni di soggiorno, residenze obbligate, obbligo di essere a disposizione) aprono facilmente la possibilità di imporre agli ex-detenuti i compiti loro assegnati. Prigione e polizia formano un dispositivo gemellato; in coppia assicurano in tutto il campo degli illegalismi la differenziazione, l’isolamento, e l’utilizzazione della delinquenza»45.

A sanzione di questo legame storico tra polizia, delinquenza e prigione, Foucault ricorda i casi celebri di Vidocq e Lacenaire. Il primo – ladro, contrabbandiere, disertore e lenone – è il perfetto esempio di come la malavita ‘vecchio stile’ sia stata assorbita dal sistema penale: prima condannato al bagno penale, Vidoq ne è uscito infatti informatore, per diventare poi poliziotto e infine capo della pubblica sicurezza. Il secondo è invece l’eroe criminale di una borghesia che cerca di fare del crimine un’arte di cui essa sola è capace: colto e sprezzante della delinquenza comune, Lacenaire si presenta come un criminale raffinato, quando in realtà non è che un informatore, goffo e ridicolo, un mediocre criminale dell’epoca di Robespierre; è l’emblema del trionfo della delinquenza sull’illegalismo, o «piuttosto la figura di un illegalismo confiscato da una parte della delinquenza e dall’altra spostato verso un’estetica del crimine, ossia verso un’arte delle classi privilegiate»46. Ed è altresì, secondo Foucault, la principale fonte di ispirazione di Gaboriau, tra gli inventori del romanzo poliziesco – che ha per l’appunto un’origine borghese: con Lacenaire «si celebrava la figura simbolica di un illegalismo assoggettato nella delinquenza e trasformato in discorso – ossia reso due volte inoffensivo»47. Diversi, Vidoq e Lacenaire, eppure simmetrici, l’uno espressione di quel «lungo concubinaggio della polizia e della delinquenza» che ha origine nel XIX secolo, l’altro spia di un fenomeno «diverso, ma legato al primo: quello dell’interesse estetico, letterario, che si comincia ad avere nei confronti del crimine, l’eroicizzazione estetica del crimine»48.

Deve quantomeno ricordarsi, inoltre, come i fenomeni sopra descritti consentano di operare la distinzione tra l’illegalismo dei beni (il solo oramai accessibile alle classi popolari) e l’illegalismo dei diritti (che la borghesia riserva a se stessa)49, e come diversamente l’illegalismo della classe dominante (ossia quello politico ed economico) non solo manchi di essere sanzionato e incluso nella teoria della delinquenza, ma non sia neanche percepito come socialmente pericoloso50.

Un ultimo aspetto decisivo, cui si accennava sopra, è quello della produzione discorsiva della malavita. La prigione, si diceva, oltre a dissociare gli illegalismi e a isolare la delinquenza, ha consentito che tutto un campo discorsivo la costituisse come nuovo oggetto di sapere, e dunque d’esperienza. La nascita della prigione ha comportato insomma anche l’emergenza di un determinato tipo di esperienza disciplinare, e con ciò la costituzione di uno specifico modo di vita della soggettività in generale, nonché della delinquenza. Nata come scienza di trasformazione e correzione del corpo, misto di ascetismo e controllo, la prigione si rivolge all’anima del soggetto51 e diviene il luogo di formazione di un sapere clinico che si fonda sulle tecnologie proprie di ogni istituzione disciplinare (scuola, caserma, atelier, collegio, etc.): sorveglianza gerarchica, sanzione normalizzatrice ed esame, tutto un sistema di contabilità di crediti e debiti rispetto alla norma, un’analisi di ogni difformità o anomalia, un’interrogazione infinita che definiscono l’operatività della partizione normale/anormale nella sua estensione all’intero ambito sociale.

L’individualizzazione disciplinare ha consentito la nascita di una penalità incorporea, e ancora di quelli che Foucault ha definito i saperi psy, i quali, insieme alle tecnologie morali di cui sopra, hanno modificato – abbassando il livello di descrivibilità dell’individuo – la percezione stessa del crimine e della punizione, determinando un abbassamento della soglia di accettabilità per cui si ritiene legittimo punire ed essere puniti, e operando altresì una naturalizzazione della delinquenza per il tramite della creazione di una nuova oggettività, la pericolosità, che altro non è che l’estensione degli effetti di potere comportati dalla crescita esponenziale dei dispositivi di normalizzazione52. La prigione ha offerto così alla giustizia la possibilità di congiungere le due serie di oggettivazione del crimine tracciate dai riformatori – quelle dei mostri morali o politici caduti fuori dal patto sociale e del soggetto giuridico riqualificato dalla punizione –, sino ad allora divergenti, nella figura del delinquente, nell’individuo che la psicologia e la criminologia assumono rispettivamente come violatore della legge e oggetto di una tecnica. Messa al centro di una tecnica di normalizzazione, la delinquenza diventa un elemento positivo, l’oggetto di un sapere e di un’ermeneutica della soggettività con radice psy. E certamente non si è sempre rilevato con la dovuta attenzione come a partire dalla costituzione di nuove oggettività si sia prodotta una profonda trasformazione dei modi di giudicare il crimine, che ha comportato a sua volta la trasformazione delle nostre stesse forme d’esperienza giuridica e morale53.

La delinquenza, dunque, è per Foucault una vera e propria figura storica e concettuale, correlato psichiatrico-criminologico di una forma di soggettività storica e di ordine tecnologico originata dalla prigione. Essa è anche parte integrante del sistema governamentale delle nostre società, di un sistema chiaramente orientato – come mostrato in Nascita della biopolitica – a partire dal pericolo, divenuto orizzonte costante dell’esperienza soggettiva. Il pericolo è infatti il correlato psicologico del liberalismo, e i meccanismi governamentali disciplinari e biopolitici hanno l’effetto di determinare una profonda angoscia relativa alla criminalità, e più ampiamente alla pericolosità sociale. Non è forse, infatti, anche l’esistenza della delinquenza a rendere accettabile il controllo della polizia? E non è la diffusione di pericoli lungo il corpo sociale a generare il desiderio di un potere che non si limiti a regolare la società attraverso la legge, ma che intervenga a proteggerci sempre, laddove vi sia rischio o pericolo?54

 

 

La scrittura dell’anomalia (o dell’iscrizione della malavita nel codice estetico-politico)

 

Come anticipato, la ridefinizione dei modi e delle forme della malavita è derivata, oltre che dalla trasformazione delle tecnologie morali e di potere, anche da una nuova serie di rappresentazioni, forme di scrittura e discorsi che hanno avuto implicazioni decisive in relazione alla percezione stessa della delinquenza.

