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Chiesa e mafie

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Se si chiedesse a un campione di cittadini italiani se essere mafioso o camorrista o ‘ndranghetista sia compatibile con l’essere cristiano, se cioè la mafia la camorra la ‘ndrangheta siano conciliabili con la Chiesa, ciascuno degli intervistati risponderebbe con un no risoluto, meravigliandosi anche della domanda. Ma allo stesso modo, se si formulasse la medesima domanda a dei mafiosi camorristi e ‘ndranghetisti, anch’essi resterebbero meravigliati: per loro è ovvio rispondere di sì, che cioè non c’è nessuna contraddizione tra credere in Dio, nella Chiesa e al tempo stesso aderire ad una di queste organizzazioni criminali. Tanto è vero che non si conoscono mafiosi atei (escluso Matteo Messina Denaro) o anticlericali, non ci sono appartenenti alle mafie che non ostentino apertamente la loro fede. Nei loro covi si sono rinvenute numerose bibbie, immagini sacre, statue di santi, e in alcuni casi sono stati scoperti dei veri e propri altari su cui preti e frati andavano a dire messa e a porgere la comunione a dei ricercati per efferati delitti.

Essi si sentono naturalmente religiosi, credenti, devoti, anzi pensano di avere un rapporto del tutto particolare e speciale con Dio. Non li sfiora neanche lontanamente la percezione di assoluta incompatibilità tra l’essere dei feroci assassini e dei ferventi cattolici.

Oggi ci sembra assurdo che degli appartenenti ad associazioni criminali che hanno segnato la storia di quattro regioni meridionali e dell’Italia intera per più di un secolo e mezzo possano intrattenere un rapporto normale e sereno con la religione cattolica. Ma questo intenso rapporto è stato accettato tranquillamente dagli stessi esponenti della Chiesa locale e nazionale fino a pochissimi anni fa, e in molti luoghi di mafia continua ad esserlo.

La Chiesa italiana non ha mai prodotto un documento ufficiale, una presa di posizione contro le mafie fino agli anni ’70 del Novecento, cioè più di un secolo e mezzo dopo l’affermazione e il consolidamento di alcune delle organizzazioni delinquenziali più violente al mondo. La Chiesa non le ha mai combattute, non c’è stato mai un aperto contrasto fino ai tempi recenti. Un lunghissimo silenzio dei cattolici, del clero, delle gerarchie locali e nazionali, ha dominato incontrastato accompagnando l’evolversi di quei fenomeni criminali anche quando avevano assunto fama internazionale e la parola mafia era diventata il termine per antonomasia in tutto il globo per indicare la criminalità organizzata. Anzi, la storia della Chiesa in quei territori si svolgeva parallela a quell’espansione e più di una volta con essa si intrecciava, soprattutto in Sicilia.

Le cose sono cambiate nella seconda metà degli anni settanta del Novecento, ma lentamente e senza coinvolgere totalmente gli esponenti delle chiese locali, come vedremo in seguito. Il silenzio fu squarciato dalle omelie del cardinale Pappalardo nel 1982 in occasione di alcuni delitti eccellenti. Prima in Campania lo aveva fatto don Riboldi vescovo di Acerra, poi Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993. In seguito, gli omicidi di Padre Pino Puglisi a Palermo e di Padre Giuseppe Diana a Casal di Principe, gli attentati alla basiliche di S. Giovanni in Laterano e del Velabro a Roma, hanno spinto la Chiesa a più coraggiose prese di distanza dalle mafie, fino al documento della Conferenza Episcopale Italiana nel 2010. E questo atteggiamento nuovo (anche se minoritario) si è manifestato solo dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la fine della Dc, cioè dell’unità politica dei cattolici.

Come va interpretato questo plurisecolare silenzio della Chiesa? Ed è un silenzio superato completamente dalle posizioni di oggi? E le posizioni di oggi riguardano tutta la Chiesa o solo una minoranza? Di che natura è stato il silenzio: impaurito, complice, impotente o di comune appartenenza a valori e culture condivise, o tutte queste cose insieme? Ancora, la pastorale e la teologia morale della Chiesa si sono adeguate alla svolta degli ultimi anni? Per quale motivo, nonostante la svolta recente, Cosa nostra e le altre organizzazioni similari non sono state formalmente scomunicate, e si continuano a celebrare ancora oggi matrimoni, cresime e funerali di mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti? E perché alcuni preti vanno a dire messa nei covi di latitanza di pericolosi capimafia? Infine, è possibile il pentimento davanti a Dio senza che ciò abbia conseguenze sociali e civili verso le vittime? La concezione del perdono e del pentimento dominante nella Chiesa è compatibile con una lotta senza quartiere a questi fenomeni criminali?

Insomma, le domande sono tante e le potremmo racchiudere in una complessiva: oltre a un lunghissimo ed evidentissimo silenzio, non c’è stata anche una certa assonanza tra la cultura mafiosa e la cultura che la Chiesa ha diffuso soprattutto nell’Italia meridionale?

Bisogna prendere atto che una società profondamente plasmata dalla cultura cristiana ha partorito Cosa nostra, la Camorra, la ‘Ndrangheta e la Sacra corona unita. E le ha partorite non in contrapposizione alla Chiesa e alle sue istituzioni, ma in una formale e pubblica adesione ai suoi riti, alle sue credenze, al rispetto delle sue gerarchie e del suo ruolo nella società. Le mafie hanno trovato terreno fertile proprio laddove la presenza della Chiesa e dei cattolici è molto rilevante. In quattro ‘cattolicissime’ regioni meridionali si sono sviluppate alcune delle organizzazioni criminali più spietate e potenti al mondo, senza che – fino a pochi anni fa – ci fosse contrasto tra esse e le gerarchie cattoliche. Questa la verità storica incontestabile. È un fatto storico che le mafie hanno sempre rispettato la Chiesa e (purtroppo) la Chiesa ha sempre rispettato o non ostacolato i mafiosi.

Ma se degli assassini si sentono credenti in Cristo e nella sua Chiesa, «o c’è un problema nella loro testa bacata o c’è un problema nella Chiesa cattolica, o in tutti e due»: sono parole di Augusto Cavadi da condividere pienamente. Le mafie durano da quasi 200 anni. Se non sono state ancora sconfitte o ridimensionate vuol dire che i motivi del loro ‘successo’ non sono stati completamente individuati. Numerosissimi studi hanno interrogato la politica, le istituzioni, lo Stato, la cultura e la società meridionali. Chi ha cercato nel familismo amorale la causa di tutti i nostri mali (comprese le mafie), chi nell’assenza storica di senso civico. Ma se la spiegazione è di ordine culturalista, cioè attiene alla cosiddetta mentalità, perché mai non si interroga fino in fondo la cultura cattolica che ha svolto un ruolo fondamentale come principale agenzia formativa del senso comune dei meridionali?

Se degli assassini credono in Dio, se si sentono dei buoni cristiani, se non li sfiora minimamente la inconciliabilità tra il macchiarsi le mani di sangue e sentirsi parte della grande famiglia cattolica, ciò dovrebbe rappresentare la principale preoccupazione dei vescovi italiani. Limitarsi a dire che si tratta di una «forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione», come hanno fatto nel loro documento in materia del 2010, non è assolutamente sufficiente. Si continua a bollare la religiosità dei mafiosi come una forma evidente di superstizione. Ma se queste testimonianze di fede dei mafiosi vanno etichettate come superstizione, allora si dovrebbe dichiarare superstiziosa gran parte della popolazione cattolica. Essi non fanno altro che manifestare la loro religiosità nelle forme in cui normalmente si manifesta e si è manifestata nei secoli la fede cattolica nel Sud d’Italia. Il messaggio della Chiesa si è dimostrato capace di coesistere senza conflitti con l’appartenenza mafiosa.

È del tutto ovvio che le mafie non avrebbero potuto radicarsi così profondamente nella storia meridionale senza un’acquiescenza degli esponenti della Chiesa cattolica, che spesso hanno piegato la dottrina cristiana alle esigenze di dare buona coscienza a degli assassini. Insomma, il successo delle mafie italiane rappresenta anche un insuccesso della Chiesa cattolica. Perché si sono permessi i sacramenti a dei pii assassini, si sono svolti per loro solenni funerali, sono stati accettati come padrini di battesimo e cresima, sono stati scelti per presiedere i festeggiamenti dei santi patroni e portare le loro statue sulle spalle? È normale tutto ciò?

Certo, va indagata in profondità la psiche di questi assassini e la loro particolare idea di Dio, ma al tempo stesso andrebbe interrogata la storia della Chiesa meridionale (e la storia della società meridionale influenzata dall’insegnamento cattolico), perché c’è qualcosa che non va se si sono sviluppate, senza contrasto con la Chiesa, alcune delle associazioni criminali più feroci al mondo proprio laddove più forte è il legame delle popolazioni con la fede cattolica.

La domanda che molti studiosi della criminalità si pongono è questa: le mafie avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell’intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, dell’indifferenza, della sottovalutazione della Chiesa cattolica e della sua dottrina? La risposta è no. Senza di ciò le mafie non sarebbero arrivate a tenere in pugno il futuro di intere popolazioni. Si è trattato solo di paura, di vigliaccheria dei rappresentanti della Chiesa o di qualcosa di più profondo?

Le mafie, ripeto, vanno considerate anche come un insuccesso della Chiesa, un problema da cui questa non può sottrarre le proprie responsabilità. Cosa sarebbe il Sud d’Italia se la Chiesa fin dall’inizio avesse combattuto in tutti i suoi uomini, e con tutto il peso della sua dottrina e della sua predicazione, questi fenomeni antievangelici e anticristiani? Sarebbero stati già sconfitti, o ridimensionati? Sicuramente sì. Senza la cultura cattolica e senza la sua influenza sulle vicende storiche e sociali dell’Italia, e in particolare del Sud, sarebbe stato più difficile il radicamento e il condizionamento di massa da parte delle mafie.

Ci sono sicuramente spiegazioni funzionali sulla religiosità dei mafiosi. Per un criminale il problema principale è il controllo dei sensi di colpa. Ammazzare non è una cosa così semplice, non è una ‘normale’ attività umana. Il senso di colpa per le azioni delittuose può mettere in crisi anche il più spietato degli assassini. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, ricchezza e potere. I killer seriali sono tali proprio perché non sentono nessun senso di colpa. Stessa cosa per i mafiosi. Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la ratio delle azioni mafiose e criminali e che è pronto al perdono per tutto quel che di delittuoso si compie, è una incredibile comodità. La Chiesa cattolica ha dato buona coscienza a degli assassini: questo è il principale ‘regalo’ fatto dalla religione cattolica ai mafiosi. Anche chi non crede riconosce alle religioni (a tutte le religioni) un presidio morale contro il male. Tutte le religioni tentano, ciascuna a proprio modo, di contenere il male che si sprigiona dall’uomo. Ancora di più ciò viene riconosciuto alla religione di Cristo. Ma se degli assassini non provano neanche rimorso per quello che commettono, e di norma si fanno il segno della croce prima di ammazzare, vuol dire che la credenza religiosa si è trasformata in auto-assolvimento.

In secondo luogo, i mafiosi non vogliono essere avvertiti come delinquenti dalla società che li circonda, dalla comunità in cui operano. Come si fa a percepirli come delinquenti se la loro presenza è accettata in Chiesa, se ad essi sono riservate le cerimonie più fastose, se li si sceglie come organizzatori delle feste religiose, se si consente loro di portare sulle spalle i santi in processione, se sono tra i principali benefattori delle attività caritative? L’ossessione della Chiesa per i peccati legati alla sfera sessuale l’ha privata nel Sud del ruolo di guida nella lotta alle più agguerrite organizzazioni criminali che il nostro Paese ha prodotto nella storia. La scomunica è stata usata solo per i suoi avversari ideologici (massoni, socialisti, comunisti) e per coloro che non rispettano le sue prescrizioni in materia sessuale e matrimoniale. Un divorziato non può accedere ai sacramenti, ma un Provenzano, un Riina, un Cutolo o un Piromalli sì. Anzi, ad alcuni capimafia i sacramenti sono stati portati nel loro rifugi di ricercati. Non è venuto il momento di risolvere radicalmente questa storica contraddizione?

 

La religiosità dei mafiosi. L’aiuto ricevuto da uomini di Chiesa

Scrive lo storico Marino: «Le due autorità, le due istituzioni sociali, la chiesa e la mafia, si annusavano e si incensavano vicendevolmente. Non a caso in una medesima famiglia potevano convivere, senza conflitto, ecclesiastici e notabili mafiosi. La mafia, con la benedizione di preti, monsignori e cardinali, era dedita a salvaguardare tutte le tradizioni locali dai pericoli crescenti della modernizzazione». Numerosi sono innanzitutto i casi di presenze di preti, frati, suore in molte famiglie di tradizione mafiosa. La cosa riguarda molto di più la Sicilia, meno la Calabria, e raramente la Campania e la Puglia. In Sicilia avere un prete in famiglia voleva dire prestigio e possibilità sociali per i mafiosi. Preti e mafiosi vivevano nella stessa casa senza imbarazzi e senza casi di coscienza, come un fatto naturale. Il caso più clamoroso è quello di Calogero Vizzini, capo della mafia siciliana fino agli anni ’50 del Novecento, definito il «re Sole della mafia». Lo zio, Giuseppe Scarlata, divenne vescovo nel 1910, precedendo di qualche mese analoga nomina di un altro zio, Giuseppe Vizzini. I due fratelli, preti di don Calò, erano padre don Totò (Salvatore) e padre don Giuanninu (Giovanni), vivevano in casa con lui, non potevano non sapere delle sue attività e non ebbero mai niente da obiettare. In quella famiglia le preghiere si alternavano ai comandi criminali. Quando il fratello Calogero veniva arrestato, procuravano le prove per scagionarlo, tra queste numerose attestazioni di alti prelati sulle sue spiccate «virtù cristiane». Anche Albert Anastasia, il capo in America della cosiddetta Anonima Assassini, era legatissimo al fratello sacerdote. Joe Profaci aveva un fratello prete e due sorelle suore. Frank Coppola aveva un nipote prete, il famigerato don Agostino Coppola (che sposò in latitanza Totò Riina e Ninetta Bagarella) che era addirittura membro effettivo di Cosa nostra.

Gli episodi che raccontano poi della profonda religiosità dei mafiosi e dell’acquiescenza di uomini di Chiesa nei loro confronti sono sterminati. Di omelie a favore di mafiosi è ricca la storia della Chiesa meridionale. A S. Paolo Belsito, in Campania, un prete ha recentemente ricordato nella predica domenicale «i giovani che non hanno potuto riavere la libertà», tra cui il camorrista del posto Michele Russo. Lo stesso prete aveva stabilito che a portare sulle spalle un giglio (delle enormi macchine sceniche di cartapesta a forma di fallo), nella famosa festa che si celebra a Nola in onore di S. Paolino, sarebbe stato un altro camorrista, Vincenzo Giagnuolo («se uscirà dal carcere» aveva precisato in una intercettazione telefonica). Sta di fatto che la gran parte delle feste dei gigli che si svolgono in provincia e nella città di Napoli sono tutte dominate o fortemente influenzate da camorristi. Avviene a Barra, a Crispano, a Ponticelli. La cosa è così evidente da essere diventata oggetto di numerose inchieste della magistratura che spesso hanno evidenziato la compiacenza dei preti di quei quartieri e di quei comuni. La procura di Napoli, ad esempio, ritiene che da anni «dietro i comitati organizzatori della festa dei gigli a Barra ci sono boss di primo livello». Qualche anno fa durante la stessa festa comparvero questi manifestini: «Omaggio per la tradizionale festa dei gigli ai piccoli padrini Luigi e Gennaro Aprea», cioè i figli minorenni di Giovanni Aprea, il boss che anche dal carcere controllava il quartiere della periferia orientale della città partenopea. A settembre del 2011 il settimanale l’Espresso ha pubblicato un video sulla stessa festa di Barra in cui si vedono baciarsi in bocca il rappresentante del clan Cuccaro e del clan Adinolfi sotto la «paranza» e Antonio Cuccaro, padrino del giglio (colui che lo ha finanziato e realizzato) ha sfilato su un’auto di lusso, una Rolls Royce bianca, tra gli applausi del pubblico. Il parroco ha benedetto il giglio ed è stato chiesto un minuto di raccoglimento «per i morti nostri» (cioè per quelli ammazzati negli scontri tra i clan di camorra). L’anno prima dalla stessa «paranza» si era reso omaggio ad un altro boss, Arcangelo Abate, appartenente al clan degli «scissionisti» protagonista della lunga faida di Secondigliano.

Nel settembre 2010 a Polsi, una frazione del comune di S. Luca in Aspromonte, durante la tradizionale festa in onore della Madonna, il boss Domenico Oppesidano è stato nominato «capo della Provincia», cioè capo della ‘ndrangheta. La cerimonia svoltasi all’aperto sotto un’effige della Madonna è stata ripresa dalle forze dell’ordine. Per i calabresi devoti la festa della Madonna di Polsi nella prima domenica di settembre è la ricorrenza religiosa più importante dell’anno. Gli ‘ndranghetisti non sono mai mancati all’appuntamento e da più di un secolo eleggono durante la festa il loro capo annuale. La prima notizia storica di un summit ‘ndranghetista a Polsi risale addirittura al 1895.

Nel dicembre 2011, appena dopo l’arresto di Michele Zagaria, uno dei capi storici del clan dei Casalesi, il parroco di Casapesenna, don Luigi Menditto, ha definito il boss «un parrocchiano come gli altri al quale portare il Vangelo», facendo immaginare che fosse andato a trovarlo, e forse a confessarlo e comunicarlo, nel suo covo da latitante a 6 metri sotto terra nel suo paese natale. Un feroce assassino «parrocchiano come gli altri»? È in frasi come queste che si avverte la distanza abissale tra il sentire comune di un cittadino preoccupato dal pericolo mafioso e quello di un uomo di Chiesa.

Benedetto Santopaola è stato per decenni il capo della famiglia mafiosa di Catania, ha studiato nell’istituto salesiano di San Gregorio, ha frequentato l’oratorio di Santa Maria delle Salette, sognava di fare il sacerdote e poi è diventato un assassino. Quando viene arrestato ha con sé una Bibbia, e prima di essere portato in carcere chiede di baciarla. Nel covo di latitante nelle campagne di Caltagirone aveva fatto costruire un piccolo altare dove si celebrava messa.

A Castellammare di Stabia c’è stato l’episodio della processione in onore di S. Catello guidata dal vescovo e fermatasi davanti alla casa di un boss (come da tradizione) suscitando le giuste e sacrosante proteste del sindaco. In molti comuni della Calabria durante le festività di Pasqua si svolge la cosiddetta «affruntata». Vengono portate a spalla le statue di Cristo e della Madonna. Al momento dell’incontro, viene slacciato il nodo del manto nero della Madonna. Ma non tutti possono avere questo privilegio. Occorrono somme considerevoli e in molti posti questo privilegio è riservato solo agli ‘ndranghetisti. Negli anni scorsi a S. Giovanni a Teduccio la statua del santo è stata portata in spalle dagli uomini del clan Esposito-Gitano. Il santo aveva già subito l’onta di girare con la fascia nera al braccio perché due membri del clan erano stati uccisi nei giorni precedenti la processione.

Ma il caso più clamoroso riguarda la festa di S. Agata a Catania. Secondo le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, entrambi affiliati al clan Santapaola, nel corso degli anni ’90 la criminalità organizzata catanese avrebbe controllato la gestione di diverse «candelore»1 e perfino soste e percorsi della statua della Santa in processione. Ecco quanto si legge nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuffrida: «Il cereo dei pizzicagnoli era gestito dalle famiglia dei Ceusi e Cappello, alle quali il mio gruppo riuscì a sottrarla con la forza nel 1994-1995. Anche gli altri cerei venivano gestiti da clan mafiosi. Quello dei pescivendoli era gestito dal clan Savasta. Il cereo dei macellai, invece, era gestito dai Cappello che gestivano anche il cereo dei fruttivendoli». Secondo l’altro collaboratore, Di Raimondo, il cereo del circolo Sant’Agata avrebbe fatto tappa nel quartiere di Monte Po per 7 anni per rendergli omaggio. «Decisi di fare arrivare la candelora nel quartiere sia per acquisire maggiore prestigio quale “mafioso” sia per senso di devozione verso la Santa. Il quartiere era perfettamente a conoscenza che la candelora era a Monte Po per una mia iniziativa. La “venuta” della candelora nel quartiere, comportò una spesa di circa 30-40 milioni di lire. Con tale somma vennero pagati i portatori, l’illuminazione del quartiere e i fuochi di artificio». La cifra venne stornata dai proventi di una bisca clandestina di zecchinetta. Continua Di Raimondo: «A celebrazione della venuta della candelora nel quartiere, feci realizzare uno stendardo con l’indicazione del nome della mia famiglia, con la dicitura “Di Raimondo 1992-1993”, che all’epoca costò tre milioni di lire. Lo stendardo venne appeso alla candelora del circolo di sant’Agata e vi rimase mentre io ero detenuto. Poi, nel 1998, non venne più appeso perché io ero diventato collaboratore di giustizia». Ben diversa la versione di Giuffrida: i motivi che portano alla gestione della festa sarebbero prettamente economici: «L’interesse a gestire un cereo è di natura esclusivamente economica. Ogni settimana venivano raccolte piccole offerte, da duemila a cinquemila lire, da ciascun esercente, raccogliendo a fine anno anche 200 milioni di lire. Una parte veniva utilizzata per pagare i portatori, ai quali veniva anche fornita gratis della cocaina detraendo il costo dalla somma complessiva. Altra parte della somma veniva destinata al pagamento del fuochista. Circa 150 milioni venivano versati in un fondo cassa del gruppo utilizzato per il pagamento degli stipendi o per acquistare cocaina o armi».

Il ricovero dei latitanti nei conventi è poi una vecchia tradizione. Riferendosi al recente passato un magistrato ha ricordato che Carmine Alfieri, il boss di Piazzolla di Nola a capo della Nuova Famiglia contrapposta alla Nuova camorra organizzata di Cutolo, fu ospitato nella sua latitanza nel convento dei cappuccini di Nola. Stessa cosa avvenne con Salvatore Giuliano. L’arcivescovo di Monreale divenne uno dei riferimenti obbligati delle trame intessutesi tra mafia e banditismo (nella sua diocesi operava Salvatore Giuliano). Secondo Mario Ovazza, deputato per quattro volte all’assemblea regionale siciliana, egli sarebbe diventato, probabilmente con l’intermediazione del capomafia monrealese Miceli, il depositario dei personali risparmi del Giuliano (20 milioni, una grossa somma di denaro a quei tempi) che dopo la sua morte sarebbero andati a finire nelle tasche di qualche altro prelato a conoscenza della vicenda.

Il giudice Cantone, nel suo libro Solo per giustizia, ha raccontato di una visita di un prete suo conoscente per raccomandargli benevolenza verso un imputato in un processo importante, quello contro i Casalesi. La motivazione era che si trattava del marito di una donna molto fervente, abituale frequentatrice della chiesa e della parrocchia. Il prete conosceva personalmente l’uomo e lo riteneva una brava persona, ma il brav’uomo era nientemeno che il cognato di uno dei capi dei Casalesi.

Altri giudici hanno raccontato episodi analoghi. Nel 2003 nella chiesa di S. Maria delle Cinque Piaghe nei quartieri spagnoli venne rubata la statua di Gesù bambino, detto «Ninno d’oro». Del furto si occupò anche la malavita organizzata. Una suora ammise: «Ci hanno aiutato. Ricordo che ci è stato molto vicino un uomo che poi è stato ucciso. Ci disse che avrebbe fatto di tutto per trovare il piccolo Gesù. Noi abbiamo pregato per lui tutti i giorni». Nel gergo si chiama «cavallo di ritorno», contrario alla legge e al senso civico, ma per le suore era un atto di fede.

Quando è stato catturato Provenzano, il suo rifugio era pieno di immagini e statuette sacre, e portava al collo alcune crocette, di cui una di legno. C’erano 91 santini (di cui 73 di Cristo), una Bibbia e un libro di preghiere con l’effige della Madonna e la scritta «pregate, pregate, pregate», una Sacra famiglia dentro una campana e un rosario nel bagno. C’erano inoltre, alle pareti, solo quadri religiosi (Ultima cena, la Madonna delle lacrime di Siracusa, una Maria regina dei cuori e delle famiglie, e un calendario con l’effige di Padre Pio). Dominava una maniacale attenzione per i simboli della religione cattolica. I pizzini ritrovati contengono frasi appartenenti ad una subcultura profondamente intessuta di religione, con frasi tratte dalla Bibbia e dai Vangeli.

Tutti hanno una Bibbia e tutti pregano. In tasca hanno sempre un santino, in genere con l’immagine di Cristo o della Madonna. Sono religiosissimi e ostentano la loro devozione. E nelle carceri le loro celle sono piene di immagini sacre. Maranzano, il boss originario di Castellammare del Golfo, capo della mafia americana prima dell’avvento di Lucky Luciano, era anch’egli religiosissimo e consigliava a tutti di andare a messa la domenica. In un vertice di Cosa Nostra il locale era addobbato di tantissimi quadri di argomento religioso. Lucky Luciano diceva di lui che era «il più grande patito di croci al mondo».

E i fratelli Cuntrera di Siculiana (Gaspare, Paolo e Pasquale), trasferitisi in Venezuela e considerati «i più grandi commercianti di eroina del bacino del Mediterraneo», ottengono di portare in una chiesetta di Montreal la statua del Cristo Nero che si venera nella chiesa di Siculiana. Il 3 maggio di ogni anno a loro spese veniva spedita la statua dal loro paese di origine in Canada.

Di Giuseppe Genco Russo, capo della mafia dell’anteguerra, sappiamo che era sempre presente a messa e disponeva di una panca riservata nella chiesa madre di Mussomeli. Era anche «superiore» della confraternita del SS. Sacramento, per cui aveva il diritto di sfilare nelle processioni davanti al baldacchino. Ebbe per il suo passaggio alla Dc il sostegno del vescovo di Caltanissetta.

Santo Sorge, una delle menti del traffico internazionale tra Sicilia e Usa, discendente da una famiglia che annoverava oltre a due prefetti anche un monsignore, ricevette una raccomandazione dalla curia di Palermo nei suoi rapporti con l’Irfis, Istituto regionale di finanziamento per l’industria in Sicilia. Si incaricò di ricostruire la chiesa del suo paese natale, Mussomeli.

Tra il 1947 e il 1950 in quasi tutti i paesi della Sicilia occidentale sorsero comitati di beneficenza con il preciso compito di raccogliere somme tra gli immigrati per riparare campanili, sacrestie, cappelle di campagna, orfanatrofi tenute da suore. Don Cesare Manzella, ritornato dagli Stati Uniti nel 1947, prese a cuore l’orfanatrofio delle suore del sacro Cuore del Verbo Incarnato di Cinisi, con annessa chiesa. Jimmy Quaresano (pregiudicato, cognato di John Bonventre) venne più volte in Sicilia per portare le offerte per riparare la chiesetta della Madonna del Ponte. E a lui fu dedicata una lapide sulla facciata per ricordarne la generosità. Il boss Frank Coppola, detto tre dita, si dedicò alle orfanelle e alla chiesa di Partinico, e gli fu offerta per questa opera di beneficenza la tessera ad honorem della Fuci (federazione universitaria cattolica italiana).

Salvatore Zizzo, boss del traffico degli stupefacenti, partecipava a tutte le processioni di Salemi, con il particolare di portare il fucile in spalla. Angelo Bottaro, boss di Siracusa, si presentava ai processi con il crocefisso in mano. Fu ammazzato mentre recitava il rosario. Devoto era Luciano Liggio, il boss di Corleone. In carcere legge Le confessioni di Sant’Agostino. E devoto era quel Filippo Marchese, uno dei più spietati killer di Cosa Nostra, che prima di strangolare qualcuno si faceva il segno della croce.

In genere alcuni mafiosi pregano prima di un omicidio, e ringraziano Dio e i santi dopo averlo commesso. Cercano il consenso divino sulle loro malefatte e considerano un segno divino sfuggire ad un agguato. Gioacchino Pennino, medico e uomo d’onore, ha raccontato che suo zio, capomafia, aveva addirittura l’abitudine di andare a pregare sulle tombe di coloro che «avevano dovuto abbattere», e tutto ciò senza nessun rimorso. Un altro uomo d’onore della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, autore di decine di delitti, confidò al giudice Scarpinato che sin da ragazzo ogni sera, prima di addormentarsi, diceva le preghiere, e anche quando era diventato un killer la sera, rientrando a casa dopo un omicidio, pregava. È noto inoltre che un killer della mafia siciliana andava a confessarsi in una chiesa di Palermo prima di commettere un omicidio. Coloro che sapevano bene chi era, vedendolo al confessionale, il giorno dopo andavano a comprare il giornale per capire chi era stato ammazzato. Aveva inventato la ‘confessione preventiva’.

Un ultimo episodio clamoroso riguarda la prima visita di Giovanni Paolo II a Palermo nel 1982. L’autista della macchina papale era Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra. Com’è stato possibile affiancare al Papa un mafioso del calibro di Siino?



Cerimonie mafiose allusive alle pratiche religiose

In tutte e quattro le organizzazioni criminali di tipo mafioso le cerimonie di iniziazione fanno riferimento alla religione. Per entrare nella mafia siciliana si riceve il «battesimo»: il candidato deve bruciare nelle palme aperte delle mani un’immagine sacra della Madonna (in genere la Madonna dell’Annunziata). Le parole pronunciate sono le seguenti: «Come carta ti brucio, come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se un giorno tradirò Cosa nostra». Lo stesso rito con parole diverse viene seguito nel giuramento degli ‘ndranghetisti. Nella strage del 15 agosto 2007 a Duisburg, in Germania, nella quale sono state assassinate sei persone appartenenti alla ‘ndrina dei Nirta e degli Strangio, una delle vittime, il diciottenne Tommaso Venturi, aveva nelle tasche una immaginetta bruciacchiata dell’arcangelo Michele. La sera della mattanza era stato affiliato alla ‘ndrangheta con il rito tradizionale, che prevede, come in Cosa nostra, di tenere nelle mani un’immagine sacra a cui viene dato fuoco.

Cutolo, invece, dà vita ad un’altra ritualità, copiandola dai riti ottocenteschi della camorra: prima della cerimonia di iniziazione «battezza» il locale dove si svolge la riunione. Il camorrista, poi, giura «innanzi a Dio e ai compagni di essere fedele a tutte le leggi della società dell’umirtà e di sottostare a tutti gli ordini che mi vengono dai miei superiori». Nello statuto della «Guarduna», la confraternita esistente a Toledo in Spagna fin dal Quattrocento che molti studiosi ritengono essere il modello della camorra ottocentesca, si fa riferimento a numerose attività religiose da sostenere con i proventi dei crimini: dire messe, fare offerte alle anime del purgatorio. Qualcuno ha avvicinato le regole della camorra codificate nel 1842 nel cosiddetto «frieno» alle Constitutiones di S. Ignazio di Loyola. Si racconta che la prima riunione della «setta detta camorra» si sia svolta in una chiesa di Napoli nella prima metà dell’Ottocento. All’articolo 10 dello statuto è scritto: «I componenti delle paranze e delle chiorme, oltre Dio, i Santi e i loro capi, non conoscono altre autorità». Non a caso lo scrittore Luigi Compagnone ha definito ‘catechistico’ lo statuto della camorra.

L’ingresso in una di queste organizzazioni comportava e comporta l’iniziazione, la sottomissione ad una gerarchia e l’osservanza di certe regole ritualistiche. Lo stesso giuramento mafioso e le regole a cui debbono sottostare gli adepti di Cosa nostra somigliano ai dieci comandamenti2. Anche nel nome delle organizzazioni ci sono riferimenti alla religione: Sacra corona unita è quello della criminalità pugliese, la ‘Ndrangheta è anche chiamata «la Santa» e «santisti» gli ‘ndranghetisti. Il termine di santista viene usato anche da Cutolo riprendendolo dalla camorra ottocentesca. E «mammasantissima» è il nome con cui si fa riferimento ai boss mafiosi e camorristi. «Cupola» è detto il vertice della mafia siciliana. «Il Papa» è in genere il capo della cupola, e «Padrino» si è nella mafia e in alcune cerimonie della Chiesa cattolica (battesimo e cresima).

Nella storia meridionale ritornano spesso leggende in cui violenza e religione sono strettamente legate, anche se a fin di bene. Nell’immaginario della mafia, il ricorso a presunte origini religiose dell’organizzazione è abituale. Per Cosa nostra si fa riferimento alla leggenda dei Beati Paoli, una setta segreta di incappucciati operante tra il XVII e il XVIII secolo in Sicilia per riparare ai torti subiti dal popolo. La leggenda fu ripresa dallo scrittore Luigi Natoli in un romanzo d’appendice, uscito su Il Giornale di Sicilia tra il 1909 e il 1910, che ebbe uno straordinario successo. Gli antenati religiosi della camorra sono i membri della citata Guarduna. La compagnia della Guarduna viene descritta da Manuel de Cuendias, nel commento a un libro sui misteri dell’Inquisizione e sulle società segrete spagnole, come una specie di ordine militare monastico di grande potere nella vita politica spagnola, introdotta negli ambienti di corte e della Chiesa, con regole ferree legate all’obbedienza. Anche i membri di questa setta riparavano con la violenza a presunti torti subiti dalle classi popolari. Altri antenati religiosi dei camorristi sono «gli abati di mezza sottana» o «tabanelli», delinquenti che sotto una specie di abito da prete nascondevano numerose armi e imponevano «paci con violenza e matrimoni a forza». Le loro azioni consistevano, scrive Pietro Giannone, nel «percorrere di giorno, e più spesso di notte quanti vicoli c’erano, dal quartiere di San Lorenzo fino alla Vicaria, ora ricattando bottegai e artigiani, ora scassinando e depredando i fondaci de mercadanti di drappi e panni e ricorrendo all’incendio quando qualche porta opponesse resistenza troppo lunga, senza che la povera gente, spaurita, osasse protestare. Basti dire che si erano ridotti i mercadanti nelle loro strade a far da sentinella la notte per le finestre».

Anche in altre criminalità di tipo mafioso nel mondo si fa ricorso abitualmente ad una nobilitazione religiosa delle origini o si copiano i riti di iniziazione dalla propria religione. Nella mitologia delle Triadi cinesi, per ribadire che non si tratta di una organizzazione criminale, si parla di una mitica nascita nel XVII secolo tra i monaci buddisti del monastero di Fuzhou in lotta contro la dinastia ‘straniera’ di origine Manciù dei Qing, che aveva spodestato la secolare dinastia dei Ming. Si racconta che per sconfiggere la resistenza di questi monaci, inventori del kung-fu, l’imperatore Ding mandò un esercito che distrusse completamente i nemici. I cinque sopravvissuti diedero origine alla Lega Hong, o banda rossa o triade, dal nome del triangolo scelto a simboleggiare i tre fondatori dell’universo, cioè terra, cielo, uomo. Anche nella cerimonia di iniziazione c’è un riferimento religioso. Il nuovo adepto deve prostrarsi di fronte agli Dei del cielo e della terra e deve pronunciare ben 36 giuramenti solenni. Anche nella Yakuza giapponese c’è un rituale di iniziazione che si rifà a pratiche religiose: l’adepto deve bere il sakè sacro. In Messico, infine, si è sviluppato enormemente il culto di Jesus Malverde, un bandito di strada venerato come un santo nello stato di Sinaloa. Viene anche definito «il bandito generoso», «l’angelo dei poveri» e ultimamente «il Santo dei Narcos», perché la sua specializzazione starebbe nella protezione delle persone che si dedicano alla produzione e al traffico della droga. Proprio per questa ‘qualità’ il suo culto si è esteso anche alla città colombiana di Calì, altro centro mondiale del traffico di stupefacenti. La sua santità e il suo culto non sono tuttavia riconosciuti dalla Chiesa cattolica.