Nel tentativo di analizzare tutto ciò, consideriamo innanzitutto quanto anticipato all’inizio del nostro discorso, vale a dire l’esperienza estetico-politica della malavita, e in particolare in relazione alla scrittura del crimine, che incarna una di quelle tecnologie di governo attraverso le quali «si può comprendere come la criminalità sia stata costituita in quanto oggetto di sapere e anche come si sia potuta formare una certa “coscienza” della delinquenza (da intendere sia come l’immagine che i delinquenti possono dare di sé, sia come la rappresentazione che può essere data dei delinquenti)»55. Che Foucault abbia nutrito sempre un grande interesse per la scrittura delle vite è certo cosa nota, e rilevabile, tra l’altro, dalle sue analisi dei lavori di Nietzsche e Artaud, dalle sue presentazioni delle memorie di Herculine Barbin e dell’anonimo autore di My secret life, e ancora dalle sue riflessioni sul caso di Pierre Rivière. Ma l’aspetto di questo interesse che più ci preme sottolineare in questa sede è quello che si focalizza su ciò che a buon diritto può qualificarsi come esperienza letteraria56 del crimine, vale a dire su quelle forme d’esperienza, frutto di pratiche di scrittura, che comportano la creazione di nuove forme di oggettività, nonché, per il soggetto scrivente, la sanzione del suo modo d’essere o la sua iscrizione in uno stile o in un nuovo modo d’essere. Queste forme di esperienza possono suddividersi in varie pratiche di scrittura del crimine che si articolano su vari livelli, come andremo a esemplificare. La malavita, potremmo affermare, si scrive infatti in molti modi, come è vero che la sua scrittura può avere tanto una funzione di governo e di controllo (schedatura), quanto una funzione correttiva (biografia), estetica (romanzo poliziesco), politica (parola trasgressiva o scandalosa), etc.

Per quanto attiene al primo livello, cominceremo con l’osservare che mentre nell’Ancien Régime il sovrano scriveva la sua condanna sul corpo del condannato, con la prigione la pratica della scrittura di sé e degli altri diviene un fondamentale ingranaggio della punizione. La delinquenza – lo si è visto – aveva infatti una particolare utilità come ingranaggio illegale del potere, e la scrittura del crimine si rivela appunto necessaria in quanto sistema funzionale all’individualizzazione del criminale e al controllo del campo sociale a un tempo. D’altronde, le sorveglianze di cui sopra «suppongono l’esistenza di una gerarchia in parte ufficiale, in parte segreta, [ma] anche l’organizzazione di un sistema documentario, il cui fulcro è costituito dall’individuazione e identificazione dei criminali: segnalazione obbligatoria acclusa alle ordinanze di fermo e ai decreti della corti di assise, segnalazione riportata sui registri d’immatricolazione delle prigioni; […] più tardi, organizzazione al ministero dell’Interno di un “registro generale” con repertorio alfabetico che ricapitola questi registri; utilizzazione verso il 1833, secondo il metodo dei “naturalisti, dei bibliotecari, dei negozianti, degli uomini d’affari” di un sistema di schede o bollettini individuali, che permette d’integrare facilmente nuovi dati, e, nello stesso tempo, col nome dell’individuo ricercato, tutte le informazioni che potrebbero applicarglisi57. La delinquenza, con gli agenti occulti che procura, ma anche con la stretta sorveglianza che autorizza, costituisce un mezzo di perpetuo accertamento sulla popolazione: un apparato che permette di controllare, attraverso gli stessi delinquenti, tutto il campo sociale. Gli statistici ed i sociologi ne hanno fatto uso a loro volta, assai più tardi dei poliziotti»58.

Ma l’elemento biografico è essenziale al funzionamento stesso della prigione: nella misura in cui il condannato deve essere oggetto di una tecnologia correttiva, allora bisogna saperne qualcosa. Il condannato non deve più pronunciare un discorso pubblico sul patibolo che serva da esempio; deve piuttosto scrivere nel suo isolamento una sorta di diario di prigionia che possa fungere da correttivo. La tecnologia correttivo-punitiva introduce così l’elemento biografico nella storia della penalità, facendo leva sul suo esercitarsi sulla vita, ciò che le impone di «ricostituirne l’infimo e il peggio nella forma del sapere, [di] modificarne gli effetti o colmarne le lacune, per mezzo di una pratica costrittiva. Conoscenza della biografia e tecnica dell’esistenza raddrizzata»59. Come già detto, in qualità di condannato l’individuo si costituisce altresì come oggetto di sapere, come delinquente, e si differenzia «dall’autore di un’infrazione per il fatto che è meno il suo atto che non la sua vita ad essere pertinente per caratterizzarlo». E dunque, se il delinquente è qualificato non dal suo gesto, ma dal suo stesso essere (passioni, istinti, carattere, inconscio, desiderio, etc.), ecco allora che l’introduzione «del biografico nello spazio carcerario è importante perché “fa esistere il “criminale” prima del crimine e, al limite, al di fuori di questo. Perché, partendo dal biografico, una causalità psicologica finirà, doppiando l’assegnazione giuridica della responsabilità, per confonderne gli effetti»60.

Il secondo livello dell’esperienza letteraria della malavita è legato invece alla letteratura in generale. Nella prospettiva di costituire il popolo come soggetto morale e separarlo dalla delinquenza, è proprio attraverso uno specifico orizzonte discorsivo che si è cercato di imporre una determinata percezione della delinquenza come onnipresente e temibile, vicina e insieme estranea. Alla criminalizzazione della classe popolare, e alle conseguenti pratiche di moralizzazione (in funzione della protezione del capitale), si accompagna infatti, nel perseguimento di una separazione tra strati popolari e criminalità, la nascita della letteratura poliziesca e della cronaca nera: come a significare che il crimine appartiene sì alle classi popolari per natura – ragion per cui sarà necessario insegnare loro nuove abitudini –, ma non deve appartenergli – ciò che giustifica il tentativo di separare il crimine da esse rendendolo piuttosto un affare dei grandi intelletti.