 

Preti e frati mafiosi

 

Del rapporto tra delinquenti e chiesa è ricca la storia meridionale e non solo. Pietro Ulloa, procuratore del re a Trapani, già nel 1838 parla di molti arcipreti aderenti a una «fratellanza» di tipo mafioso. Leopoldo Franchetti, nella sua inchiesta sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, pubblicata nel 1876, parlava apertamente di preti mafiosi. Secondo lo storico Marino tra il 1870 e il 1882 almeno 30 preti erano a capo di cosche mafiose. Nel 1900 nel rapporto del Questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, si fa riferimento alla provenienza sociale di 206 mafiosi: 8 di questi erano preti. Nel 1912 don Ciro Vittozzi, un prete vicedirettore del cimitero di Napoli, viene condannato dal tribunale di Viterbo come aderente alla camorra. Così di lui scrive il giornale socialista dell’epoca La Propaganda: «l’arresto di questo malvivente chiercuto non ci ha destato alcuna meraviglia. Doppia qualità di prete e camorrista. Prendeva la tangente sulle compravendite». Il prete di Africo in Calabria, Don Giovanni Stilo, era amico di ‘ndranghetisti e mafiosi siciliani e fu al centro del celebre libro-denuncia di Corrado Stajano, uscito nel 1979 e intitolato appunto Africo. Celebre la sua scuola privata dove si distribuivano facilmente diplomi a persone provenienti da tutt’Italia. Anche il prete mafioso don Agostino Coppola vi si diplomò, e Luciano Liggio vi alloggiò durante la latitanza.

In un altro libro, La terribile istoria dei frati di Mazzarino di Giorgio Frasca Polara, si parla di seguaci di S. Francesco condannati per rapporti con la mafia in un celebre processo che aveva scosso e diviso l’opinione pubblica italiana all’inizio degli anni ’60 del Novecento. Questo gruppo di frati cappuccini del convento di Mazzarino in Sicilia fu al centro di estorsioni, ricatti, minacce, ferimenti, omicidi. Non era certo la prima volta che succedevano fatti di sangue all’interno di un convento, ma era la prima volta che all’interno di un luogo religioso si organizzava una banda di estorsori in combutta con dei mafiosi.

Della terribile vicenda di Monsignor Peruzzo ci parla Andrea Camilleri nel libro Le pecore e il pastore. Giovan Battista Peruzzo era vescovo di Agrigento quando nel 1945 fu ferito in un attentato di mafia da parte dei monaci del convento di Santo Stefano di Quisquina, un eremo a 2000 metri di altezza dov’era andato a pregare. Un proiettile lo centrò al torace, altri tre gli spaccarono l’avambraccio. Il vescovo rimase tra la vita e la morte per diversi giorni. L’attentatore era un frate dello stesso eremo, già precedentemente condannato a sei anni di confino dalla Questura di Agrigento. Vent’anni prima era stato assassinato il padre superiore del convento con sessanta coltellate.

In Campania, prima di don Peppino Diana, è stato ammazzato nel 1985 un prete a Somma Vesuviana, insegnante nel liceo di Ottaviano. Si tratta di don Peppino Romano, legato a Raffaele Cutolo e alla sua devotissima sorella Rosetta. Il prete era stato arrestato nel 1983 perché con la sua auto portava in giro per l’Italia Rosetta Cutolo allora latitante.

Ma il titolo di prete mafioso per eccellenza spetta a don Agostino Coppola, parroco di Cinisi. colui che il 16 aprile 1974 nei giardini di Cinisi sposa Totò Riina (latitante) con Ninetta Bagarella. Insieme a lui c’erano altri due preti, don Mario e don Rosario. Don Coppola venne ‘combinato’ mafioso (entrò in Cosa nostra) a Ramacca nel 1969. È celebre l’esclamazione di Pippo Calderone rivolta al fratello Antonino: «Gesù Gesù, anche un parrino in Cosa Nostra». Don Agostino era legato a Luciano Liggio e nipote di un capo di Cosa nostra Frank Coppola. Amministrava i beni della diocesi di Monreale (la più chiacchierata di Sicilia) e faceva da mediatore nei sequestri di persona fatti dai Corleonesi (quello di Cassina, di Luigi Rossi di Montelera e dell’industriale Emilio Baroni). Fu arrestato nel 1974, e nella sua abitazione vennero trovati 5 milioni provenienti dal riscatto di un sequestro di persona. Il colonnello Russo, ucciso poi dalla mafia, era convinto che don Agostino avesse nascosto Luciano Liggio latitante a Piano Zucco, zona in gran parte controllata dal prete e dai suoi fratelli Giacomo e Domenico. Tra il 1971 e il 1973, periodo di permanenza di Liggio latitante nel palermitano, padre Agostino Coppola acquistò beni per 49 miliardi di lire.

 

Sulla dissociazione o sulla privatizzazione della salvezza

All’interno del nesso tra mafie e Chiesa, il rapporto tra il concetto di pentimento (così come si è consolidato nel senso comune meridionale influenzato dalla cultura cattolica) e la figura del collaboratore di giustizia registra uno dei punti più critici e complessi. Non è scopo di questo saggio affrontare il tema e il ruolo dei pentiti nello smantellare organizzazioni criminali che si fondano sul vincolo della segretezza. Il giudizio degli esperti, a partire dai magistrati impegnati in prima linea nel contrasto, è unanime al riguardo: senza l’apporto dei pentiti e senza le norme che ne hanno favorito la collaborazione con lo Stato, la lotta alle mafie sarebbe ancora in alto mare. Su questo aspetto la Chiesa italiana non è stata di grande aiuto.

In fondo, qual è il comportamento ideale di un mafioso? Convertirsi e pentirsi davanti a Dio senza che ciò abbia conseguenze per altri, senza dover accusare nessun altro. Ciò si chiama in gergo giudiziario «dissociazione», mentre in termini religiosi «conversione» o «ravvedimento». In questo caso si resta uomini d’onore e ci si mette in pace con Dio. È la posizione di Cutolo, di Aglieri, di Guttadauro, di Riina, di Provenzano. Dice Cutolo in proposito: «Se avessi fatto come Giuda accusando e calunniando le persone, già sarei nella vita libera. Si deve essere pentiti, ma nel proprio animo e pagando le proprie colpe con umiltà». E ancora: «Un vero uomo deve affrontare le colpe del suo passato con dignità e coraggio. La conversione deve essere dentro al proprio animo e si deve soffrire anche per le tante colpe commesse da altri sulla mia pelle e sul mio animo. Il pentimento deve essere soltanto con Dio: giudice di tutti i giudici. Se non avessi creduto sempre e immensamente in Dio già sarei morto. Gesù in croce è la vera cattedra di vita». Questa posizione di Cutolo è simile a quella di molti capimafia.

E qual è la posizione di molti preti? Essa è molto simile a quella di Cutolo e dei capimafia: il pentimento davanti a Dio è più importante del pentimento davanti alla legge; e spesso i pentiti di legge sono considerati degli «infami» perché rovinano altre famiglie. Se un collaboratore di giustizia ha reso tantissimi contributi alla lotta alla mafia, permettendo di scoprire numerosi delitti impuniti, consentendo di arrestare e neutralizzare decine di assassini, evitando altri lutti e sofferenze, ma non si è contemporaneamente riconciliato con Dio, non si è pentito davanti a lui e alla sua Chiesa, allora la sua collaborazione con la giustizia non vale niente, anzi il suo può essere considerato addirittura un comportamento anticristiano. Se, invece, colui che ha commesso un crimine si è pentito e riconciliato con Dio, ma non ha rivelato nessun segreto, non ha permesso alla giustizia di fermare altri assassinii e di evitare altri lutti e dolori, non ha ricompensato le vittime dei suoi delitti, non ha restituito i capitali illecitamente accumulati, allora egli è la pecorella smarrita che torna all’ovile o il figliol prodigo che torna alla casa paterna e per il quale si ammazza l’agnello più grasso.

In questo modo di pensare e agire della Chiesa c’è il più stridente contrasto tra buon cristiano e pessimo cittadino. E purtroppo su questa posizione convergono non solo preti discutibili come don Frittitta, di cui parleremo in seguito, ma anche figure della Chiesa che sicuramente un impegno antimafia l’hanno dimostrato, come Monsignor Nogaro. Quest’ultimo, all’epoca vescovo di Caserta, scrive una prefazione a un libro su Cutolo in cui annuncia la conversione a Dio del boss di Ottaviano e chiede per lui comprensione da parte della giustizia italiana. Il punto non è se Cutolo si sia o no veramente pentito dei suoi delitti davanti a Dio, ma che non lo ha fatto davanti alla legge, e soprattutto che non ha fatto niente perché altri delitti fossero scoperti, altri lutti evitati, altri feroci assassini consegnati alla giustizia. Così come non è accettabile considerare quelli che non si pentono davanti alla giustizia e non collaborano con essa come degli esseri moralmente criticabili, non può essere al contrario considerato dalla Chiesa moralmente superiore solo chi si pente davanti a Dio e decide di non collaborare con la giustizia. C’è qualcosa di strano nel fatto che molti preti hanno grande considerazione per i dissociati e mostrano un aperto disprezzo per i collaboratori di giustizia.

Va ricordato che durante il periodo del terrorismo in Italia la Chiesa non assunse la stessa posizione sui dissociati, nel senso che non disse con nessuno dei suoi uomini che accusare altri terroristi per avere i benefici di legge fosse una posizione anticristiana. Invitò anzi al pentimento anche davanti alla legge. Forte fu l’impegno della Chiesa al fianco dei terroristi in carcere nel loro percorso di redenzione e di collaborazione con la giustizia. Invece diversa è stata la posizione nei confronti dei mafiosi collaboratori di giustizia. Mafiosi e terroristi sono, certo con motivazioni diverse, tutti assassini. Anche i terroristi pentiti hanno accusato altri e permesso allo Stato di scardinare le loro organizzazioni; non vuol dire forse che anch’essi si sono comportati da cristiani?

 

Pentimento senza riparazione

Nella dottrina cattolica, la violazione di alcuni comandamenti che hanno a che fare con la violenza sugli uomini e sulle cose (non rubare, non ammazzare) non rende necessario riparare con atti concreti l’ingiustizia commessa e il dolore procurato, così da annullare o attenuare (laddove possibile) gli effetti negativi dei propri misfatti. L’ingiustizia compiuta e il danno arrecato non implicano obblighi nei confronti delle vittime. È solo l’autorità religiosa che ha il potere di liberarci dal peso degli errori commessi. Lo strumento di questa traslazione di colpa è il sacramento della confessione e il sacerdote ne è il tramite.

La colpa, dunque, non è mai verso gli altri, verso la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi, ma è innanzitutto colpa verso Dio, peccato contro il Signore. La confessione serve a ripristinare il rapporto di fiducia con Dio che il peccato aveva compromesso. Dev’essere riparato il peccato verso il Signore, non verso le persone oggetto del torto. Colui che ha subito le conseguenze del peccato resta un estraneo, un non partecipe al rito della confessione e dell’espiazione.

Così concepita la confessione si trasforma in una deresponsabilizzazione etica che salta in blocco la dimensione pubblica e sociale del peccatore. Alla Chiesa è sufficiente il pentimento interiore, non quello rivolto all’oggetto del proprio atto peccaminoso o verso la collettività offesa. Insomma tutto si regge sul principio che bisogna riparare nei confronti della Chiesa (rappresentante in terra di Dio) ma non nei confronti della vittima. Questa si chiama «etica dell’intenzione», e si basa su questo assunto: se tu, peccatore, modifichi la tua interiorità che ti ha portato al peccato mediante il pentimento, ciò è sufficiente a farti rientrare tra coloro che possono riavere l’amore di Dio.

Il tragitto che si interpone nel mondo cattolico tra pentimento e perdono, tra colpa ed espiazione, è il più breve rispetto a qualsiasi altra religione. Sembra che la dottrina cattolica consideri più appagante il recupero di ogni singolo peccatore piuttosto che mettere in moto la reciprocità tra offeso e offensore. In questa ottica si considera secondario il giudizio terreno sulle colpe commesse e il sottoporsi all’autorità dello Stato. Non si fa nessuna distinzione tra peccati con conseguenze sociali e peccati senza conseguenze per gli altri. La Chiesa ha lasciato intendere con il suo messaggio che c’è un Dio con il quale si può negoziare in via privata la salvezza della propria anima senza dover passare per il recupero del danno arrecato socialmente e collettivamente sopportato. Un teologo l’ha definita «privatizzazione della salvezza». È a questa concezione che si rifanno i mafiosi, a questa idea del rapporto con Dio che si rapportano. Perciò, la dissociazione nella concezione dei mafiosi è quanto di più vicino ci sia alla teologia del perdono.

 

La vicenda di Padre Frittitta

C’è stata una vicenda emblematica dell’ambiguità del rapporto tra concezione del pentimento cattolico e collaborazione con la giustizia. Nel 1997 viene arrestato padre Frittitta, dopo la cattura del boss di Cosa nostra Aglieri. Non solo padre Frittitta è colui che ha celebrato la messa nel covo del capomafia, non solo lo ha confessato e comunicato mentre era latitante, ma ha anche dissuaso Aglieri dalla collaborazione con i magistrati. La sua posizione è «pentirsi e accusare altri non è da cristiani». «Pietro pensaci, riflettici prima di fare questo passo» è il consiglio che il frate dà al boss in una telefonata intercettata. L’incarico al frate di dissuadere il boss dal collaborare con la giustizia gli era stato affidato dai luogotenenti di Aglieri preoccupati di una sua possibile crisi mistica.

Il frate viene poi scarcerato, e nel provvedimento di scarcerazione il suo comportamento viene pesantemente criticato: «L’insegnamento di Cristo è inconciliabile coi fatti di mafia», scrivono i magistrati. Dopo la scarcerazione il frate è acclamato da tutto il quartiere, si affaccia al balcone della chiesa e saluta la folla numerosissima, e poi dall’altare dice: «Gesù è morto fra due ladroni, tutti noi siamo fratelli e ci dobbiamo amare. Nessuno deve essere escluso da questo amore».

Significativa a tal proposito l’intervista al padre provinciale dei carmelitani, padre Agostino Cappelletti, dopo l’arresto del suo confratello Frittitta: «Loro debbono arrestarli, noi dobbiamo convertirli. È stato il Papa ad invocare ad Agrigento “mafiosi convertitevi”. E tutti, anche i magistrati, ci chiedono “convertiteli”. Così noi ci incamminiamo per arrivare alla conversione, ma è un processo faticoso e lungo che può approdare alla confessione soltanto dopo incontri, consigli, contatti spirituali. Al procuratore Caselli [all’epoca capo della procura di Palermo] vorrei dire una cosa soprattutto: con la nostra antimafia avrete pentiti veri non falsi. Questo non significa criticare la sua antimafia, ma alla Chiesa bisogna lasciare la possibilità di praticare un metodo diverso. Loro li debbono arrestare, noi li dobbiamo convertire. Abbiamo meditato tutti insieme, da fratelli, per capire se il metodo antimafia assunto dalla magistratura sia cristianamente accettabile. E abbiamo concluso che cristianamente non è accettabile perché la chiesa non deve perseguire i reati per i reati, non deve estorcere confessioni per raccogliere favori, diminuzione di pena o altro. Deve annunciare Gesù Cristo e sentirsi libera di farlo anche esponendosi a persecuzioni, ma senza lasciarsi condizionare. Tutto ciò per tendere alla conversione dei peccatori. Quindi, primi fra tutti i mafiosi. La condanna della mafia rimane. Come la condanna del mafioso, ma non il rifiuto del mafioso. La chiesa non può, finché c’è richiesta di luce. Si sa, all’interno della Chiesa c’è una frangia molto legata alla politica, che mette in secondo ordine il valore evangelico della conversione. E la conversione ha esigenze diverse dal pentitismo. Per dichiararmi pentito, basta che io mi presenti, accusi qualcun altro e ottenga vantaggi, come gli sconti di pena, magari qualche villetta, mi dicono, protezione, soldi. Ecco la conversione è tutt’altra cosa. È una scelta piena ed interiore. A questa pensiamo noi, che siamo sacerdoti, non magistrati».

Meglio di così non si poteva riassumere un certo tipo di atteggiamento verso la mafia e i mafiosi. Traspare l’ostilità verso la magistratura, verso i pentiti di legge, e soprattutto i preti che vogliono recuperare a Dio i mafiosi si sentono, loro sì, dei martiri perseguitati dalla legge. Quando dei religiosi arrivano a sostenere che è un’infamia accusare altri, anche se questi altri hanno commesso spietati delitti che hanno privato numerosissime famiglie della vita di loro cari, allora ci si deve interrogare su dove sia il confine tra cultura mafiosa e cultura religiosa, perché queste che sembrano posizioni assurde sono assolutamente conciliabili con la dottrina cattolica.

Ma c’è un’altra chiesa che non la pensa allo stesso modo. Padre Fasullo intervistato da Luigi Offeddu così si esprime: «No, le conversioni dei boss spettano a Dio e nessuno può insultare i magistrati. A Palermo due chiese dai comportamenti diversi. Quello di padre Puglisi che considerava insanabile la frattura tra mafia e il Vangelo, e coloro che vanno a colloquiare con i mafiosi, sospinti dal desiderio di ritrovare ad ogni costo la pecorella smarrita».

In un’inchiesta pubblicata nel 2008, in appendice al libro di Alessandra Dino La mafia devota si può facilmente notare che sull’argomento il clero siciliano è diviso. Un questionario distribuito tra i sacerdoti di Palermo svela che sono ancora troppi i parroci indulgenti verso i boss mafiosi, in molti non avvertono Cosa Nostra come un pericolo vicino. Il 15% del campione ha piena consapevolezza della gravità del problema mafioso. Il 20% ne ha una conoscenza stereotipata, talvolta esprimendo critiche dirette soprattutto nei confronti della magistratura (in particolare sui pentiti), il 65% mostra ancora un’ambiguità nell’affrontare il tema mafia e la presenza mafiosa non viene vissuta come una questione di diretta competenza della Chiesa. Durissimo è il giudizio espresso sui collaboratori di giustizia da gran parte degli intervistati. Ed è significativo il parere di un sacerdote in materia: «Da un punto di vista umano i pentiti sono gente senza rispetto, sono esseri a Dio spiacenti, fanno ribrezzo. Il pentito vero è quello che si pente e rimane in carcere a scontare la pena. La legge, invece, premia il delatore, il collaboratore». Sembra di sentir parlare Raffaele Cutolo.

La risposta alla domanda sul perché degli assassini possano aver goduto continuativamente di una rapporto privilegiato con gli uomini di Chiesa, con le funzioni, i sacramenti e la dottrina, non va cercata solo nella vigliaccheria o nell’apatia dei preti siciliani e meridionali (dei don Abbondio moderni), né nella cautela della Chiesa di fronte a tematiche che riguardano la precipua responsabilità delle classi dirigenti, né tanto meno solo nella scelta dell’anticomunismo che nella storia recente ha caratterizzato il suo atteggiamento al punto di coprire qualsiasi altra ignominia pur di non favorire l’odiato pericolo comunista (il cardinale di Palermo Ruffini – 1947/1967 – ne è stato un campione fino a negare la presenza stessa della mafia). La mafia era inserita a pieno titolo nel fronte anticomunista, di cui la Chiesa era un avamposto, e dunque non era un nemico.

La risposta va invece cercata nella lunga sedimentazione degli insegnamenti della Chiesa sul costume, sulla mentalità, sul senso civico, sui valori privati e pubblici della società meridionale. La Chiesa non ha fatto da ostacolo alla mafia e ai mafiosi sia perché essa è stata parte fondamentale delle classi dirigenti meridionali, e ne ha condiviso tutti i limiti e le compromissioni in quanto coinvolta pienamente nella proprietà e nel controllo della terra (questione al centro, come è noto, dell’evoluzione della mafia siciliana), sia perché la sua teologia morale (severissimi con il peccato, indulgenti con il peccatore; combattere l’errore, cercare l’errante) ha permesso a degli assassini di sentirsi quasi dei privilegiati, essendo le pecorelle da recuperare e non avendo l’obbligo di legare la propria confessione dei delitti ad una espiazione sociale, pubblica, riparatrice dei danni provocati al singolo e alla società.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, va indagato come la lunga avversione alla formazione dello Stato nazionale si sia tradotta nell’Italia meridionale in una concezione privatistica della Chiesa e dei suoi precetti senza interrelazione con lo Stato e con la società, al punto da ritenere che una volta risolti i propri problemi di coscienza con Dio, con il sacerdote e con la Chiesa, non ci fosse nessun altro obbligo da soddisfare per potersi ritenere, anche se assassino, a pieno titolo membro della comunità religiosa. Per tutto il periodo post-unitario la Chiesa ha avuto un atteggiamento di pratico disinteresse per il buon funzionamento dello Stato italiano, per la moralità della politica, l’osservanza delle leggi, la formazione di un diffuso senso civico. In questo quadro di avversione e di contrapposizione allo Stato unitario la Chiesa ha ritenuto il problema della mafia non come un suo problema.

Inoltre, una serie di circostanze (la permanenza dei preti siciliani e meridionali nel paese di origine; l’abitare non nella canonica ma a casa dei propri familiari, non estranei dunque all’ascesa sociale della propria famiglia che veniva prima degli interessi della Chiesa; la garanzia di una vita agiata legata al possesso delle terre di proprietà della Chiesa; un maggior peso dato all’esteriorità rituale in virtù di una particolare presa della ‘religiosità barocca’) hanno fatto sì che il prete siciliano e meridionale fosse parte organica di quella borghesia che ha avuto un ruolo non secondario nel successo delle mafie. Nella religiosità cattolica del Meridione, l’estraneità ai doveri e agli obblighi verso lo Stato e la società ha fatto della confessione e del recupero del peccatore qualcosa di assolutamente originale, al punto, in alcuni casi, di identificare nel mafioso il cattolico perfetto. A tal proposito è illuminante questo giudizio espresso da Padre Ribaudo: «Mi augurerei che tanti dei miei parrocchiani avessero quella passione per Dio e per le cose di Dio e per il Vangelo che hanno tanti mafiosi».

La mafia, dunque, è un caso di insuccesso della Chiesa, almeno quanto lo è dello Stato e delle classi dirigenti siciliane e meridionali. La Chiesa non ha usato nessuna delle armi a sua disposizione (scomunica, interdizione dai sacramenti, predicazione, etc.) per emarginare i mafiosi, per prenderne le distanze, per separarli dalla comunità dei credenti. La teologia morale cattolica si è dimostrata impotente o addirittura convergente con gli interessi di assassini mafiosi quando al suo centro c’è il recupero del peccatore senza che ci sia nessun obbligo verso la società di espiare i propri peccati. Dice il pentito Leonardo Messina: «quando ero un assassino andavo in chiesa con animo tranquillo, oggi che sono un pentito no, non prego serenamente». Queste parole esprimono uno dei più grandi paradossi della società meridionale e siciliana, poiché i mafiosi sono dei criminali che si sono sentiti sempre in pace con Dio.

Com’è stato possibile, com’è potuto accadere che tanti uomini di Chiesa non abbiano avvertito la stridente contraddizione dell’essere mafiosi con le esigenze morali del Vangelo? Com’è stato possibile convivere pacificamente, intendersi e addirittura collaborare con questi uomini? La contrapposizione tra degli assassini e il Vangelo, tra mafia e cristianesimo, è assoluta, assai più netta che tra cristianesimo e marxismo, tra cristianesimo e più moderni costumi sessuali e sentimentali. Eppure solo queste ultime incompatibilità sono state sempre denunciate arrivando anche alla scomunica.

 

Una questione meridionale nella Chiesa?

Si può parlare di una diversità della chiesa meridionale rispetto alla chiesa centro-settentrionale? Esiste, cioè, una questione meridionale all’interno della chiesa italiana? E se sì, quali ne sono i termini?

È indubbio che la chiesa meridionale ha risentito dei caratteri che nell’insieme ha preso la società meridionale nel corso di una lunga trasformazione storica. Al punto che anche all’interno di un divenire condiviso della chiesa italiana, gerarchicamente centralistica e dal punto di vista della dottrina fortemente unitaria, si sono manifestate delle specificità frutto dell’intreccio tra i caratteri assunti dalle trasformazioni della società e dell’economia meridionali e il quadro unitario e nazionale entro cui si è mossa la dottrina e la pratica cattolica. Insomma, la forte gerarchizzazione e la impostazione necessariamente unitaria di una Chiesa addirittura universale (e, dunque, neanche solo nazionale) non ha impedito la sua meridionalizzazione, un’aderenza cioè ad alcuni tratti della specifica evoluzione del contesto in cui operava. E al tempo stesso, oltre che essere marcata indissolubilmente dal contesto storico-economico-sociale in cui operava, la Chiesa meridionale ha a sua volta influenzato decisamente i caratteri della trasformazione dell’ambiente, della società, dei valori, delle abitudini dei meridionali. Una dottrina e una prassi ‘universale’ che si sono plasmate sul contesto circostante e che a sua volta lo hanno condizionato e modificato.

Quindi parlare di Chiesa meridionale, non solo in un’accezione geografica, non è una forzatura, e va ricercata una «questione meridionale» all’interno della Chiesa cattolica italiana.

Non ci sono stati papi meridionali negli ultimi secoli (dal ‘500 in poi solo Paolo IV, Innocenzo XII, e Benedetto XIII), mentre la Chiesa settentrionale, in particolare quella del lombardo-veneto, sembra aver avuto un primato dottrinale che si è manifestato nel contributo massiccio di eletti al soglio di Pietro, e un numero foltissimo di vescovi catapultati nel Sud d’Italia in particolare dopo l’unificazione. Segno anche questo di una diversità profonda? E di che tipo? Nel Nord la contrapposizione frontale all’Italia unita e alla perdita del potere temporale si accompagnava ad una fortissima presenza dei cattolici e delle strutture della Chiesa nel formarsi economico-sociale della nazione. Ad una estraneità politica si contrapponeva un’attiva partecipazione al forgiarsi dei caratteri della nazione sia nelle sue attività industriali (Torino e Don Bosco) sia nel tessuto di solidarietà sociale che accompagnava la lenta trasformazione da società rurale ad agricola-industriale. Nasce l’oratorio, che affianca alla ‘passività’ delle funzioni e della preghiera un attivismo sociale sorprendente, nascono le casse mutue e le prime banche cooperative in competizione con l’analogo attivismo socialista. Non c’è niente di simile nel Sud. Gli oratori si consolidano solo nel secondo dopoguerra e le iniziative cooperative e sociali sono quasi inesistenti, se si esclude ciò che farà in Sicilia Luigi Sturzo. Anche i fermenti del ’68 hanno un impatto diverso tra Nord e Sud, non maturano le figure dei preti-operai né tanto meno l’esperienza delle comunità di base e del dissenso cattolico.

Nel Sud le Confraternite prevalgono sulle organizzazioni più attive nel campo sociale e la stessa Azione Cattolica stenta a radicarsi. Il culto dei santi prevale sull’insegnamento del catechismo. Anche i fermenti preconciliari e postconciliari hanno un andamento diverso nel Nord e nel Sud d’Italia. Don Zeno e don Milani non hanno analoghe figure per personalità e impegno nella Chiesa meridionale, che si identifica totalmente in Padre Pio, il quale è stato nel bene e nel male il contributo più significativo del Sud alla chiesa nazionale e universale. Si può descrivere questa differenza come un contrasto tra misticismo e attivismo, tra una religiosità passiva e religiosità dinamica, tra una Chiesa che scende nella società e un’altra che si preoccupa solo delle forme e dei riti? Qual è stato l’impatto della riforma tridentina con l’Italia meridionale e in particolare con quel territorio poi dominato dai Borbone?

Da sempre, più che altrove, la Chiesa meridionale è stata esposta ad una curvatura superstiziosa. L’impressione è che la controriforma trovi nel Regno di Napoli un suo terreno ideale, diventi un elemento costitutivo di una certa meridionalità che si afferma poi nel tempo. Religiosità barocca e Sud d’Italia via via si identificano. In questo quadro va affrontato il particolare culto dei santi, che, forse più di altre caratteristiche della controriforma, assumerà nel tempo i caratteri di una particolare congenialità con la religiosità meridionale. Il concilio di Trento e il dominio spagnolo diventano due elementi inscindibili per capire la religiosità di quel periodo.

Il culto dei santi è precedente la controriforma, ma con essa assume nel Sud un carattere distintivo e identitario che non ha precedenti. Alla fine del Medioevo il Sud non ha un così radicato culto dei santi né un numero così impressionante di persone che vengono beatificate. Pochi erano stati eletti santi nel periodo medievale (Celestino V, S. Tommaso d’Aquino) e pochi lo saranno nell’età moderna (non più di dieci). Invece, tra il 1540 e il 1750 l’Italia meridionale è per numero di santi la prima regione dell’occidente cattolico. Un fatto eccezionale, poiché nel Medioevo la santità aveva investito l’Italia comunale e la Francia del sud, e pochi erano i santi nati in quell’epoca nel Regno di Napoli.

I santi sono per lo più aristocratici, possidenti, mercanti, liberi professionisti. Anche la santità non è accessibile agli strati più poveri della popolazione, salvo qualche rara eccezione. E i miracolati dai santi sono per la maggior parte aristocratici o possidenti. Dunque, l’accesso alla santità è possibile solo a determinati strati sociali: la santità diventa classista. L’identificazione totale della Chiesa e della santità con le classi dominanti è fattore non secondario nel tempo nel plasmare i caratteri della religiosità meridionale. Il popolo si riconosce nel santo non perché lo trova simile al suo modo di vivere, ma al contrario proprio perché più lontano. Più è nobile il santo, più può proteggere; nella santità si trasferisce lo stesso modello di protezione che il popolo intravede nei nobili. Così la santità meridionale assume le caratteristiche di intermediazione e di protezione tipiche del rapporto tra ceti popolari e ceti nobiliari. Il santo è l’unica forma interclassista di accesso a una protezione. La Chiesa si modella sui vertici della società e sulle classi dominanti, e i suoi santi ne sono l’espressione. Il popolo non può aspirare a somigliare ai santi, non è in grado di mettere in atto i loro insegnamenti, non li vuole né può copiarli, imitarli, ma solo servirsene, usarli per i propri bisogni (protezione dalle malattie, dalla cattiva sorte, dalla morte e dalla fame). Dunque, la santità meridionale non stimola l’imitazione, l’esempio; il modello di santità (rinuncia ai piaceri della carne, alla vanità, meditazione perpetua, ore e ore di preghiere, fustigazione del corpo) è possibile solo a ceti che già hanno e che possono disporre del tempo dell’ozio e trasformarlo in preghiera. La santità non spinge ad azioni virtuose, impossibili ai ceti popolari, ma si condensa in una ritualità in grado di attivare la protezione. I santi non insegnano a fare del bene ai poveri, ad essere altruisti, generosi, ma ad essere devoti, umili e obbedienti. E la Chiesa incoraggia il culto delle reliquie, che darà vita ad una vera e propria caccia alle carni e alle vesti dei santi.

Se nella religione luterana riformata il fedele accede al sacro attraverso le Scritture e il relativo commento, per i cattolici sarà il culto delle reliquie, spesso congiunto a quello dell’immagine sacra, che farà partecipi della materialità del sacro i fedeli che il clero tiene lontano dalle Scritture. È questa la santità barocca meridionale. E l’anoressia, il digiuno, sono tra le forme più caratteristiche del suo manifestarsi; un modello non imitabile da chi invece tentava di fuggire dalla fame.

È questa attenzione ai riti e ai culti, più che alla sostanza dell’essere cristiano, che ha permesso a tanti (compresi i mafiosi) di ritenersi dei buoni cattolici limitandosi a parteciparvi. La religiosità dei mafiosi dimostra fino alle estreme conseguenze il carattere formale che ha assunto la fede cattolica in Italia e soprattutto nel mezzogiorno; svela l’uso di essa come fattore di legittimazione sociale più che come espressione di una sofferta interiorità. Una fede che serve a posizionarsi verso la società e gli altri piuttosto che ad obbligare a vivere in accordo con i suoi precetti.

La religiosità dei mafiosi conferma il fatto che anche l’uso della violenza come strategia di vita e di ascesa sociale può essere coperto tranquillamente dalla fede cattolica.

 

S. Alfonso e la confessione

Cosa c’entra S. Alfonso de’ Liguori con questa storia? S. Alfonso è il più grande innovatore della Confessione in epoca moderna e ha influenzato come nessun altro il rapporto confessore-penitente, segnando profondamente la concezione e la pratica di questo Sacramento, e dunque la storia stessa della Chiesa universale e di quella meridionale. Egli diede una particolare interpretazione della pietà e della morale cristiana, recependo in chiave cattolica il «secolo dei lumi» e le sue suggestioni. La sua più documentata biografia si intitola appunto Il santo del secolo dei lumi.

Sulla sua grandezza intellettuale e umana non ci sono giudizi differenti tra cattolici e non; egli ha avuto ammiratori anche nel mondo protestante e tra intellettuali atei o anticattolici; alcuni lo hanno considerato assieme a Gianbattista Vico come la figura intellettuale più forte del Settecento italiano; altri, addirittura, lo considerano con Voltaire una delle vette del Settecento europeo. Più complessa la valutazione sul piano prettamente dottrinale, teologico, pastorale: si va dalla esaltazione (un gigante, appunto) alla riprovazione, soprattutto tra i contemporanei suoi avversari. Per Harnack, teologo protestante, egli rappresenta per il cattolicesimo moderno ciò che fu S. Agostino per l’antico. Fu il vero contrappeso a Lutero, la sua concezione della morale rappresenta per alcuni la vera risposta identitaria del cattolico rispetto al protestante, o meglio colui che più di altri «ha fatto rifluire la marea del rigorismo» all’interno del cattolicesimo. Se i gesuiti con il loro lassismo, probabilismo e casistica morale rappresentano il compromesso cattolico con la propria coscienza, S. Alfonso rappresenta invece l’anima latina benigna e tollerante per i limiti e le debolezze umane contrapposta al puritanesimo arcigno e intransigente dell’area centro-europea, cattolica e protestante, da Pascal a Giansenio fino a Lutero e Calvino. Egli ha cercato una via di mezzo tra lassismo e rigorismo morale, e perciò fu considerato un rivoluzionario della morale, cercando un rapporto nuovo tra legge, norma e libertà e una dottrina più confortevole con i penitenti. Fu colui che trasformò peccati ritenuti mortali e non assolvibili in peccati veniali, si trattasse dello spergiuro, o della bestemmia, dell’adulterio o dell’omicidio. In questo senso va l’espressione riferita alla sua opera e alla sua persona: «il più santo dei napoletani, il più napoletano dei santi». Poiché per ‘napoletano’ si intende ‘meridionale’, è importante capire il suo ruolo e la sua funzione nell’ambito del sentire religioso meridionale che interessa la nostra ricerca: in che modo la sua concezione della Confessione ha condizionato il cosiddetto «perdonismo» cattolico?

«Severi e duri con il peccato, tolleranti e comprensivi con il peccatore»: sono tipiche espressioni alfonsiane, fatte proprie da ogni uomo di Chiesa. Sembra che tutte le giustificazioni e le motivazioni di un atteggiamento permissivo e lassista del sacramento della Confessione facciano riferimento al suo insegnamento. Ma è proprio così? S. Alfonso sarebbe l’ideologo o il moralista di riferimento di un padre Frittitta e di tutti coloro che ne hanno condiviso il comportamento nei confronti del boss mafioso Pietro Aglieri? È in nome della dottrina ‘benigna’ del santo napoletano che Frittitta si è recato nel covo di un latitante, confessandolo e comunicandolo periodicamente? È applicando la sua morale che un cardinale assolve Michael Corleone da tutti i suoi peccati senza altra contropartita, come Coppola ci fa vedere ne Il padrino?