La cronaca nera, allora, «con la sua abbondanza quotidiana, rende accettabile l’insieme dei controlli giudiziari e di polizia che rastrellano la città; racconta giorno per giorno una sorta di battaglia interna contro un nemico senza volto e, in questa guerra, costituisce il bollettino quotidiano di allarme o di vittoria». Il romanzo poliziesco assume invece il ruolo inverso, avendo «la funzione di mostrare che il delinquente appartiene ad un mondo completamente diverso, senza rapporti con l’esistenza quotidiana e famigliare». Cronaca nera e racconti polizieschi rappresentano la criminalità «come vicinissima e nello stesso tempo estranea, perpetuamente minacciosa e incombente sulla vita quotidiana, ma estremamente lontana nella sua origine e nei suoi moventi»61. In altri termini, la cronaca nera (come quella della Gazette des Tribunaux) tentava di conquistare alla percezione popolare la prossimità e la pericolosità dei delinquenti, di modo da rendere accettabili i controlli di polizia, mentre il noir, inserendo il delinquente nei bassifondi, collegandolo alla follia, e infine all’alta società, ne enfatizzava l’estraneità rispetto all’ambiente quotidiano e familiare. Infine, assieme al fenomeno della delinquenza come ingranaggio nel sistema del potere, resta da considerare la sopra menzionata nuova estetizzazione del criminale. Poiché accanto a Vidocq vi è Lacenaire, ed entrambi lasciano memorie. Il caso di Vidocq, innanzitutto, testimonia di come nella società disciplinare la criminalità possa farsi ingranaggio del potere, con effetti prepotenti anche nell’ordine della rappresentazione, al punto che se «una figura aveva ossessionato le età precedenti, quella del re mostruoso, fonte di ogni giustizia e tuttavia insozzato dai crimini», con la società disciplinare, dopo Vidocq, «un’altra paura appariva, quella di una intesa nascosta e torbida tra coloro che fanno valere la legge e coloro che la violano. Finita l’età shakespeariana in cui la sovranità si affrontava con l’abominio nello stesso personaggio; comincerà ben presto il melodramma quotidiano della potenza poliziesca e delle complicità che il crimine annoda col potere»62. L’eroe criminale borghese, Lacenaire, supera invece il modello dei grandi crimini vecchio stile, dei re o popolari che fossero: «Verso il 1840 appare l’eroe criminale, eroe perché criminale, che non è né aristocratico né popolare […]. È in questo stesso momento che si costituisce questa separazione fra i criminali e le classi popolari: il criminale non deve essere un eroe popolare, ma un nemico delle classi povere. La borghesia, dal canto suo, costituisce un’estetica in cui il crimine non è più popolare, ma una delle belle arti di cui essa sola è capace. Lacenaire è il tipo di questo nuovo criminale. Egli è d’origine borghese o piccolo borghese […]. Il modo in cui parla degli altri delinquenti è caratteristico: erano bestie brutali, vili e maldestre. Lacenaire invece era il cervello lucido e freddo. Si costituisce così il nuovo eroe, che dà tutti i segni e tutte le garanzie della borghesia. Questo ci condurrà a Gaboriau ed al romanzo poliziesco in cui il criminale è sempre d’origine borghese. Nel romanzo poliziesco non si vede mai un criminale popolare. Il criminale è sempre intelligente, gioca colla polizia una specie di gioco fra eguali»63.

Con Lacenaire, si potrebbe affermare, la borghesia universalizza la propria posizione anche nel crimine. La celebrazione del crimine come una delle belle arti di monopolio borghese mira difatti, inconsciamente, a elevare il puro gusto del crimine di contro a quello basso e ignobile dell’illegalismo popolare, della delinquenza. Rilanciando in qualche modo lo schema kantiano della contrapposizione tra libertà e natura, il crimine come arte pura ed elevata concorre alla rappresentazione della delinquenza comune come volgare, bestiale e animale perché preda di appetiti immediati.

E tuttavia, tornando al discorso foucaultiano, il tentativo di sganciare la delinquenza dagli strati sociali popolari messo in campo dalla cronaca nera e dal romanzo poliziesco non può dirsi aver funzionato del tutto, dal momento che i giornali popolari, rovesciando le forme di rappresentazione di cui sopra, cominciano a proporre «un’analisi politica della criminalità che si oppone punto per punto alla descrizione cara ai filantropi (povertà-depressione-pigrizia-ubriachezza-vizio-furto-crimine). Il punto di origine della delinquenza, essi lo assegnano non all’individuo criminale […] ma alla società […]. E ciò sia perché questa non è atta a sopperire ai suoi bisogni fondamentali, sia perché distrugge o cancella in lui possibilità, aspirazioni o esigenze, che si faranno in seguito strada nel crimine»64. Di contro, puntano piuttosto il dito contro la delinquenza dei “truffatori del gran mondo”, autori del “più sfrontato dei brigantaggi”: «Non temete che il povero, messo sul banco dei criminali per aver strappato un pezzo di pane attraverso le sbarre di una panetteria, non si indigni un giorno abbastanza da demolire pezzo per pezzo la Borsa, un antro selvaggio dove si rubano impunemente i tesori dello Stato, i patrimoni delle famiglie?» (da La Ruche populaire, novembre 1842). Infine, denunciano il funzionamento di classe della giustizia penale, accompagnando tale denuncia con la diffusione di un’estetica del crimine di segno contrario. La contro-cronaca bolla la borghesia di putrefazione morale, e i furieristi giungono addirittura a formulare una teoria politica del crimine, tale per cui se esso «è un effetto della “civiltà”, è ugualmente, e per questo fatto stesso, un’arma contro di essa». Il crimine come segno dell’incomprimibilità della natura umana: spia non di debolezza, ma di energia vitale, diritto popolare irriducibile e arma per l’emancipazione sociale. La rivista La Phalange, ricorda Foucault, ospita appunto queste teorie, dando spazio, oltre che al rimprovero morale, alla rappresentazione delle forze sociali che si oppongono le une alle altre: presenta così «gli affari penali come uno scontro codificato dalla “civiltà”, i grandi crimini non [più come] mostruosità, ma [come] il fatale ritorno e la rivolta di ciò che è stato represso; i piccoli illegalismi non più come i margini della società, ma come il brontolio centrale della battaglia che vi si svolge»65.

L’ultimo livello dell’esperienza letteraria del crimine è quello relativo alla parola criminale, analizzata da Foucault da un lato come parola tenuta a obbedire a un discorso (psico-sociologico, criminologico, etc.) di cui essa non detiene le chiavi, e dall’altro come discorso politico sulla legge e sull’ordine, come un tipo di parola che costituisce una resistenza nei confronti del tessuto normativo della società, come una parola scandalosa volta a liberare l’esorbitante dall’ordinario, sia nella forma della parola trasgressiva o scandalosa che nelle più modeste forme di problematizzazione dell’ordine. Dopo la sua partecipazione attiva al Group d’information sur les prisons, nelle varie prefazioni redatte per libri scritti da detenuti, Foucault ha riconosciuto la possibilità che la presa di parola da parte di questi potesse dire qualcosa dell’ordine in cui siamo. Tali prefazioni si iscrivono certamente in quella che può ben definirsi la critica foucaultiana della giustizia, che attraversa numerosi contributi datati a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, e che si sostanzia di un lavoro di verità teso a mostrare come l’illegalismo faccia corpo con la legalità, e come le tecnologie di potere fabbrichino e mantengano un certo livello del giudicabile (le partizioni, giuridiche e morali, tra ciò che è suscettibile di giudizio e ciò che non lo è) nella nostra società. Contributi, sia chiaro, mai riducibili a un’apologia o eroicizzazione dei criminali, ma intenzionati piuttosto a rivelare come, attraverso un particolare uso del biografico, il criminale potesse svolgere un discorso, politico o strategico, sulla legge e sull’ordine.