Torniamo a S. Alfonso missionario. In genere per missione si suole intendere un’attività religiosa di conquista al Vangelo e di diffusione del credo cattolico tra popolazioni che ‘non conoscono il vero Dio’, cioè un’attività rivolta all’esterno di territori già cristianizzati, ad esempio verso le popolazioni indigene dopo la scoperta dell’America, o quelle asiatiche a seguito dell’apertura delle rotte commerciali, o verso l’Africa in epoca più recente. Ma nel Settecento, a Napoli soprattutto, si pose il problema delle condizioni ‘sotto-cristiane’ di molta parte del popolino della città e delle masse rurali che vivevano al di fuori dell’area urbana e al di là di Eboli. Questa ‘riscoperta’ della popolazione extraurbana (dal punto di vista delle condizioni religiose) andava di pari passo con una maggiore sensibilità che l’intellettualità della capitale cominciava a manifestare, nel secolo riformatore, verso le condizioni economico-sociali dei «regnicoli», cioè di coloro che non abitavano e non venivano a trafficare a Napoli. Il Galanti era andato in giro a descrivere i tratti economici, geografici e civili di un regno che si basava su di «una testa enorme» (Napoli, la capitale) e su un corpo gracilissimo (il resto del territorio). S. Alfonso seguì questa tendenza alla scoperta del non napoletano, del non conosciuto, dell’inedito, del mai-visto, dell’ignorato, cioè dell’uomo delle campagne e delle aree interne. Diventerà presto l’apostolo delle campagne abbandonate proprio perché prima non c’era stata nessuna figura religiosa di valore che evangelizzasse (o ri-evangelizzasse) villaggi e casolari della sterminata campagna a pochi chilometri da Napoli e di quella al di là del Sele e del Cilento. Non faccia meraviglia che un uomo del Settecento napoletano ignorasse completamente le condizioni di vita di chi non viveva in città; anche oggi la classe dirigente di Napoli conosce pochissimo (e le interessa pochissimo) tutto ciò che non rientra nel perimetro urbano. Ma per S. Alfonso «andare alle pecore perdute» non voleva dire preoccuparsi dei peccatori prima di ogni altro essere umano, ma interessarsi innanzitutto dell’attività e della vita religiosa di coloro che erano abbandonati alla povertà per condizioni economiche, per sfruttamento feudale, per incuria: appunto le popolazioni rurali del regno delle Due Sicilie. Fu, a suo modo, una scelta di classe, non nel senso economico-politico che a questo termine viene attribuito, ma religioso-sociale. La stessa scelta che un secolo prima aveva fatto in Francia S. Vincenzo Ferreri.

S. Alfonso scopre un altro mondo al di là di Napoli e oltre Eboli. Le mura della città sono un confine sociale prima che geografico. Come due secoli dopo Carlo Levi scoprirà un mondo totalmente diverso dalla città e dalla civiltà urbana nelle montagne lucane, così al de’ Liguori si svelerà su cosa era basata la «grandezza» della capitale: «Le terre migliori sono coperte dalle paludi… anche le città sono spopolate eccetto Napoli, la cui grandezza funesta è il frutto della miseria di un Regno intero». E la stessa cosa, fatte le dovute proporzioni, poteva essere detta di Palermo. «Dio è amore, e i santi vanno anche nell’inferno» esclamava Alfonso. E l’inferno era rappresentato dalle campagne e dalle montagne del regno.

S. Alfonso, trovandosi nell’impossibilità tipica della sua cultura di appartenenza di offrire alle masse rurali gli strumenti dell’emancipazione e dell’affrancamento economico e sociale, si avvicina con comprensione cristiana alla loro miseria umana e religiosa. E svolge da questo punto di vista un’azione di egualitarismo religioso, nel senso che mette le parole e gli uomini di Dio a disposizione anche di popolazioni che ne erano prima completamente e sprovviste. L’obiettivo della predicazione non è solo quello di confortare e consolare, non è quello di offrire una giustificazione alla propria condizione sociale, quanto piuttosto di ripristinare «pari condizioni» di salvezza anche a coloro che per lontananza da Napoli, per ignoranza e apatia del clero locale, non avrebbero potuto altrimenti incontrare la parola di Cristo e il suo messaggio salvifico. Nella città l’opportunità di incontrare la parola di Dio era più garantita, perciò S. Alfonso si fa missionario extraurbano.

È a questa intenzionalità alfonsiana che si deve legare strettamente la sua concezione morale, i suoi insegnamenti teologici, la sua particolare concezione della Confessione. Egli scrive la Theologia moralis e la Pratica dei confessori tenendo conto non solo della Bibbia, degli insegnamenti del Muratori e del Genovesi, ma anche delle condizioni materiali dei contadini del suo tempo. Non vuole mutare i rapporti sociali e feudali nelle campagne, vuole solo che le particolari condizioni dei contadini siano tenute nel giusto conto dal confessore.

Mettere a confronto Alfonso de’ Liguori con Voltaire è utile per capire il Settecento antireligioso e quello cattolico; metterlo a confronto con Lutero e Calvino è necessario per intendere compiutamente la matura risposta cattolica all’essenza spirituale del protestantesimo; confrontarlo con il gesuitismo o con Pascal e Giansenio è importante per comprendere la differenza tra lassismo, rigorismo morale e concezione benigna e ottimistica dell’uomo peccatore. S. Alfonso, amico ed estimatore di Vico, regge la sfida intellettuale e spirituale con questi grandi della storia del pensiero e della religione. Ma senza questo suo «voler andare verso le campagne», senza questa scelta antiurbana e nei fatti antiaristocratica e antiborghese, noi non capiremmo appieno la sua concezione morale, che è poi diventata nei secoli successivi la morale tout court della Chiesa cattolica universale. Non dimentichiamo che ancora nel Settecento esistevano disposizioni vescovili che invitavano a una maggiore comprensione dei peccati di alcune classi sociali, l’aristocrazia e l’alta borghesia, mentre si raccomandava maggiore severità verso i peccati del popolo; anzi i peccatori per antonomasia erano individuati tra coloro che per ceto e ignoranza non riuscivano a tenersi lontani dal peccato.

S. Alfonso, dunque, rompe con la morale precedente contrapponendosi sia (all’esterno) alla concezione luterana e calvinista, sia (all’interno) a quella gesuitica e giansenistica (la prima identificabile nel lassismo e permissivismo, la seconda nel rigorismo), ma lo fa tenendo ben presente l’obiettivo della sua missione: la cura e la guida, l’avvicinamento alla Chiesa (ai suoi precetti e al suo messaggio) di popolazioni rimaste estranee o ai margini della cristianità. La morale alfonsiana è comprensibile solo in questa dimensione, in questo particolare contesto storico in cui un napoletano (il più santo dei napoletani) si accorge della dimensione morale, oltre che sociale, delle campagne interne. Di quella realtà dove neanche l’utilizzo e l’accesso ai sacramenti era paritario. Il contadino non si confessava con serenità e con frequenza; anzi in alcune zone delle montagne non si confessava affatto. In una piccola comunità in cui tutti si conoscevano, il solo avvicinarsi al confessionale era segno di ‘peccato’ e di riconoscibilità del proprio stato di peccatore. E il peccato era bollato dai preti del posto come una condizione infernale già su questa terra. Nella durissima vita dei campi e della montagna la virtù cristiana, per come veniva predicata precedentemente, era un miraggio, un tendere verso qualcosa di impossibile, non alla portata di persone alle prese con la sopravvivenza quotidiana, che imponeva di non rispettare tutte le norme feudali per potersi almeno sfamare. I preti avevano come unico modo di far vivere la presenza divina quella del castigo, terribile per come veniva rappresentato ed evocato. E tra i peccati «ingiustificabili» c’erano quelli contro la proprietà e i privilegi feudali. Le fiamme dell’inferno non erano altro che il prolungamento di una vita terrena d’inferno. Come poteva essere attraente un messaggio cristiano così formulato?

Come abbiamo già detto, le popolazioni meridionali delle campagne si aggrappavano solo alla loro concezione della santità come difesa dalla natura, dalle malattie e dalla cattiva sorte. Nella loro concezione religiosa si rispecchiava fedelmente l’isolamento e l’atomismo semifeudale dei grossi borghi, dispersi per i latifondi del Mezzogiorno. Al santo il contadino non risparmiava gli onori e neanche gli insulti e le imprecazioni, quando falliva nel suo compito di protezione. Si facevano amico Dio attraverso il santo, per farsi amica la natura e il destino. È questa condizione che comprese profondamente S. Alfonso, il quale perciò elabora una teologia morale che consenta loro di avvicinarsi ai sacramenti senza paura di essere marchiati e senza timori delle fiamme dell’inferno. Li affranca dalla severità dei peccati, non potendo (e non essendo neanche lontanamente nel suo orizzonte culturale) affrancarli dal dominio feudale. Il compito principale del sacerdote non era più di allontanare i ‘rozzi’ dal confessionale spaventandoli con il pericolo del peccato mortale, ma di esaminare quale cognizione avessero del peccato stesso. «Iddio condanna solo chi pecca formalmente per malizia, o per ignoranza colpevole, ma non già chi opera con buona fede, e certezza morale del suo operare», scriveva S. Alfonso. Il santo napoletano umanizza il confessionale. Sposta la tolleranza del secolo dei lumi dalle classi alte e borghesi alle classi rurali, sposta la tolleranza dalle convinzioni politiche a quelle religiose, dalla libertà personale alla salvezza individuale, dalla società al confessionale. Anche i rozzi contadini possono salvarsi, mentre prima di lui questa ‘opportunità’ del messaggio evangelico sembrava restringersi solo alle classi dominanti o a quelle urbanizzate delle grandi città. Un Voltaire cattolico delle campagne.

S. Alfonso invitava ad andare incontro ai contadini, gli abbandonati dell’epoca, non certo ai mafiosi. Ma bisogna prendere atto che l’attitudine al perdono facile, l’assoluzione automatica per qualsivoglia peccato, la comprensione per le ragioni dei peccatori, trovano in lui, al di là delle intenzioni, un punto di riferimento che influenzerà tutta la Chiesa cattolica. Il facile perdono, infatti, unito al bassissimo senso dello Stato e delle sue leggi, ha prodotto nel Sud uno spaventoso cortocircuito, di cui è anche espressione la particolare religiosità dei mafiosi e l’accondiscendenza verso di essi.

 

La mancata scomunica

Nel 1989 alla vigilia della assemblea annuale della Cei, l’organismo di governo dei vescovi italiani, il cardinale di Napoli, Michele Giordano, annuncia in conferenza stampa che i vescovi stavano per decidere la scomunica di tutti coloro che fossero stati definiti mafiosi o camorristi da una sentenza di tribunale. Il messaggio era chiaro: Giordano aveva parlato di «sanzioni canoniche» da adottare nei confronti dei mafiosi, vietando loro sia i sacramenti che la partecipazione in qualità di padrini a cerimonie quali battesimi o cresime. Ma il cardinale Poletti nel discorso di chiusura della stessa assemblea corregge la posizione di Giordano: non ci sarà nessuna scomunica dei mafiosi in quanto questa sanzione è già prevista dal codice di diritto canonico. Che cosa era successo nel corso della discussione tra i vescovi italiani da causare una così clamorosa e pubblica marcia indietro da parte del segretario della Cei? Possibile che il cardinale Giordano si esponesse a una così magra figura prospettando decisioni in materia di mafie che già erano vigenti? Un principe della Chiesa, e per giunta di una delle città più coinvolte dalla criminalità di tipo mafioso, non ne era a conoscenza? È indubbio che nel corso dell’assemblea ci fu un duro scontro tra diversi settori dell’episcopato italiano. Ma come siano andate effettivamente le cose, quale sia stato il motivo precipuo del contendere, resta un mistero, uno dei tanti della storia della Chiesa.

Poletti dal palco parla in tono pacato, ma poi torna sulla questione con una certa perentorietà, fastidio e imbarazzo: «La scomunica della mafia non era all’ordine del giorno e non è stata trattata dall’assemblea della Cei. La questione è stata posta solo da alcuni vescovi del gruppo di studio sul Meridione. Ma tutto è finito lì. Non è prevista e non è prevedibile nessuna sanzione di questo tipo». Il cardinale Poletti esclude anche che il documento sul Meridione, che si stava elaborando proprio in quel periodo, potesse contenere qualche accenno alla condanna della mafia (infatti il documento che uscirà nell’autunno del 1989, una delle più significative analisi sui problemi del Sud scritte dalla Chiesa, non conterrà riferimenti alla questione della scomunica). Il segretario della Cei insiste: «La Chiesa nella sua legislazione generale, che è contenuta nel codice di diritto canonico, già prevede sanzioni che valgono per tutti gli stati di violenza. Quindi basta attenersi a queste. La condanna della violenza da parte della Chiesa è sempre chiara e inequivocabile. Ma non è compito della Chiesa varare provvedimenti particolari, anche perché le stesse autorità civili e giudiziarie sono perplesse quando devono individuare i responsabili di atti criminosi». Intanto, come si fa a sostenere che la questione della scomunica non era all’ordine del giorno se uno dei cardinali più importanti e rappresentativi della Chiesa italiana, quello di Napoli, ne aveva parlato in conferenza stampa prima dell’apertura dell’assemblea? E ammesso anche che formalmente la scomunica dei mafiosi non fosse all’ordine del giorno, era sicuramente in quel periodo, dopo infiniti silenzi, una problematica molto avvertita e discussa all’interno e all’esterno della Chiesa cattolica. Erano gli anni successivi all’omicidio di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici in Sicilia, delle guerre tra Nuova Camorra Organizzata di Cutolo e Nuova Famiglia di Alfieri in Campania, dei numerosissimi delitti di ‘ndrangheta dopo l’eliminazione del potente capoclan Paolo De Stefano, e dell’affacciarsi sulla scena criminale nazionale della Sacra corona unita. Nel 1989 le mafie erano una delle principali questioni della società italiana e una spina nel fianco della stessa comunità cattolica. «L’aspetto interessante di questa vicenda non era tanto nel ritardo con cui si era pensato a una misura così radicale, quanto nel fatto che essa fosse seriamente presa in considerazione». Ma la scomunica non ci fu allora, non c’era stata prima, non ci sarà dopo.

Cos’è la scomunica? Il termine scomunica appare per la prima volta in documenti ecclesiastici nel IV secolo. Nell’ambito del diritto canonico essa rappresenta la più grave delle pene che possa essere comminata a un battezzato: con quella decisione lo si esclude dalla comunione dei fedeli e lo si priva di tutti i diritti e i benefici derivanti dall’appartenenza alla Chiesa, in particolare quello di amministrare e ricevere i sacramenti. Oggi le scomuniche si definiscono latae sententiae se scaturiscono da un comportamento delittuoso in quanto tale, e non è necessario che vengano esplicitamente comminate da un ente ecclesiastico: chi compie un certo atto si trova ad essere scomunicato automaticamente. Si definiscono invece ferendae sententiae se non sono automatiche, ma devono essere inflitte da un organismo ecclesiale.

Prima della nascita degli stati di diritto, la scomunica aveva gravi effetti sullo scomunicato: nella pratica era una morte civile, lo scomunicato cioè perdeva qualsiasi diritto ed era alla mercé di chiunque avesse interesse a perseguirlo. Era dunque un’arma potentissima nelle mani della Chiesa.

Diverse scomuniche hanno segnato il corso della storia, e non solo di quella religiosa. Negli ultimi decenni sono stati scomunicati i divorziati, chi pratica l’aborto o lo favorisce, coloro che usano la pillola RU486 o spingono ad usarla, coloro che interrompono la vita con mezzi artificiali. È difficile, comunque, districarsi tra scomunica latae sententiae (automatica) e quella per la quale deve pronunciarsi direttamente il Vaticano. È del tutto evidente che quando una questione è centrale per la Chiesa, che ne vuole fare avvertire l’importanza per tutti i suoi membri, su di essa (e sulla relativa scomunica) si pronunciano direttamente il Vaticano e i suoi organi. Sui mafiosi non è stato finora così. Nonostante ripetute prese di posizione in documenti vari, nonostante il discorso coraggioso di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993, gli affiliati alla mafia e alle sue consorelle non sono stati oggetto di scomunica da parte della Santa Sede e dei suoi organi. Non è un fatto sorprendente?

Si potrebbe ritenere che la Chiesa non consideri più la scomunica un’arma adatta a far valere la sua autorità morale e dottrinale, dopo averla usata in tal senso per secoli e secoli. In un mondo contemporaneo profondamente cambiato potrebbe aver ritenuto anacronistico uno strumento appartenente al suo passato e, in ogni caso, non più efficace. Ma non è così, poiché l’arma della scomunica è stata usata fino ai nostri giorni. Dunque, la Chiesa non ha usato finora la scomunica contro le mafie sicuramente non per convinzione di scarsa efficacia dello strumento. D’altra parte la Chiesa sa che la scomunica non è tanto importante per il singolo che la riceve ma per il messaggio rivolto alla società. Se è vero che in altre epoche lo scomunicato veniva posto fuori dal consorzio sociale, in epoca contemporanea la scomunica è stata usata anche come ‘avvertimento’, in un senso cioè politico-sociale, oltre che religioso-dottrinale. È sicuramente questo il caso della scomunica ai comunisti per incidere sul comportamento politico in maniera preventiva e dissuasiva. Nel caso delle mafie il messaggio culturale e sociale della scomunica sarebbe stato ancora più decisivo e isolante, basandosi il potere di queste organizzazioni proprio sulle relazioni con l’insieme della società e con le istituzioni preposte a combatterle. La scomunica avrebbe intaccato quel prestigio sociale, religioso e istituzionale di cui vanno alla ricerca e di cui ampiamente usufruiscono i mafiosi. La Chiesa è troppo consapevole dell’impatto sociale e civile delle sue sentenze e decisioni per non aver preso in considerazione l’arma della scomunica anche contro le mafie, ma alla fine l’ha scartata. Perché?

Una risposta a questo interrogativo non è semplice. Le mafie, intanto, non sono nemici ideologici della Chiesa, nel senso che non propugnano l’ateismo e dunque non hanno finalità di sottrarre seguaci alla fede cattolica, come nel caso dei comunisti. Non propugnano posizioni eretiche, non si prefiggono scismi, rispettano l’obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche, non praticano una diversa e antitetica morale sessuale: dunque non rientrano nei casi fino ai giorni nostri oggetto degli anatemi e dei fulmini della Chiesa. I mafiosi sono ‘semplicemente’ assassini, cioè violano il sesto comandamento, ma la Chiesa nel corso della sua lunghissima storia ha avuto ‘normalmente’ a che fare con gli assassini e si è regolata senza ricorrere alla scomunica. Inoltre per più di un secolo non li ha mai neanche considerati assassini, ritenendo la ‘mafiosità’ un comportamento della sicilianità e di alcuni codici culturali tipicamente meridionali e non una forma delinquenziale. L’omicida è uno che toglie la vita ad un altro, e dunque viola un comandamento, come si possono violarne altri. Ma la scomunica non è uno strumento per i trasgressori dei 10 comandamenti. Non nel senso che trasgredirli non sia grave, o che l’omicidio non sia un peccato mortale (infatti non ti salvi se muori senza pentirtene), ma nel senso che esso è una delle più tipiche debolezze umane da Caino in poi: la Chiesa ha cercato di porvi freno, qualche volta lo ha ‘nobilitato’ se, ad esempio, finalizzato a sottrarre i luoghi santi dalle mani degli infedeli, più spesso ha provato a rendere con i suoi mezzi l’uomo meno lupo per altri uomini. Quindi l’assassinio non è mai stato un problema da affrontare con la scomunica, ma con i mezzi ordinari con cui nei secoli si è tentato di arginare la violenza dell’uomo sull’uomo. E poi l’omicidio è un ‘errore’ che rientra nel circuito colpa-pentimento-perdono sul quale si fonda l’essenza stessa della religione cattolica. Insomma il delitto di sangue non è considerato ‘eccezionale’ comportamento dell’uomo peccatore, non nel senso che non sia grave, ma solo nel senso che per affrontarlo non c’è bisogno di misure eccezionali. Certo il peccatore è considerato e valutato secondo l’entità della sua colpa, ma qualunque colpa abbia commesso è oggetto possibile del perdono divino tramite la Chiesa.

Torniamo alle parole di Poletti: «Non è compito della Chiesa varare provvedimenti particolari». Cioè: per contrastare le mafie non c’è necessità di misure eccezionali. Qui il riferimento non è tanto alla giurisprudenza o alle azioni di contrasto ‘militare’ dello Stato, quanto allo stretto campo di competenza della Chiesa: contro le mafie la Chiesa non deve mettere in atto azioni ‘particolari’ come ad esempio la scomunica. Quindi Poletti considera la scomunica un’arma particolare, pensa che non sia ancora necessaria e con queste affermazioni riconosce nei fatti che la scomunica non c’è ancora verso i mafiosi, smentendo le sue stesse parole («già esiste»). D’altra parte se la scomunica fosse stata già applicabile ipso facto ad ogni assassino, perché si è consentito a un capo della banda della Magliana, Enrico De Pedis detto Renatino, autore di efferati omicidi, di essere seppellito tra papi e cardinali nella chiesa di Sant’Apolinare a Roma?

È in questo clima altalenante di impegno e di cautela che va inscritta la storia della mancata scomunica alle mafie da parte del Vaticano, che ha riflettuto sicuramente le posizioni oscillanti all’interno delle Chiese meridionali e in particolare di quella siciliana. Imbarazzo che si è manifestato nella ricordata dichiarazione di Poletti e prosegue ogni volta si chiede a qualche esponente delle gerarchie ecclesiastiche il perché della decisione di non scomunicare le mafie. La risposta è sempre uguale: lo abbiamo già fatto. Ma anche chi risponde così sa di non dire la verità, come abbiamo dimostrato in questo capitolo. E allora, perché questo atteggiamento?

Sicuramente ha influito sulle gerarchie vaticane e sulle prelature meridionali anche la paura, il timore di una reazione violenta dei mafiosi. Erano bastate alcune omelie, alcune prese di posizione più coraggiose della Chiesa per esporla a una prima ritorsione, con i delitti di due preti nel giro di pochi mesi. Anche gli attentati a due chiese di Roma, quella di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano, venivano lette come risposta alla posizione del Papa ad Agrigento. In un ambiente abituato alla cautela e alla convivenza con forme criminali, la paura di azioni più clamorose avrà pure pesato. Un secondo elemento di cui tenere conto sta proprio nelle affermazioni di Poletti: «le stesse autorità civili e giudiziarie sono perplesse quando debbono valutare i responsabili di atti criminosi». Cosa voleva dire l’allora segretario della Cei? Certo è difficile individuare un mafioso quando non è condannato per questo reato, dunque una scomunica generale verso di essi potrebbe imbarazzare un prete nell’applicarla: la comunione si deve dare o no ad uno che tutti sanno essere mafioso ma non ha avuto condanne? Si deve consentire che facciano da padrini di battesimo? Un gesuita siciliano così aveva risposto a un giornalista: «Perché chiedere al prete di sostituirsi al magistrato e al carabiniere? Il mafioso che si presenta in chiesa con il figlioccio tra le braccia, quante assoluzioni avrà già collezionato, per insufficienza di prove per non aver commesso i fatti imputatigli? E lei vorrebbe che un povero parroco si atteggiasse a super-giudice, scacciasse quell’uomo che la legge ha assolto?». Il cardinale Giordano, per la verità, aveva proposto la scomunica per quelli già condannati, superando intelligentemente il problema. Dunque non era questa la difficoltà.

Essendo la mafia e le consorelle organizzazioni di massa, attorno a cui oltre agli aderenti orbita tutto un mondo di professionisti, di politici, di settori estesi delle classi popolari e dei colletti bianchi, la scomunica avrebbe potuto avere effetti non calcolabili nel rapporto della Chiesa con questi stessi strati sociali. Quando si scomunica un comunista, lo si individua facilmente perché egli non si nasconde; stessa cosa per un medico abortista o un divorziato. Nel caso di un mafioso, come comportarsi? Ci si può trovare nella condizione di privare dei sacramenti persone con le quali si vive a stretto contatto, o assidui frequentatori delle funzioni, cattolici ferventi. Si può, insomma, scomunicare una parte del proprio mondo? La Chiesa ha avuto enormi difficoltà a riconoscere il reato di associazione di tipo mafioso, perché esso non individua la colpa in un atto specifico ma nell’atteggiamento e nella forza derivante dal vincolo associativo, cioè rompe il rapporto individuale tra colpa e castigo, e rende potenziali mafiosi un numero esteso di persone non strettamente criminali. Insomma, se per le altre scomuniche comminate si trattava di persone o di mondi sociali e culturali già in qualche modo distaccatisi dalla Chiesa per ragioni politiche, scientifiche o altro, nel caso dell’eventuale scomunica alle mafie si andava a colpire un vasto mondo di credenti. Troppo per la Chiesa.

In conclusione, alla domanda relativa al perché non c’è stata la scomunica, la risposta non è univoca. Forse l’elemento di maggior freno sta nella concezione cattolica della recuperabilità del peccatore: mai lasciare niente di intentato alla possibilità del recupero. Ci sono state persone e problematiche contro le quali la Chiesa ha eretto l’irriducibile inconciliabilità della dottrina cattolica, anche a costo di perdere definitivamente un’anima a Dio: i mafiosi e le mafie non fanno parte di questa categoria. In fondo, se si sentono a loro modo cattolici, vuol dire che non sono del tutto persi al messaggio cristiano. Questo in sintesi il ragionamento della Chiesa. La scomunica del Vaticano avrebbe chiuso tutte le porte, e qualcuna andava lasciata aperta. In un periodo decisivo della lotta alle mafie, all’inizio degli anni ottanta, e poi dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, quando lo Stato italiano sembrava nelle condizioni di venire a capo di una questione plurisecolare grazie anche al risveglio di una parte della società meridionale prima sorda e silenziosa, la Chiesa non ha voluto offrire e mettere a disposizione di questa battaglia di civiltà la sua arma più potente: la scomunica vaticana. Ha ancora una volta scelto di ribadire l’immodificabilità della sua struttura teologica e dottrinale di fronte a un problema centrale per la civiltà del Mezzogiorno. Perché il peccato di mafia interroga pesantemente la teologia morale cattolica, ne mostra tutta l’inadeguatezza di fronte ai problemi della convivenza civile, e ne mette in discussione alcuni dei suoi più sicuri e incontrovertibili postulati. Nella convinzione della ricerca della salvezza per tutti, alla fine ha salvato se stessa. La Confindustria in Sicilia ha deciso di espellere tutti gli imprenditori aderenti che in qualche modo hanno avuto rapporti con i mafiosi, anche sotto forma di pagamento del pizzo. Un fatto la cui portata si inscrive tra quegli atti che sono in grado di modificare la storia civile e sociale di un territorio, proprio perché viene da un mondo che ha sempre legittimato e collaborato con i mafiosi. La Chiesa non ha voluto finora fare altrettanto. Non di sola lotta alle mafie può vivere la Chiesa, né può uniformare la sua dottrina e identità solo su questa questione, è ovvio; ma ci sono momenti storici nei quali una comunità civile, di cui la Chiesa è parte, si pone obiettivi prioritari per la sua stessa sopravvivenza e li può raggiungere solo se le agenzie formative del senso comune e della mentalità assolvono pienamente alla loro funzione. La Chiesa non lo ha fatto ancora, e non è stata completamente all’altezza della sua funzione.

 

Letteratura e preti

Concludiamo con questa domanda: perché in quasi tutta la letteratura meridionale non c’è una figura positiva di prete? Nel resto della letteratura italiana ci sono dei Fra’ Cristoforo accanto ai Don Abbondio, mentre nel sud solo Don Abbondio o anche preti mafiosi. Da Masuccio Salernitano al Basile, da Mastriani alla Serao, da Sciascia a Camilleri non c’è una figura di prete che possa eguagliare quelle presenti in alcuni autori centro-settentrionali, dal Manzoni al Fogazzaro (padre Giuseppe Flores), da Marino Moretti a Goffredo Parise. Anche in Camilleri l’uomo di Chiesa è il «parrino», ignorante, gaudente e mafioso, e in De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa il ruolo della Chiesa nelle vicende storiche pre e post-unitarie è segnato dalla compromissione con le classi dirigenti gattopardesche. Nella letteratura francese possiamo pensare a Bernanos e alle figure spirituali del ‘Parroco di campagna’ e dell’Abate Donissan. È come se la letteratura rispecchiasse pienamente la diversa funzione che nelle rispettive società hanno svolto i preti e la chiesa: una religiosità ‘passiva’ nel sud fatta di fustigazioni, preghiere e rinunce, di esteriorità, di apparenze, rispetto ad una religiosità ‘attiva’ in cui la salvezza è dettata anche da ciò che si fa nel mondo e non solo in chiesa, nella propria cella o nella propria stanza.

In questo quadro assume un ruolo centrale Leonardo Sciascia. Il tema dei preti è fondamentale nei suoi romanzi, al pari della mafia. La presenza di tanti religiosi e l’assenza di una religione civile sono le ossessioni di Sciascia. Due personaggi di prete prevalgono nella sue opere: il prete ignorante, spesso gaudente e privo di scrupoli, e quello colto, raffinato ma cinico, indifferente ai valori civici. Si può dire che in quasi nessun romanzo sia assente un prete o un uomo di chiesa. Perché tanti preti protagonisti nell’opera di un autore laico? Non ci sono in Italia scrittori cattolici che hanno reso così tanti preti corrotti protagonisti dei loro libri. E perché tanti preti modelli di falsificazione, di ignoranza, di turpitudine, di ambiguità? È il pregiudizio antireligioso che domina le sue ossessioni? È la religione modello di tutte le imposture, come una certa critica gli ha attribuito? Bella la frase di Sciascia a proposito del credere o non credere: «Si è credenti o atei sempre in maniera imperfetta». Certo, c’è anche qualche figura positiva di uomo di Chiesa, quale Monsignor Ficarra nel libro Dalle parti degli infedeli, ma per la maggior parte si tratta di cattivi preti che spesso ammazzano e vengono ammazzati (naturalmente nella finzione letteraria). Inquietante la figura di don Gaetano in Todo Modo che si lascia andare alla seguente affermazione: «Cos’è la Chiesa senza il male?». Ma se si prende per buono ciò che scrive uno dei suoi migliori interpreti, Gaspare Giudice, cioè la «tentazione cattolica» di Sciascia, allora il discorso cambia radicalmente: lo scrittore ha nostalgia e voglia di una Chiesa diversa, e la sua letteratura è come se gridasse: «Cosa sarebbe la Sicilia e l’Italia con una Chiesa non implicata con le classi dirigenti e con la mafia?». Egli segnala con la sua opera il ruolo centrale nella cultura e nella società siciliana della Chiesa («È da loro e tramite loro che traggono origine molti dei mali che ci affliggono») e al tempo stesso, nel descriverne le aberrazioni, avverte il bisogno di un’altra Chiesa.



Note al testo

1 Le candelore, dette anche cerei, sono delle opere in legno di diversa dimensione e altezza allestite da varie categorie di mestieri che ne curano l’addobbo e la sfilata.

2 Nel covo del boss Lo Piccolo nel 2007 sono state trovate le «dieci regole» per l’appartenenza alla mafia: 1) «Non ci si può presentare da soli a un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo»; 2) «Non si guardano mogli di amici nostri»; 3) «Non si fanno comparati (amicizia ndr) con gli sbirri»; 4) «Non si frequentano né taverne né circoli»; 5) «Si ha il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa nostra. Anche se c’è la moglie che sta per partorire»; 6) «Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti»; 7) «Si ci deve portare rispetto alla moglie»; 8) «Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità»; 9) «Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie»; 10) «Niente affiliazione per chi ha un parente stretto nelle varie forze dell'ordine, oppure chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, o chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali».

Bibliografia

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Chiesa e mafie

 

di Isaia Sales

 

 

 

Se si chiedesse a un campione di cittadini italiani se essere mafioso o camorrista o ‘ndranghetista sia compatibile con l’essere cristiano, se cioè la mafia la camorra la ‘ndrangheta siano conciliabili con la Chiesa, ciascuno degli intervistati risponderebbe con un no risoluto, meravigliandosi anche della domanda. Ma allo stesso modo, se si formulasse la medesima domanda a dei mafiosi camorristi e ‘ndranghetisti, anch’essi resterebbero meravigliati: per loro è ovvio rispondere di sì, che cioè non c’è nessuna contraddizione tra credere in Dio, nella Chiesa e al tempo stesso aderire ad una di queste organizzazioni criminali. Tanto è vero che non si conoscono mafiosi atei (escluso Matteo Messina Denaro) o anticlericali, non ci sono appartenenti alle mafie che non ostentino apertamente la loro fede. Nei loro covi si sono rinvenute numerose bibbie, immagini sacre, statue di santi, e in alcuni casi sono stati scoperti dei veri e propri altari su cui preti e frati andavano a dire messa e a porgere la comunione a dei ricercati per efferati delitti.

Essi si sentono naturalmente religiosi, credenti, devoti, anzi pensano di avere un rapporto del tutto particolare e speciale con Dio. Non li sfiora neanche lontanamente la percezione di assoluta incompatibilità tra l’essere dei feroci assassini e dei ferventi cattolici.

Oggi ci sembra assurdo che degli appartenenti ad associazioni criminali che hanno segnato la storia di quattro regioni meridionali e dell’Italia intera per più di un secolo e mezzo possano intrattenere un rapporto normale e sereno con la religione cattolica. Ma questo intenso rapporto è stato accettato tranquillamente dagli stessi esponenti della Chiesa locale e nazionale fino a pochissimi anni fa, e in molti luoghi di mafia continua ad esserlo.

La Chiesa italiana non ha mai prodotto un documento ufficiale, una presa di posizione contro le mafie fino agli anni ’70 del Novecento, cioè più di un secolo e mezzo dopo l’affermazione e il consolidamento di alcune delle organizzazioni delinquenziali più violente al mondo. La Chiesa non le ha mai combattute, non c’è stato mai un aperto contrasto fino ai tempi recenti. Un lunghissimo silenzio dei cattolici, del clero, delle gerarchie locali e nazionali, ha dominato incontrastato accompagnando l’evolversi di quei fenomeni criminali anche quando avevano assunto fama internazionale e la parola mafia era diventata il termine per antonomasia in tutto il globo per indicare la criminalità organizzata. Anzi, la storia della Chiesa in quei territori si svolgeva parallela a quell’espansione e più di una volta con essa si intrecciava, soprattutto in Sicilia.

Le cose sono cambiate nella seconda metà degli anni settanta del Novecento, ma lentamente e senza coinvolgere totalmente gli esponenti delle chiese locali, come vedremo in seguito. Il silenzio fu squarciato dalle omelie del cardinale Pappalardo nel 1982 in occasione di alcuni delitti eccellenti. Prima in Campania lo aveva fatto don Riboldi vescovo di Acerra, poi Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993. In seguito, gli omicidi di Padre Pino Puglisi a Palermo e di Padre Giuseppe Diana a Casal di Principe, gli attentati alla basiliche di S. Giovanni in Laterano e del Velabro a Roma, hanno spinto la Chiesa a più coraggiose prese di distanza dalle mafie, fino al documento della Conferenza Episcopale Italiana nel 2010. E questo atteggiamento nuovo (anche se minoritario) si è manifestato solo dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la fine della Dc, cioè dell’unità politica dei cattolici.

Come va interpretato questo plurisecolare silenzio della Chiesa? Ed è un silenzio superato completamente dalle posizioni di oggi? E le posizioni di oggi riguardano tutta la Chiesa o solo una minoranza? Di che natura è stato il silenzio: impaurito, complice, impotente o di comune appartenenza a valori e culture condivise, o tutte queste cose insieme? Ancora, la pastorale e la teologia morale della Chiesa si sono adeguate alla svolta degli ultimi anni? Per quale motivo, nonostante la svolta recente, Cosa nostra e le altre organizzazioni similari non sono state formalmente scomunicate, e si continuano a celebrare ancora oggi matrimoni, cresime e funerali di mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti? E perché alcuni preti vanno a dire messa nei covi di latitanza di pericolosi capimafia? Infine, è possibile il pentimento davanti a Dio senza che ciò abbia conseguenze sociali e civili verso le vittime? La concezione del perdono e del pentimento dominante nella Chiesa è compatibile con una lotta senza quartiere a questi fenomeni criminali?