Vero è che i discorsi criminali hanno una storia lunga e discontinua. Dalla modernità in poi, tuttavia, li si può però leggere, secondo un facile schema: come obbedienti a una partizione psichiatrico-criminologica che viene loro imposta; in modo antiermeneutico, ossia non per rintracciarvi un senso remoto di cui il commentatore sarebbe il più autentico operatore, bensì per decifrare i meccanismi di potere che attraverso quelle parole si esercitano (e in questo senso l’archivio giudiziario è il luogo per eccellenza del genealogista); come discorsi centrati sul rapporto politico che il criminale intrattiene con il suo crimine, in funzione di contestazione dell’ordine e di apertura di nuove pratiche di soggettivazione politica (con un certo rischio di eroicizzazione); infine, come punto di vista privilegiato sulle grandi complicità tra la malavita e l’ordine.

Nella prefazione al volume di Serge Livrozet, De la prison à la revolte, del 1973, Foucault sostiene che i discorsi dei detenuti sono accettati e inseriti nella letteratura in generale come ricordi di vita, o meglio, a condizione che rispettino la regola fondamentale di far apparire la condanna e la prigione come singolarmente destinate loro da una debolezza, da un genio oscuro o da qualche fatalità, ciò cui corrisponde, su un altro fronte (il romanzo poliziesco), l’infallibile rivelazione che sistematicamente mette in luce l’improbabile66. Il crimine può dunque essere vissuto e ricordato, non pensato; e il criminale deve essere un uomo solo (anche quando spalleggiato da complici), senza possibilità di rappresentare una verità attuale comune ad altri.

La forma di razionalità delle nostre società non tollera insomma che un criminale rifletta sulla questione politica del crimine67, o che proponga un’analisi suscettibile di trovare echi e riprese in altri. Il solo caso in cui si riconosce al crimine un valore collettivo, e in cui la malavita esiste come fenomeno d’insieme, è allorquando il discorso sociologico, psicologico o criminologico li prende a oggetto, quando cioè la memoria individuale, l’irregolarità dell’avventura singolare è ricondotta a quel profilo generale che ha il nome di «devianza», e la malavita diventa così, semplicemente, una sventura socio-psicologica. Al contrario, il libro di Livrozet cerca appunto di far emergere il senso politico dell’infrazione sul piano di chi l’ha commessa, presentando una prima persona che, nel ricordare i suoi delitti, reclama per il delinquente il diritto di parlare della legge. Si tratta, insomma, di un testo che si iscrive in quella tradizione anarchica che aveva tentato di instaurare un discorso politico popolare sul rifiuto attivo della legge e del potere.

Ma che questa riflessione di Foucault non vada generalizzata, quanto piuttosto compresa e contestualizzata, lo si comprende bene sia dalle sue analisi foucaltiane del controdiscorso dei fourieristi, di cui si è detto, sia da un’altra prefazione foucaultiana a una raccolta di interviste sottoposte a detenuti americani da Bruce Jackson68, nella quale Foucault rileva come a partire dal XIX un certo discorso della delinquenza si sia mosso su due registri, presentando da un lato il delinquente come prodotto della società (delinquente-vittima), e dall’altro la delinquenza stessa come rivolta (delinquenza-rottura, ad esempio nel caso del furto, contrapposto a quel furto ben maggiore che è la proprietà). A motivare tale ultimo contributo foucaultiano è proprio il discorso contenuto nel libro di Jackson, discorso che gli si confà maggiormente, e secondo il quale la malavita non rappresenta tanto il limite che l’ordine deve infrangere per realizzarsi, bensì la condizione del suo esercizio: non più scandalo shakespeariano del mostro politico, ma scandalo del legame del potere con la delinquenza ordinaria. La prefazione di Foucault ha allora il fine di mostrare come ciò che con un certo lirismo è definito il margine della società, il suo fuori, altro non sia che il suo scarto interno, ossia la distanza che ne consente il funzionamento. E mostra pure che la parola scandalosa delle voci che si agitano nel volume di Jackson è tale perché denuncia l’esistenza nel sistema di un varco perennemente aperto alla circolazione degli illegalismi (soprattutto di quelli più redditizi), e il funzionamento dell’ordine a partire da un illegalismo pianificato. Mostra, infine, come l’ordine stesso venga accettato in quanto al suo interno la delinquenza è coltivata e organizzata come pericolo permanente: «Perché la legge possa vigere agevolmente nella sua violenza segreta, perché l’ordine possa imporre le sue costrizioni, bisogna che vi siano, e non alle sue frontiere esterne ma al centro stesso del sistema e come una specie di gioco per tutti i suoi ingranaggi, queste zone di “pericolo” che sono silenziosamente tollerate e poi bruscamente magnificate dalla stampa, dalla letteratura poliziesca, dal cinema. E poco importa, alla fine, che il criminale vi sia presentato come un eroe della rivolta pura o come un mostro umano appena uscito dalle foreste: l’importante è che faccia paura»69.