Insomma, le domande sono tante e le potremmo racchiudere in una complessiva: oltre a un lunghissimo ed evidentissimo silenzio, non c’è stata anche una certa assonanza tra la cultura mafiosa e la cultura che la Chiesa ha diffuso soprattutto nell’Italia meridionale?

Bisogna prendere atto che una società profondamente plasmata dalla cultura cristiana ha partorito Cosa nostra, la Camorra, la ‘Ndrangheta e la Sacra corona unita. E le ha partorite non in contrapposizione alla Chiesa e alle sue istituzioni, ma in una formale e pubblica adesione ai suoi riti, alle sue credenze, al rispetto delle sue gerarchie e del suo ruolo nella società. Le mafie hanno trovato terreno fertile proprio laddove la presenza della Chiesa e dei cattolici è molto rilevante. In quattro ‘cattolicissime’ regioni meridionali si sono sviluppate alcune delle organizzazioni criminali più spietate e potenti al mondo, senza che – fino a pochi anni fa – ci fosse contrasto tra esse e le gerarchie cattoliche. Questa la verità storica incontestabile. È un fatto storico che le mafie hanno sempre rispettato la Chiesa e (purtroppo) la Chiesa ha sempre rispettato o non ostacolato i mafiosi.

Ma se degli assassini si sentono credenti in Cristo e nella sua Chiesa, «o c’è un problema nella loro testa bacata o c’è un problema nella Chiesa cattolica, o in tutti e due»: sono parole di Augusto Cavadi da condividere pienamente. Le mafie durano da quasi 200 anni. Se non sono state ancora sconfitte o ridimensionate vuol dire che i motivi del loro ‘successo’ non sono stati completamente individuati. Numerosissimi studi hanno interrogato la politica, le istituzioni, lo Stato, la cultura e la società meridionali. Chi ha cercato nel familismo amorale la causa di tutti i nostri mali (comprese le mafie), chi nell’assenza storica di senso civico. Ma se la spiegazione è di ordine culturalista, cioè attiene alla cosiddetta mentalità, perché mai non si interroga fino in fondo la cultura cattolica che ha svolto un ruolo fondamentale come principale agenzia formativa del senso comune dei meridionali?

Se degli assassini credono in Dio, se si sentono dei buoni cristiani, se non li sfiora minimamente la inconciliabilità tra il macchiarsi le mani di sangue e sentirsi parte della grande famiglia cattolica, ciò dovrebbe rappresentare la principale preoccupazione dei vescovi italiani. Limitarsi a dire che si tratta di una «forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione», come hanno fatto nel loro documento in materia del 2010, non è assolutamente sufficiente. Si continua a bollare la religiosità dei mafiosi come una forma evidente di superstizione. Ma se queste testimonianze di fede dei mafiosi vanno etichettate come superstizione, allora si dovrebbe dichiarare superstiziosa gran parte della popolazione cattolica. Essi non fanno altro che manifestare la loro religiosità nelle forme in cui normalmente si manifesta e si è manifestata nei secoli la fede cattolica nel Sud d’Italia. Il messaggio della Chiesa si è dimostrato capace di coesistere senza conflitti con l’appartenenza mafiosa.

È del tutto ovvio che le mafie non avrebbero potuto radicarsi così profondamente nella storia meridionale senza un’acquiescenza degli esponenti della Chiesa cattolica, che spesso hanno piegato la dottrina cristiana alle esigenze di dare buona coscienza a degli assassini. Insomma, il successo delle mafie italiane rappresenta anche un insuccesso della Chiesa cattolica. Perché si sono permessi i sacramenti a dei pii assassini, si sono svolti per loro solenni funerali, sono stati accettati come padrini di battesimo e cresima, sono stati scelti per presiedere i festeggiamenti dei santi patroni e portare le loro statue sulle spalle? È normale tutto ciò?

Certo, va indagata in profondità la psiche di questi assassini e la loro particolare idea di Dio, ma al tempo stesso andrebbe interrogata la storia della Chiesa meridionale (e la storia della società meridionale influenzata dall’insegnamento cattolico), perché c’è qualcosa che non va se si sono sviluppate, senza contrasto con la Chiesa, alcune delle associazioni criminali più feroci al mondo proprio laddove più forte è il legame delle popolazioni con la fede cattolica.

La domanda che molti studiosi della criminalità si pongono è questa: le mafie avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell’intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, dell’indifferenza, della sottovalutazione della Chiesa cattolica e della sua dottrina? La risposta è no. Senza di ciò le mafie non sarebbero arrivate a tenere in pugno il futuro di intere popolazioni. Si è trattato solo di paura, di vigliaccheria dei rappresentanti della Chiesa o di qualcosa di più profondo?

Le mafie, ripeto, vanno considerate anche come un insuccesso della Chiesa, un problema da cui questa non può sottrarre le proprie responsabilità. Cosa sarebbe il Sud d’Italia se la Chiesa fin dall’inizio avesse combattuto in tutti i suoi uomini, e con tutto il peso della sua dottrina e della sua predicazione, questi fenomeni antievangelici e anticristiani? Sarebbero stati già sconfitti, o ridimensionati? Sicuramente sì. Senza la cultura cattolica e senza la sua influenza sulle vicende storiche e sociali dell’Italia, e in particolare del Sud, sarebbe stato più difficile il radicamento e il condizionamento di massa da parte delle mafie.

Ci sono sicuramente spiegazioni funzionali sulla religiosità dei mafiosi. Per un criminale il problema principale è il controllo dei sensi di colpa. Ammazzare non è una cosa così semplice, non è una ‘normale’ attività umana. Il senso di colpa per le azioni delittuose può mettere in crisi anche il più spietato degli assassini. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, ricchezza e potere. I killer seriali sono tali proprio perché non sentono nessun senso di colpa. Stessa cosa per i mafiosi. Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la ratio delle azioni mafiose e criminali e che è pronto al perdono per tutto quel che di delittuoso si compie, è una incredibile comodità. La Chiesa cattolica ha dato buona coscienza a degli assassini: questo è il principale ‘regalo’ fatto dalla religione cattolica ai mafiosi. Anche chi non crede riconosce alle religioni (a tutte le religioni) un presidio morale contro il male. Tutte le religioni tentano, ciascuna a proprio modo, di contenere il male che si sprigiona dall’uomo. Ancora di più ciò viene riconosciuto alla religione di Cristo. Ma se degli assassini non provano neanche rimorso per quello che commettono, e di norma si fanno il segno della croce prima di ammazzare, vuol dire che la credenza religiosa si è trasformata in auto-assolvimento.

In secondo luogo, i mafiosi non vogliono essere avvertiti come delinquenti dalla società che li circonda, dalla comunità in cui operano. Come si fa a percepirli come delinquenti se la loro presenza è accettata in Chiesa, se ad essi sono riservate le cerimonie più fastose, se li si sceglie come organizzatori delle feste religiose, se si consente loro di portare sulle spalle i santi in processione, se sono tra i principali benefattori delle attività caritative? L’ossessione della Chiesa per i peccati legati alla sfera sessuale l’ha privata nel Sud del ruolo di guida nella lotta alle più agguerrite organizzazioni criminali che il nostro Paese ha prodotto nella storia. La scomunica è stata usata solo per i suoi avversari ideologici (massoni, socialisti, comunisti) e per coloro che non rispettano le sue prescrizioni in materia sessuale e matrimoniale. Un divorziato non può accedere ai sacramenti, ma un Provenzano, un Riina, un Cutolo o un Piromalli sì. Anzi, ad alcuni capimafia i sacramenti sono stati portati nel loro rifugi di ricercati. Non è venuto il momento di risolvere radicalmente questa storica contraddizione?

 

La religiosità dei mafiosi. L’aiuto ricevuto da uomini di Chiesa

 

Scrive lo storico Marino: «Le due autorità, le due istituzioni sociali, la chiesa e la mafia, si annusavano e si incensavano vicendevolmente. Non a caso in una medesima famiglia potevano convivere, senza conflitto, ecclesiastici e notabili mafiosi. La mafia, con la benedizione di preti, monsignori e cardinali, era dedita a salvaguardare tutte le tradizioni locali dai pericoli crescenti della modernizzazione». Numerosi sono innanzitutto i casi di presenze di preti, frati, suore in molte famiglie di tradizione mafiosa. La cosa riguarda molto di più la Sicilia, meno la Calabria, e raramente la Campania e la Puglia. In Sicilia avere un prete in famiglia voleva dire prestigio e possibilità sociali per i mafiosi. Preti e mafiosi vivevano nella stessa casa senza imbarazzi e senza casi di coscienza, come un fatto naturale. Il caso più clamoroso è quello di Calogero Vizzini, capo della mafia siciliana fino agli anni ’50 del Novecento, definito il «re Sole della mafia». Lo zio, Giuseppe Scarlata, divenne vescovo nel 1910, precedendo di qualche mese analoga nomina di un altro zio, Giuseppe Vizzini. I due fratelli, preti di don Calò, erano padre don Totò (Salvatore) e padre don Giuanninu (Giovanni), vivevano in casa con lui, non potevano non sapere delle sue attività e non ebbero mai niente da obiettare. In quella famiglia le preghiere si alternavano ai comandi criminali. Quando il fratello Calogero veniva arrestato, procuravano le prove per scagionarlo, tra queste numerose attestazioni di alti prelati sulle sue spiccate «virtù cristiane». Anche Albert Anastasia, il capo in America della cosiddetta Anonima Assassini, era legatissimo al fratello sacerdote. Joe Profaci aveva un fratello prete e due sorelle suore. Frank Coppola aveva un nipote prete, il famigerato don Agostino Coppola (che sposò in latitanza Totò Riina e Ninetta Bagarella) che era addirittura membro effettivo di Cosa nostra.

Gli episodi che raccontano poi della profonda religiosità dei mafiosi e dell’acquiescenza di uomini di Chiesa nei loro confronti sono sterminati. Di omelie a favore di mafiosi è ricca la storia della Chiesa meridionale. A S. Paolo Belsito, in Campania, un prete ha recentemente ricordato nella predica domenicale «i giovani che non hanno potuto riavere la libertà», tra cui il camorrista del posto Michele Russo. Lo stesso prete aveva stabilito che a portare sulle spalle un giglio (delle enormi macchine sceniche di cartapesta a forma di fallo), nella famosa festa che si celebra a Nola in onore di S. Paolino, sarebbe stato un altro camorrista, Vincenzo Giagnuolo («se uscirà dal carcere» aveva precisato in una intercettazione telefonica). Sta di fatto che la gran parte delle feste dei gigli che si svolgono in provincia e nella città di Napoli sono tutte dominate o fortemente influenzate da camorristi. Avviene a Barra, a Crispano, a Ponticelli. La cosa è così evidente da essere diventata oggetto di numerose inchieste della magistratura che spesso hanno evidenziato la compiacenza dei preti di quei quartieri e di quei comuni. La procura di Napoli, ad esempio, ritiene che da anni «dietro i comitati organizzatori della festa dei gigli a Barra ci sono boss di primo livello». Qualche anno fa durante la stessa festa comparvero questi manifestini: «Omaggio per la tradizionale festa dei gigli ai piccoli padrini Luigi e Gennaro Aprea», cioè i figli minorenni di Giovanni Aprea, il boss che anche dal carcere controllava il quartiere della periferia orientale della città partenopea. A settembre del 2011 il settimanale l’Espresso ha pubblicato un video sulla stessa festa di Barra in cui si vedono baciarsi in bocca il rappresentante del clan Cuccaro e del clan Adinolfi sotto la «paranza» e Antonio Cuccaro, padrino del giglio (colui che lo ha finanziato e realizzato) ha sfilato su un’auto di lusso, una Rolls Royce bianca, tra gli applausi del pubblico. Il parroco ha benedetto il giglio ed è stato chiesto un minuto di raccoglimento «per i morti nostri» (cioè per quelli ammazzati negli scontri tra i clan di camorra). L’anno prima dalla stessa «paranza» si era reso omaggio ad un altro boss, Arcangelo Abate, appartenente al clan degli «scissionisti» protagonista della lunga faida di Secondigliano.

Nel settembre 2010 a Polsi, una frazione del comune di S. Luca in Aspromonte, durante la tradizionale festa in onore della Madonna, il boss Domenico Oppesidano è stato nominato «capo della Provincia», cioè capo della ‘ndrangheta. La cerimonia svoltasi all’aperto sotto un’effige della Madonna è stata ripresa dalle forze dell’ordine. Per i calabresi devoti la festa della Madonna di Polsi nella prima domenica di settembre è la ricorrenza religiosa più importante dell’anno. Gli ‘ndranghetisti non sono mai mancati all’appuntamento e da più di un secolo eleggono durante la festa il loro capo annuale. La prima notizia storica di un summit ‘ndranghetista a Polsi risale addirittura al 1895.

Nel dicembre 2011, appena dopo l’arresto di Michele Zagaria, uno dei capi storici del clan dei Casalesi, il parroco di Casapesenna, don Luigi Menditto, ha definito il boss «un parrocchiano come gli altri al quale portare il Vangelo», facendo immaginare che fosse andato a trovarlo, e forse a confessarlo e comunicarlo, nel suo covo da latitante a 6 metri sotto terra nel suo paese natale. Un feroce assassino «parrocchiano come gli altri»? È in frasi come queste che si avverte la distanza abissale tra il sentire comune di un cittadino preoccupato dal pericolo mafioso e quello di un uomo di Chiesa.

Benedetto Santopaola è stato per decenni il capo della famiglia mafiosa di Catania, ha studiato nell’istituto salesiano di San Gregorio, ha frequentato l’oratorio di Santa Maria delle Salette, sognava di fare il sacerdote e poi è diventato un assassino. Quando viene arrestato ha con sé una Bibbia, e prima di essere portato in carcere chiede di baciarla. Nel covo di latitante nelle campagne di Caltagirone aveva fatto costruire un piccolo altare dove si celebrava messa.

A Castellammare di Stabia c’è stato l’episodio della processione in onore di S. Catello guidata dal vescovo e fermatasi davanti alla casa di un boss (come da tradizione) suscitando le giuste e sacrosante proteste del sindaco. In molti comuni della Calabria durante le festività di Pasqua si svolge la cosiddetta «affruntata». Vengono portate a spalla le statue di Cristo e della Madonna. Al momento dell’incontro, viene slacciato il nodo del manto nero della Madonna. Ma non tutti possono avere questo privilegio. Occorrono somme considerevoli e in molti posti questo privilegio è riservato solo agli ‘ndranghetisti. Negli anni scorsi a S. Giovanni a Teduccio la statua del santo è stata portata in spalle dagli uomini del clan Esposito-Gitano. Il santo aveva già subito l’onta di girare con la fascia nera al braccio perché due membri del clan erano stati uccisi nei giorni precedenti la processione.

Ma il caso più clamoroso riguarda la festa di S. Agata a Catania. Secondo le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, entrambi affiliati al clan Santapaola, nel corso degli anni ’90 la criminalità organizzata catanese avrebbe controllato la gestione di diverse «candelore»1 e perfino soste e percorsi della statua della Santa in processione. Ecco quanto si legge nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuffrida: «Il cereo dei pizzicagnoli era gestito dalle famiglia dei Ceusi e Cappello, alle quali il mio gruppo riuscì a sottrarla con la forza nel 1994-1995. Anche gli altri cerei venivano gestiti da clan mafiosi. Quello dei pescivendoli era gestito dal clan Savasta. Il cereo dei macellai, invece, era gestito dai Cappello che gestivano anche il cereo dei fruttivendoli». Secondo l’altro collaboratore, Di Raimondo, il cereo del circolo Sant’Agata avrebbe fatto tappa nel quartiere di Monte Po per 7 anni per rendergli omaggio. «Decisi di fare arrivare la candelora nel quartiere sia per acquisire maggiore prestigio quale “mafioso” sia per senso di devozione verso la Santa. Il quartiere era perfettamente a conoscenza che la candelora era a Monte Po per una mia iniziativa. La “venuta” della candelora nel quartiere, comportò una spesa di circa 30-40 milioni di lire. Con tale somma vennero pagati i portatori, l’illuminazione del quartiere e i fuochi di artificio». La cifra venne stornata dai proventi di una bisca clandestina di zecchinetta. Continua Di Raimondo: «A celebrazione della venuta della candelora nel quartiere, feci realizzare uno stendardo con l’indicazione del nome della mia famiglia, con la dicitura “Di Raimondo 1992-1993”, che all’epoca costò tre milioni di lire. Lo stendardo venne appeso alla candelora del circolo di sant’Agata e vi rimase mentre io ero detenuto. Poi, nel 1998, non venne più appeso perché io ero diventato collaboratore di giustizia». Ben diversa la versione di Giuffrida: i motivi che portano alla gestione della festa sarebbero prettamente economici: «L’interesse a gestire un cereo è di natura esclusivamente economica. Ogni settimana venivano raccolte piccole offerte, da duemila a cinquemila lire, da ciascun esercente, raccogliendo a fine anno anche 200 milioni di lire. Una parte veniva utilizzata per pagare i portatori, ai quali veniva anche fornita gratis della cocaina detraendo il costo dalla somma complessiva. Altra parte della somma veniva destinata al pagamento del fuochista. Circa 150 milioni venivano versati in un fondo cassa del gruppo utilizzato per il pagamento degli stipendi o per acquistare cocaina o armi».

Il ricovero dei latitanti nei conventi è poi una vecchia tradizione. Riferendosi al recente passato un magistrato ha ricordato che Carmine Alfieri, il boss di Piazzolla di Nola a capo della Nuova Famiglia contrapposta alla Nuova camorra organizzata di Cutolo, fu ospitato nella sua latitanza nel convento dei cappuccini di Nola. Stessa cosa avvenne con Salvatore Giuliano. L’arcivescovo di Monreale divenne uno dei riferimenti obbligati delle trame intessutesi tra mafia e banditismo (nella sua diocesi operava Salvatore Giuliano). Secondo Mario Ovazza, deputato per quattro volte all’assemblea regionale siciliana, egli sarebbe diventato, probabilmente con l’intermediazione del capomafia monrealese Miceli, il depositario dei personali risparmi del Giuliano (20 milioni, una grossa somma di denaro a quei tempi) che dopo la sua morte sarebbero andati a finire nelle tasche di qualche altro prelato a conoscenza della vicenda.