Ma quanto le analisi fin qui ripercorse possono applicarsi al contesto italiano? Ormai al termine di questo discorso, vorremmo provare a svolgere una brevissima riflessione in proposito, motivata dal fatto che sebbene gran parte dei processi di potere individuati da Foucault abbia un carattere costituente transnazionale, non tutte le strategie descritte, con i loro relativi effetti, sono però precisamente rintracciabili nella nostra esperienza nazionale. Se è vero, da un lato, che l’amministrazione della giustizia funziona pur sempre all’interno di rapporti strategici, e che ha un perenne carattere di classe, e dall’altro che la popolazione carceraria, dall’Ottocento sino a oggi, è anche in Italia prevalentemente composta dalla cosiddetta classe pericolosa, il quadro italiano ha però un suo carattere del tutto peculiare in virtù del fatto che la malavita vi si è costituita come sistema di governo della popolazione assai più precocemente e più massicciamente che altrove: e ciò tanto nella malavita organizzata, che si pone come forma altra di codificazione degli illegalismi popolari, e che collabora con l’apparato statale70, quanto nello sviluppo della malavita dei colletti bianchi, che in Italia ha proceduto [e procede] parallelamente a quello dell’illegalismo dei diritti, di monopolio borghese. Foucault stesso ne era d’altronde più che consapevole, e proprio sulla base della presenza massiccia della malavita organizzata in Italia distingueva lo Stato italiano, classificato come stato di diplomazia in ragione delle forze (ivi compresa la malavita) alle quali rapportarsi, dallo Stato francese o da quello tedesco, stati di polizia nel senso moderno del termine, perché fondati su tecnologie di governo volte ad accrescere le forze costitutive dello stato: «Cos’è avvenuto in Italia? Curiosamente, sebbene la teoria della ragion di stato abbia trovato qui un ampio sviluppo, e il problema dell’equilibrio abbia rivestito una grande importanza al punto da essere spesso materia di commento, la polizia invece è assente, sia come istituzione, sia come forma di analisi e di riflessione. Si potrebbe avanzare la seguente ipotesi: la frantumazione territoriale dell’Italia, la relativa stagnazione economica a partire dal XVII secolo, la dominazione politica ed economica da parte degli stranieri, e inoltre la presenza della Chiesa come istituzione universalista e al contempo localizzata […], tutte queste condizioni hanno fatto sì, forse, che la problematica della crescita delle forze non si sia mai potuta imporre davvero, o meglio che questa problematica sia stata sempre attraversata e ostacolata da un’altra questione fondamentale per l’Italia, vale a dire l’equilibrio delle forze plurali, non ancora unificate e forse non unificabili. In fondo, la frantumazione dell’Italia ha sempre posto il problema della composizione e della compensazione delle forze, con il conseguente primato della diplomazia. Il problema della crescita delle forze, dello sviluppo mirato, consapevole, analitico delle forze dello Stato si è imposto solo successivamente. Questo era sicuramente vero prima dell’unità italiana, ma anche dopo, con la costituzione di qualcosa come uno stato italiano, che non si è mai realmente affermato come stato di polizia – nel senso che questo termine ha nel XVII e XVIII secolo –, ma è sempre rimasto uno stato di diplomazia, vale a dire un insieme di forze plurali tra cui bisogna stabilire un equilibrio: i partiti, i sindacati, le clientele, la Chiesa, il nord, il sud, la mafia ecc. Tutto ciò fa sì che l’Italia sia uno stato di diplomazia senza essere uno stato di polizia. Forse è questa la ragione per cui la forma di esistenza permanente dello stato italiano è una sorta di guerra, guerriglia o quasi guerra»71.

Insomma, sulle complicità strategiche tra l’ordine e gli illegalismi, sulle specifiche forme di razionalità politica, sui modi di percezione della delinquenza, sui discorsi e sui regimi di verità e su molto altro ancora, l’Italia meriterebbe un ragionamento a parte, seppur complementare a quello sui dispositivi di potere di cui fin qui si è detto: un ragionamento che analizzasse a fondo, almeno, il ruolo della cosiddetta borghesia mafiosa nell’illegalismo delle classi dominanti72, gli illegalismi finanziari, la corruzione diffusa, il carattere strategico della rappresentazione della malavita come puramente assassina, violenta e ignorante, l’importanza del discorso dei pentiti.



Note con rimando automatico al testo

1 Cfr. Platone, La repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001, 351c8-351d2: «secondo te, uno stato o una banda di predoni o di ladri o qualsiasi altro gruppo di persone associate per un’impresa ingiusta, riuscirebbero a combinare qualcosa se i loro componenti si facessero reciprocamente ingiustizia?». Sul rapporto tra ingiustizia e infelicità cfr. anche il libro II della Repubblica, nonché Platone, Gorgia, Laterza, Roma-Bari 1997.

 

2 Sant’Agostino, La città di Dio, IV, 4, Città Nuova, Roma 2000, pp. 171-172: «se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l’aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione dell’ambizione di possedere ma da una maggiore sicurezza nell’impunità. Con finezza e verità a un tempo rispose in questo senso ad Alessandro il Grande un pirata catturato. Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con franca spavalderia: “la stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta». L’episodio narrato da Agostino è tratto da Cicerone, De re publica, III, 4.

 

3 Cfr. G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Polimetrica, Monza 2007.

 

4 Cfr. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 10-11.

 

5 Cfr. H. Kelsen, Teoria generale delle norme (1979), Einaudi, Torino 1985, p. 21: «Chi pone una norma, e cioè comanda un determinato comportamento, vuole che un uomo (o più uomini) debba o debbano comportarsi in un determinato modo. Questo è anche il senso di un atto di volontà, che si designa con la parola ‘comando’. Ma non ogni comando è, secondo l’uso linguistico, un ordine, una prescrizione, una norma. Se un bandito mi comanda di dargli il denaro, certo il senso del suo atto di volontà è che io gli debba dare il mio denaro; ma il suo comando non viene interpretato come un ordine, una prescrizione, una norma. Come norma vale soltanto il senso di un atto di comando qualificato in un certo senso, cioè di un atto di comando autorizzato dalla norma di un ordinamento positivo, morale o giuridico».

 

6 N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992, p. 119.

 

7 Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), Einaudi, Torino 1966, pp. 57-58: «Se l’ordinamento coercitivo su cui si fonda questa comunità (la banda di briganti) e che comprende l’ordinamento interno ed esterno non viene qualificato come ordinamento giuridico, se il suo senso soggettivo (cioè che ci si deve comportare conformemente a tale ordinamento) non viene qualificato come suo senso oggettivo, questo avviene perché non si suppone una norma fondamentale, in base alla quale ci si deve comportare conformemente a questo ordinamento, ovvero, in altre parole, si deve esercitare la coazione alle condizioni e nel modo previsto da questo ordinamento. Ma – e questo è il problema di fondo – perché non si suppone tale norma fondamentale? Essa non viene presupposta perché o, più esattamente, se questo ordinamento non ha quest’efficacia continua, senza la quale non si presuppone alcuna norma fondamentale che ad esso si riferisce e che ne fondi la validità oggettiva».

 

8 N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Giappichelli, Torino 1958, p. 14.

 

9 Cfr. su questi temi M. Troper, È esistito uno stato nazista (1985), in Id., Per una teoria giuridica dello Stato, a cura di A. Carrino, Guida, Napoli 1998, pp. 165-171; J. Derrida, Stati canaglia (2003), Cortina, Milano 2003; M. Naim, Gli Stati mafiosi, in “La Repubblica”, 7 maggio 2012, p. 24.

 

10 B. Croce, Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, Memoria letta all’Accademia Pontaniana nelle tornate del 21 aprile e 5 maggio 1907, Napoli 1907, pp. 33-34.

 

11 H. Heller, Dottrina dello Stato (1934), a cura di U. Pomarici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1988, p. 315.

 

12 M. Stoppino, Potere e teoria politica, Giuffrè, Milano 2001, pp. 282-288.

 

13 Cfr. S. Romano, L’ordinamento giuridico (1917), Sansoni, Firenze 1977, p. 27: «il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante».

 

14 Ivi, p. 44.

 

15 G. Capograssi, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici, in Id., Opere, IV, Giuffrè, Milano 1959, p. 202.

 

16 Cfr. ivi, p. 204: «Non si riconosce nella sua universalità e si contraddice il principio a cui è legata nel concreto la pace con gli altri: si pone una esperienza che è universale e si tratta come particolare […]. Si pone un principio che implica l’unitario ordinamento dell’esperienza, e viceversa l’attività di colui che pone tale principio è volta proprio a negare l’esperienza come ordinamento».

 

17 Cfr. A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, Il Maestrale, Nuoro 2000, p. 58: «La differenza fondamentale che per prima occorre rilevare tra il codice della vendetta proprio delle società criminali e il codice della vendetta vigente all’interno di una comunità di vita quale la comunità barbaricina è data dalla diversa situazione di questa società rispetto a quella. Questa comunità è semplicemente una comunità di vita, una comunità storica, nel senso che il suo sistema di vita (il suo costume, la sua cultura o, se si vuole, la sua non-cultura) sono il suo stesso processo storico, la sua stessa vita: una struttura e, in qualche misura, un sistema […]. Sono peraltro una cultura e una vita che svelano una comunità, una società non costituita a fini particolari anche se vive, fatalmente, un sistema di vita che, in termini di generalizzazione, potremmo dire di tipo arcaico, cioè fortemente impenetrato dalla cultura moderna e dalle forme vitali dell’esperienza storica propria della cultura moderna».

 

18 Cfr. al riguardo, tra gli altri, L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia (1876), Donzelli, Roma 2011; G. Mosca, Che cosa è la mafia (1901), in Id., Uomini e cose di Sicilia, Sellerio, Palermo 1980; D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1992; U. Santino, Dalla mafia alle mafie. Scienze sociali e crimine organizzato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; F. Varese, Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori, Einaudi, Torino 2011. Si veda anche A. Dino (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza, Mimesis, Milano 2006.

 

19 Giovanni Falcone l’aveva ben visto allorché notava come la mafia non fosse tanto un anti-stato ma un’organizzazione parallela allo stato volta ad approfittare delle storture dello sviluppo economico. Cfr. al riguardo G. Falcone, M. Padovani, Cose di cosa nostra (1991), Bur, Milano 2004.

 

20 G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, in “Il Foro Italiano”, 1995, V, p. 28.

 

21P. Lascoumes, L’illégalisme, outil d’analyse, in “Sociétés et Représentation”, 3 (1996), pp. 78-79.

 

22 Cfr. M. Foucault, La société punitive (corso al Collège de France del 1972-1973, inedito, di cui è disponibile, conservata presso gli archivi del Collège de France, un dattiloscritto a cura di J. Lagrange), lezione del 21 febbraio 1973, pp. 122-123: «non si può comprendere il funzionamento di un sistema penale, di un sistema di leggi e di divieti se non ci si interroga sul funzionamento positivo degli illegalismi. È un pregiudizio intellettuale pensare che esistano primariamente dei divieti e secondariamente delle trasgressioni, che vi sia dapprima il desiderio dell’incesto e poi il divieto dell’incesto; in verità, se un divieto deve essere compreso e analizzato in rapporto a ciò che vieta, è però anche necessario che sia analizzato in funzione di coloro che vietano e di coloro ai quali è vietato. Credo che non si possa analizzare qualcosa come una legge o un divieto senza ricollocarlo nel campo reale degli illegalismi all’interno del quale essi funzionano: una legge non funziona e non si applica se non all’interno di un campo d’illegalismo che è effettivamente praticato e che, in qualche modo, la supporta. […] legare il funzionamento positivo dell’illegalismo all’esistenza della legge è una delle condizioni, sfortunatamente troppo dimenticata, per comprenderne il funzionamento».

 

23 Id., Dai supplizi alle celle (1975), in Id., Dalle torture alle celle, Lerici, Cosenza 1979, p. 28: «L’illegalismo non è un incidente, un’imperfezione più o meno evitabile. È un elemento positivo del funzionamento sociale, il cui ruolo è previsto all’interno della strategia generale della società. Ogni dispositivo legislativo ha riservato degli spazi protetti e ben utilizzabili in cui la legge può essere violata, altri in cui può essere ignorata, altri infine in cui le infrazioni sono punite. Al limite, direi senz’altro che la legge non è fatta per impedire questo o quel tipo di comportamento ma per differenziare i modi di aggirare la legge stessa».

 

24 Cfr. Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1995, p. 311.

 

25 Id., Che cosa significa punire? (1984), in Id., Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984, a cura di M. Bertani e V. Zini, Marietti, Genova-Milano, 2008, p. 176.

 

26 Si pensi semplicemente che per Foucault il sistema carcerario «unisce in una medesima configurazione dei discorsi e delle architetture, dei regolamenti correttivi e delle proposizioni scientifiche, degli effetti sociali reali e delle utopie invincibili, dei programmi per correggere i delinquenti e dei meccanismi che solidificano la delinquenza […]. Se l’istituzione prigione ha tenuto così a lungo, ed in una simile immobilità, se il principio della detenzione penale non è mai stato seriamente posto in questione, è senza dubbio perché il sistema carcerario si radicava in profondità ed esercitava funzioni precise» (Id., Sorvegliare e punire, cit., pp. 298-299).

 

27 Cfr. G. Deleuze, Foucault (1986), Cronopio, Napoli 2002, p. 154.

 

28 M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 84.

 

29S. Legrand, Les norme chez Foucault, Puf, Paris 2007, p. 88.

 

30 M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 91-92.

 

31 Ivi, p. 301.

 

32 Si sofferma su questo tema S. Legrand, op. cit., pp. 76-123, il quale afferma, in un modo che merita di essere discusso, che «le forme dell’accumulazione capitalista costituiscono l’ultima ratio della statalizzazione delle istanze di moralizzazione che, operando la diffusione sociale del coercitivo, articolano penalità e pratiche disciplinari» (p. 93).

 

33 M. Foucault, La société punitive, lezione del 21 febbraio 1973, cit., p. 117.

 

34 Ivi, p. 123.

 

35 Ivi, pp. 127-129.

 

36 Cfr. ivi, in particolare la lezione del 10 gennaio 1973, pp. 22-37.

 

37 Id., Sorvegliare e punire, cit., p. 303.

 

38 Nel 1974 Foucault inserisce la malavita all’interno dell’isotopia del sistema disciplinare inteso come sistema capace di moltiplicarsi perennemente in relazione allo scarto che esso stesso continuamente produce. Cfr. al riguardo Id., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-1974, Feltrinelli, Milano 2004, p. 63: «Mi sembra si possa dunque dire che un carattere specifico di questa isotopia dei sistemi disciplinari sia l’esistenza necessaria dei residui, che comporterà, ovviamente, l’apparizione di sistemi disciplinari supplementari per poter recuperare questi individui, e così via all’infinito. Visto che esistono soggetti deboli di mente, cioè individui irriducibili alla disciplina scolastica, si dovranno creare delle scuole per i deboli di mente, e poi delle scuole per coloro che risultino irriducibili alle scuole destinate ai deboli di mente. La stessa cosa accade con i delinquenti; l’organizzazione della malavita (milieu) è basata, in eguale misura, sull’azione in comune della polizia e di coloro che risultavano irriducibili. La malavita è un modo per far collaborare effettivamente il delinquente al lavoro della polizia. Si potrebbe dire che la malavita sia la disciplina di coloro che risultano irriducibili alla disciplina poliziesca. In breve, il potere disciplinare presenta questa duplice proprietà di essere anomizzante, vale a dire di ridurre costantemente ai margini un certo numero di individui, di produrre anomia, di far emergere dell’irriducibilità, e al contempo di essere sempre normalizzatore, di inventare sempre nuovi sistemi di recupero, di ristabilire ogni volta, di nuovo, la regola. A caratterizzare il potere disciplinare, insomma, è un perpetuo lavoro della norma all’interno dell’anomia».

 

39 Id., Sorvegliare e punire, cit., pp. 299-300.

 

40 Ivi, p. 305.

 

41 Cfr. ivi, p. 306. Il testo cui si fa riferimento è E. J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna (1969), Einaudi, Torino 2002.

 

42 M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 307.

 

43 Cfr. ivi, p. 308: «I controlli di polizia sulla salute delle prostitute, il loro regolare passaggio nelle prigioni, l’organizzazione su grande scala delle case chiuse, l’accurata gerarchia che era mantenuta nell’ambiente della prostituzione, il suo inquadramento a mezzo di delinquenti-informatori, tutto ciò permetteva di canalizzare e di recuperare attraverso una serie di intermediari gli enormi profitti sul piacere sessuale, che una quotidiana moralizzazione, sempre più insistente, votava ad una semiclandestinità e rendeva naturalmente più costosa […]. Il traffico di armi, quello dell’alcool nei paesi proibizionisti, o più recentemente quello della droga, mostreranno nello stesso modo questo funzionamento della “delinquenza utile”».

 

44 Ivi, p. 309. Cfr. inoltre Id., Conversazione sulla prigione: il libro e il suo metodo (1975), in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, p. 122: «A partire dal momento in cui qualcuno entrava in prigione, si metteva in moto un meccanismo che lo rendeva infame; e quando ne usciva, non poteva fare nient’altro che ridiventare delinquente. Cadeva necessariamente nel sistema che ne faceva un lenone, o un poliziotto, o un informatore. La prigione professionalizzava. Invece delle bande nomadi che percorrevano le campagne, e che erano spesso d’una grande brutalità, si è avuto un ambiente chiuso, infiltrato dalla polizia, ambiente urbano, e che è d’una utilità politica ed economica non trascurabile». «I delinquenti servono. Per esempio nel profitto che si può trarre dallo sfruttamento del piacere sessuale: è la creazione, nel XIX secolo, del grande edificio della prostituzione, che non è stato possibile che grazie ai delinquenti, che hanno mediato il piacere sessuale quotidiano e costoso e la capitalizzazione. Altro esempio: tutti sanno che Napoleone III ha preso il potere grazie ad un gruppo costituito, almeno al livello più basso, da delinquenti di diritto comune. Ed è sufficiente vedere la paura e l’odio che provavano gli operai del XIX secolo nei confronti dei delinquenti per comprendere ch’essi erano utilizzati contro di loro, nelle lotte politiche e sociali, per missioni di sorveglianza, di sobillazione, per impedire o spezzare gli scioperi, ecc.». La delinquenza, «diventata un corpo sociale estraneo al corpo sociale, perfettamente omogenea, sorvegliata e schedata dalla polizia, invasa dai confidenti e dalle ‘spie’, la si è immediatamente utilizzata su due fronti. Quello economico: prelevamento del profitto sul piacere sessuale, organizzazione della prostituzione nel XIX secolo ed infine trasformazione della delinquenza in agente fiscale della sessualità. Quello politico: è con dei gruppi d’assalto reclutati fra i malfattori che Napoleone III ha organizzato, per primo, l’infiltrazione nei movimenti operai» (Id., Dalle torture alle celle, cit., p. 20). Più avanti Foucault evidenzia, accanto al profitto politico, l’accettazione da parte della popolazione dei controlli polizieschi e il «beneficio di una manodopera garantita per le necessità politiche di più basso livello: attacchini, agenti elettorali, agenti antisciopero…» (ivi, p. 27).

 

45 Id., Sorvegliare e punire, p. 310.

 

46 Ivi, p. 313.

 

47 Ivi, p. 314.

 

48 Id., Conversazione sulla prigione…, cit., p. 127.

 

49 Cfr. Id., Sorvegliare e punire, p. 95: «la possibilità di giocare i propri regolamenti e le proprie leggi; di far assicurare tutto un immenso settore della circolazione economica da un gioco che si svolge ai margini della legislazione – margini previsti dai suoi silenzi o allargati da una tolleranza di fatto. E questa grande ridistribuzione dell’illegalismo si tradurrà in una specializzazione dei circuiti giudiziari: per l’illegalismo dei beni – per il furto –, tribunali ordinari e castighi; per l’illegalismo dei diritti – frodi, evasioni fiscali, operazioni commerciali irregolari – giurisdizioni speciali con transazioni, accomodamenti, ammende attenuate, ecc.».

 

50 Così P. Lascoumes, op. cit., pp. 83-84.

 

51 Com’è noto, è attraverso un’arte delle ripartizioni degli individui, un controllo dell’attività, l’organizzazione delle genesi e la composizione delle forze, che secondo Foucault il sistema disciplinare produce corpi docili, vale a dire corpi di cui si è affinata la potenza produttiva e diminuita la capacità politica. Cfr. Sorvegliare e punire, pp. 147-185.

 

52 Cfr. ivi, p. 338.

 

53 Al riguardo rinvio a G. Brindisi, Potere e giudizio. Giurisdizione e veridizione nella genealogia di Michel Foucault, Editoriale Scientifica, Napoli 2010.

 

54M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de france (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005, nonché Id., La sicurezza e lo Stato (1977), in Id., La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, Duepunti edizioni, Palermo 2009, p. 71.

 

55 Id., Prefazione alla Storia della sessualità, in Id., Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 237.

 

56 Cfr. J. Revel, Foucault, le parole e i poteri. Dalla trasgressione letteraria alla resistenza politica, Manifesto Libri, Roma 1996.

 

57 Si ricordi quanto affermato da Foucault in Sorvegliare e punire, cit., p. 310n: «Apparizione della scheda e costituzione delle scienze umane: un’altra invenzione che gli storici celebrano poco».

 

58 Ivi, pp. 309-310.

 

59 Ivi, p. 276.

 

60 Ivi, pp. 275-276. L’inchiesta biografica mostra l’esistenza del delinquente come oggetto naturale al di sotto di colui che ha trasgredito la legge: «nella misura in cui la biografia del criminale doppia nella pratica penale l’analisi delle circostanze quando si tratta di giudicare il crimine, vediamo il discorso penale e il discorso psichiatrico intrecciare le loro frontiere; e qui, nel loro punto di congiunzione, si forma quella nozione di individuo “pericoloso” che permette di stabilire una rete di causalità a scala di una intera biografia e di emettere un verdetto di punizione-correzione» (ivi, pp. 276-277). In nota Foucault sostiene che bisognerebbe «studiare come la pratica della biografia si sia diffusa a partire dalla costituzione dell’individuo delinquente nei meccanismi punitivi: biografia o autobiografia di prigionieri, in Appert [filantropo che visitava le prigioni e faceva redigere ai detenuti le loro memorie, NdA], costituzione di dossier biografici sul modello psichiatrico; utilizzazione della biografia nella difesa degli accusati» (ivi, p. 277). Per una prosecuzione di questa linea di ricerca si vedano almeno: P. Artières, Le livre des vies coupables. Autobiographies de criminels, Albin Michel, Paris 2000; P. Artières, M. Salle, Papiers des bas-fonds. Archives d’un savant du crime 1843-1924, Les éditions textuel, Paris 2008.

 

61M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 316.

 

62 Ivi, p. 312. Un ulteriore riflesso letterario della trasformazione moderna delle tecnologie politiche e morali può rintracciarsi nel passaggio dalle lettres de cachet (Cfr. M. Foucault, La vita degli uomini infami, in Id., Archivio Foucault 2, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 245-262, nonché M. Foucault, A. Farge, Le desordre des familles. Lettres de cachet des archives de la Bastille, Gallimard, Paris 1982) al sistema disciplinare. Se nel primo caso si è in presenza di un universo di riferimento čechoviano, nel secondo è riconoscibile una suggestione kafkiana. Cfr. al riguardo G. Deleuze, Pourparler (1990), Quodlibet, Macerata 2000, p. 145, e G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996, p. 100.

 

63 M. Foucault, Conversazione sulla prigione…, cit., p. 128.

 

64 Id., Sorvegliare e punire, cit., p. 317.

 

65 Ivi, pp. 320-321. Più avanti, alle pp. 321-323, Foucault affianca a Vidocq e Lacenaire un terzo personaggio di segno opposto, Béasse, che oppone alla disciplina il crimine come affermazione di un illegalismo fatto valere come diritto naturale, slancio vitalistico, per affermare infine che saranno gli anarchici, nella seconda metà del XIX secolo, a ristabilire l’unità degli illegalismi popolari.

 

66 Cfr. M. Foucault, Préface (1973), in Id., Dits et écrits, I, Gallimard, Paris 2001, pp. 1262-1266. La traduzione italiana di questo testo è in M. Foucault, L’emergenza delle prigioni. Interventi su carcere, diritto, controllo, La casa Usher, Firenze 2011, pp. 116-120.

 

67 Ne è d’altronde testimonianza il fatto che tutte le frasi censurate nelle Mémoires di Lacenaire attengono alle relazioni tra il crimine, lo Stato, la politica, la religione, l’economia.

 

68 Cfr. B. Jackson, In the Life: Versions of the Criminal Experience, Holt, Rinehart & Winston, New York 1972, tradotto in francese col titolo Leurs prisons. Autobiographies de prisonniers américains, Plon, Paris 1975.

 

69 Cfr. M. Foucault, Préface (1975), in Id., Dits et écrits, cit., p. 1557 (traduzione mia). Per la traduzione italiana cfr. Id., L’emergenza delle prigioni…, cit., p. 156. Cfr. anche Id., Conversazione sulla prigione…, cit., p. 129: «Di una società senza delinquenza si è sognato alla fine del XVIII secolo, e poi, dopo, pff. La delinquenza era troppo utile perché si potesse sognare qualcosa di così stolto ed in fondo di così pericoloso come una società senza delinquenza. Senza delinquenza non c’è polizia. Che cosa rende sopportabile alla popolazione la presenza ed il controllo poliziesco se non la paura del delinquente? Quest’istituzione così recente e così pesante della polizia non si giustifica che per questo. Se accettiamo in mezzo a noi questa gente in uniforme, armata, mentre noi non abbiamo il diritto di esserlo, che ci chiede i documenti, che si aggira dinanzi alle nostre porte, come sarebbe possibile se non vi fossero i delinquenti? E se non ci fossero tutti i giorni nei giornali degli articoli in cui ci si racconta quanto numerosi e pericolosi siano i delinquenti?».

 

70 Foucault stesso lo ricorda, sebbene in relazione agli Stati Uniti: «il caso della “Mafia” italiana trapiantata negli Stati Uniti e utilizzata insieme al prelevamento di profitti illeciti e a fini politici è un bell’esempio della colonizzazione di un illegalismo di origine popolare» (Sorvegliare e punire, cit., p. 308n).

 

71 Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 228-229. Cfr. al riguardo G. Borrelli, Italia, democrazia possibile?, in AA.VV., La democrazia in Italia, Cronopio, Napoli 2011, pp. 49-84.

 

72 Cfr. al riguardo S. Lodato, R. Scarpinato, Il ritorno del Principe. La criminalità dei potenti in Italia, Chiarelettere, Milano 2008.