Il giudice Cantone, nel suo libro Solo per giustizia, ha raccontato di una visita di un prete suo conoscente per raccomandargli benevolenza verso un imputato in un processo importante, quello contro i Casalesi. La motivazione era che si trattava del marito di una donna molto fervente, abituale frequentatrice della chiesa e della parrocchia. Il prete conosceva personalmente l’uomo e lo riteneva una brava persona, ma il brav’uomo era nientemeno che il cognato di uno dei capi dei Casalesi.

Altri giudici hanno raccontato episodi analoghi. Nel 2003 nella chiesa di S. Maria delle Cinque Piaghe nei quartieri spagnoli venne rubata la statua di Gesù bambino, detto «Ninno d’oro». Del furto si occupò anche la malavita organizzata. Una suora ammise: «Ci hanno aiutato. Ricordo che ci è stato molto vicino un uomo che poi è stato ucciso. Ci disse che avrebbe fatto di tutto per trovare il piccolo Gesù. Noi abbiamo pregato per lui tutti i giorni». Nel gergo si chiama «cavallo di ritorno», contrario alla legge e al senso civico, ma per le suore era un atto di fede.

Quando è stato catturato Provenzano, il suo rifugio era pieno di immagini e statuette sacre, e portava al collo alcune crocette, di cui una di legno. C’erano 91 santini (di cui 73 di Cristo), una Bibbia e un libro di preghiere con l’effige della Madonna e la scritta «pregate, pregate, pregate», una Sacra famiglia dentro una campana e un rosario nel bagno. C’erano inoltre, alle pareti, solo quadri religiosi (Ultima cena, la Madonna delle lacrime di Siracusa, una Maria regina dei cuori e delle famiglie, e un calendario con l’effige di Padre Pio). Dominava una maniacale attenzione per i simboli della religione cattolica. I pizzini ritrovati contengono frasi appartenenti ad una subcultura profondamente intessuta di religione, con frasi tratte dalla Bibbia e dai Vangeli.

Tutti hanno una Bibbia e tutti pregano. In tasca hanno sempre un santino, in genere con l’immagine di Cristo o della Madonna. Sono religiosissimi e ostentano la loro devozione. E nelle carceri le loro celle sono piene di immagini sacre. Maranzano, il boss originario di Castellammare del Golfo, capo della mafia americana prima dell’avvento di Lucky Luciano, era anch’egli religiosissimo e consigliava a tutti di andare a messa la domenica. In un vertice di Cosa Nostra il locale era addobbato di tantissimi quadri di argomento religioso. Lucky Luciano diceva di lui che era «il più grande patito di croci al mondo».

E i fratelli Cuntrera di Siculiana (Gaspare, Paolo e Pasquale), trasferitisi in Venezuela e considerati «i più grandi commercianti di eroina del bacino del Mediterraneo», ottengono di portare in una chiesetta di Montreal la statua del Cristo Nero che si venera nella chiesa di Siculiana. Il 3 maggio di ogni anno a loro spese veniva spedita la statua dal loro paese di origine in Canada.

Di Giuseppe Genco Russo, capo della mafia dell’anteguerra, sappiamo che era sempre presente a messa e disponeva di una panca riservata nella chiesa madre di Mussomeli. Era anche «superiore» della confraternita del SS. Sacramento, per cui aveva il diritto di sfilare nelle processioni davanti al baldacchino. Ebbe per il suo passaggio alla Dc il sostegno del vescovo di Caltanissetta.

Santo Sorge, una delle menti del traffico internazionale tra Sicilia e Usa, discendente da una famiglia che annoverava oltre a due prefetti anche un monsignore, ricevette una raccomandazione dalla curia di Palermo nei suoi rapporti con l’Irfis, Istituto regionale di finanziamento per l’industria in Sicilia. Si incaricò di ricostruire la chiesa del suo paese natale, Mussomeli.

Tra il 1947 e il 1950 in quasi tutti i paesi della Sicilia occidentale sorsero comitati di beneficenza con il preciso compito di raccogliere somme tra gli immigrati per riparare campanili, sacrestie, cappelle di campagna, orfanatrofi tenute da suore. Don Cesare Manzella, ritornato dagli Stati Uniti nel 1947, prese a cuore l’orfanatrofio delle suore del sacro Cuore del Verbo Incarnato di Cinisi, con annessa chiesa. Jimmy Quaresano (pregiudicato, cognato di John Bonventre) venne più volte in Sicilia per portare le offerte per riparare la chiesetta della Madonna del Ponte. E a lui fu dedicata una lapide sulla facciata per ricordarne la generosità. Il boss Frank Coppola, detto tre dita, si dedicò alle orfanelle e alla chiesa di Partinico, e gli fu offerta per questa opera di beneficenza la tessera ad honorem della Fuci (federazione universitaria cattolica italiana).

Salvatore Zizzo, boss del traffico degli stupefacenti, partecipava a tutte le processioni di Salemi, con il particolare di portare il fucile in spalla. Angelo Bottaro, boss di Siracusa, si presentava ai processi con il crocefisso in mano. Fu ammazzato mentre recitava il rosario. Devoto era Luciano Liggio, il boss di Corleone. In carcere legge Le confessioni di Sant’Agostino. E devoto era quel Filippo Marchese, uno dei più spietati killer di Cosa Nostra, che prima di strangolare qualcuno si faceva il segno della croce.

In genere alcuni mafiosi pregano prima di un omicidio, e ringraziano Dio e i santi dopo averlo commesso. Cercano il consenso divino sulle loro malefatte e considerano un segno divino sfuggire ad un agguato. Gioacchino Pennino, medico e uomo d’onore, ha raccontato che suo zio, capomafia, aveva addirittura l’abitudine di andare a pregare sulle tombe di coloro che «avevano dovuto abbattere», e tutto ciò senza nessun rimorso. Un altro uomo d’onore della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, autore di decine di delitti, confidò al giudice Scarpinato che sin da ragazzo ogni sera, prima di addormentarsi, diceva le preghiere, e anche quando era diventato un killer la sera, rientrando a casa dopo un omicidio, pregava. È noto inoltre che un killer della mafia siciliana andava a confessarsi in una chiesa di Palermo prima di commettere un omicidio. Coloro che sapevano bene chi era, vedendolo al confessionale, il giorno dopo andavano a comprare il giornale per capire chi era stato ammazzato. Aveva inventato la ‘confessione preventiva’.

Un ultimo episodio clamoroso riguarda la prima visita di Giovanni Paolo II a Palermo nel 1982. L’autista della macchina papale era Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra. Com’è stato possibile affiancare al Papa un mafioso del calibro di Siino?

 

Cerimonie mafiose allusive alle pratiche religiose

 

In tutte e quattro le organizzazioni criminali di tipo mafioso le cerimonie di iniziazione fanno riferimento alla religione. Per entrare nella mafia siciliana si riceve il «battesimo»: il candidato deve bruciare nelle palme aperte delle mani un’immagine sacra della Madonna (in genere la Madonna dell’Annunziata). Le parole pronunciate sono le seguenti: «Come carta ti brucio, come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se un giorno tradirò Cosa nostra». Lo stesso rito con parole diverse viene seguito nel giuramento degli ‘ndranghetisti. Nella strage del 15 agosto 2007 a Duisburg, in Germania, nella quale sono state assassinate sei persone appartenenti alla ‘ndrina dei Nirta e degli Strangio, una delle vittime, il diciottenne Tommaso Venturi, aveva nelle tasche una immaginetta bruciacchiata dell’arcangelo Michele. La sera della mattanza era stato affiliato alla ‘ndrangheta con il rito tradizionale, che prevede, come in Cosa nostra, di tenere nelle mani un’immagine sacra a cui viene dato fuoco.

Cutolo, invece, dà vita ad un’altra ritualità, copiandola dai riti ottocenteschi della camorra: prima della cerimonia di iniziazione «battezza» il locale dove si svolge la riunione. Il camorrista, poi, giura «innanzi a Dio e ai compagni di essere fedele a tutte le leggi della società dell’umirtà e di sottostare a tutti gli ordini che mi vengono dai miei superiori». Nello statuto della «Guarduna», la confraternita esistente a Toledo in Spagna fin dal Quattrocento che molti studiosi ritengono essere il modello della camorra ottocentesca, si fa riferimento a numerose attività religiose da sostenere con i proventi dei crimini: dire messe, fare offerte alle anime del purgatorio. Qualcuno ha avvicinato le regole della camorra codificate nel 1842 nel cosiddetto «frieno» alle Constitutiones di S. Ignazio di Loyola. Si racconta che la prima riunione della «setta detta camorra» si sia svolta in una chiesa di Napoli nella prima metà dell’Ottocento. All’articolo 10 dello statuto è scritto: «I componenti delle paranze e delle chiorme, oltre Dio, i Santi e i loro capi, non conoscono altre autorità». Non a caso lo scrittore Luigi Compagnone ha definito ‘catechistico’ lo statuto della camorra.

L’ingresso in una di queste organizzazioni comportava e comporta l’iniziazione, la sottomissione ad una gerarchia e l’osservanza di certe regole ritualistiche. Lo stesso giuramento mafioso e le regole a cui debbono sottostare gli adepti di Cosa nostra somigliano ai dieci comandamenti2. Anche nel nome delle organizzazioni ci sono riferimenti alla religione: Sacra corona unita è quello della criminalità pugliese, la ‘Ndrangheta è anche chiamata «la Santa» e «santisti» gli ‘ndranghetisti. Il termine di santista viene usato anche da Cutolo riprendendolo dalla camorra ottocentesca. E «mammasantissima» è il nome con cui si fa riferimento ai boss mafiosi e camorristi. «Cupola» è detto il vertice della mafia siciliana. «Il Papa» è in genere il capo della cupola, e «Padrino» si è nella mafia e in alcune cerimonie della Chiesa cattolica (battesimo e cresima).

Nella storia meridionale ritornano spesso leggende in cui violenza e religione sono strettamente legate, anche se a fin di bene. Nell’immaginario della mafia, il ricorso a presunte origini religiose dell’organizzazione è abituale. Per Cosa nostra si fa riferimento alla leggenda dei Beati Paoli, una setta segreta di incappucciati operante tra il XVII e il XVIII secolo in Sicilia per riparare ai torti subiti dal popolo. La leggenda fu ripresa dallo scrittore Luigi Natoli in un romanzo d’appendice, uscito su Il Giornale di Sicilia tra il 1909 e il 1910, che ebbe uno straordinario successo. Gli antenati religiosi della camorra sono i membri della citata Guarduna. La compagnia della Guarduna viene descritta da Manuel de Cuendias, nel commento a un libro sui misteri dell’Inquisizione e sulle società segrete spagnole, come una specie di ordine militare monastico di grande potere nella vita politica spagnola, introdotta negli ambienti di corte e della Chiesa, con regole ferree legate all’obbedienza. Anche i membri di questa setta riparavano con la violenza a presunti torti subiti dalle classi popolari. Altri antenati religiosi dei camorristi sono «gli abati di mezza sottana» o «tabanelli», delinquenti che sotto una specie di abito da prete nascondevano numerose armi e imponevano «paci con violenza e matrimoni a forza». Le loro azioni consistevano, scrive Pietro Giannone, nel «percorrere di giorno, e più spesso di notte quanti vicoli c’erano, dal quartiere di San Lorenzo fino alla Vicaria, ora ricattando bottegai e artigiani, ora scassinando e depredando i fondaci de mercadanti di drappi e panni e ricorrendo all’incendio quando qualche porta opponesse resistenza troppo lunga, senza che la povera gente, spaurita, osasse protestare. Basti dire che si erano ridotti i mercadanti nelle loro strade a far da sentinella la notte per le finestre».

Anche in altre criminalità di tipo mafioso nel mondo si fa ricorso abitualmente ad una nobilitazione religiosa delle origini o si copiano i riti di iniziazione dalla propria religione. Nella mitologia delle Triadi cinesi, per ribadire che non si tratta di una organizzazione criminale, si parla di una mitica nascita nel XVII secolo tra i monaci buddisti del monastero di Fuzhou in lotta contro la dinastia ‘straniera’ di origine Manciù dei Qing, che aveva spodestato la secolare dinastia dei Ming. Si racconta che per sconfiggere la resistenza di questi monaci, inventori del kung-fu, l’imperatore Ding mandò un esercito che distrusse completamente i nemici. I cinque sopravvissuti diedero origine alla Lega Hong, o banda rossa o triade, dal nome del triangolo scelto a simboleggiare i tre fondatori dell’universo, cioè terra, cielo, uomo. Anche nella cerimonia di iniziazione c’è un riferimento religioso. Il nuovo adepto deve prostrarsi di fronte agli Dei del cielo e della terra e deve pronunciare ben 36 giuramenti solenni. Anche nella Yakuza giapponese c’è un rituale di iniziazione che si rifà a pratiche religiose: l’adepto deve bere il sakè sacro. In Messico, infine, si è sviluppato enormemente il culto di Jesus Malverde, un bandito di strada venerato come un santo nello stato di Sinaloa. Viene anche definito «il bandito generoso», «l’angelo dei poveri» e ultimamente «il Santo dei Narcos», perché la sua specializzazione starebbe nella protezione delle persone che si dedicano alla produzione e al traffico della droga. Proprio per questa ‘qualità’ il suo culto si è esteso anche alla città colombiana di Calì, altro centro mondiale del traffico di stupefacenti. La sua santità e il suo culto non sono tuttavia riconosciuti dalla Chiesa cattolica.

 

Preti e frati mafiosi

 

Del rapporto tra delinquenti e chiesa è ricca la storia meridionale e non solo. Pietro Ulloa, procuratore del re a Trapani, già nel 1838 parla di molti arcipreti aderenti a una «fratellanza» di tipo mafioso. Leopoldo Franchetti, nella sua inchiesta sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, pubblicata nel 1876, parlava apertamente di preti mafiosi. Secondo lo storico Marino tra il 1870 e il 1882 almeno 30 preti erano a capo di cosche mafiose. Nel 1900 nel rapporto del Questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, si fa riferimento alla provenienza sociale di 206 mafiosi: 8 di questi erano preti. Nel 1912 don Ciro Vittozzi, un prete vicedirettore del cimitero di Napoli, viene condannato dal tribunale di Viterbo come aderente alla camorra. Così di lui scrive il giornale socialista dell’epoca La Propaganda: «l’arresto di questo malvivente chiercuto non ci ha destato alcuna meraviglia. Doppia qualità di prete e camorrista. Prendeva la tangente sulle compravendite». Il prete di Africo in Calabria, Don Giovanni Stilo, era amico di ‘ndranghetisti e mafiosi siciliani e fu al centro del celebre libro-denuncia di Corrado Stajano, uscito nel 1979 e intitolato appunto Africo. Celebre la sua scuola privata dove si distribuivano facilmente diplomi a persone provenienti da tutt’Italia. Anche il prete mafioso don Agostino Coppola vi si diplomò, e Luciano Liggio vi alloggiò durante la latitanza.

In un altro libro, La terribile istoria dei frati di Mazzarino di Giorgio Frasca Polara, si parla di seguaci di S. Francesco condannati per rapporti con la mafia in un celebre processo che aveva scosso e diviso l’opinione pubblica italiana all’inizio degli anni ’60 del Novecento. Questo gruppo di frati cappuccini del convento di Mazzarino in Sicilia fu al centro di estorsioni, ricatti, minacce, ferimenti, omicidi. Non era certo la prima volta che succedevano fatti di sangue all’interno di un convento, ma era la prima volta che all’interno di un luogo religioso si organizzava una banda di estorsori in combutta con dei mafiosi.

Della terribile vicenda di Monsignor Peruzzo ci parla Andrea Camilleri nel libro Le pecore e il pastore. Giovan Battista Peruzzo era vescovo di Agrigento quando nel 1945 fu ferito in un attentato di mafia da parte dei monaci del convento di Santo Stefano di Quisquina, un eremo a 2000 metri di altezza dov’era andato a pregare. Un proiettile lo centrò al torace, altri tre gli spaccarono l’avambraccio. Il vescovo rimase tra la vita e la morte per diversi giorni. L’attentatore era un frate dello stesso eremo, già precedentemente condannato a sei anni di confino dalla Questura di Agrigento. Vent’anni prima era stato assassinato il padre superiore del convento con sessanta coltellate.

In Campania, prima di don Peppino Diana, è stato ammazzato nel 1985 un prete a Somma Vesuviana, insegnante nel liceo di Ottaviano. Si tratta di don Peppino Romano, legato a Raffaele Cutolo e alla sua devotissima sorella Rosetta. Il prete era stato arrestato nel 1983 perché con la sua auto portava in giro per l’Italia Rosetta Cutolo allora latitante.

Ma il titolo di prete mafioso per eccellenza spetta a don Agostino Coppola, parroco di Cinisi. colui che il 16 aprile 1974 nei giardini di Cinisi sposa Totò Riina (latitante) con Ninetta Bagarella. Insieme a lui c’erano altri due preti, don Mario e don Rosario. Don Coppola venne ‘combinato’ mafioso (entrò in Cosa nostra) a Ramacca nel 1969. È celebre l’esclamazione di Pippo Calderone rivolta al fratello Antonino: «Gesù Gesù, anche un parrino in Cosa Nostra». Don Agostino era legato a Luciano Liggio e nipote di un capo di Cosa nostra Frank Coppola. Amministrava i beni della diocesi di Monreale (la più chiacchierata di Sicilia) e faceva da mediatore nei sequestri di persona fatti dai Corleonesi (quello di Cassina, di Luigi Rossi di Montelera e dell’industriale Emilio Baroni). Fu arrestato nel 1974, e nella sua abitazione vennero trovati 5 milioni provenienti dal riscatto di un sequestro di persona. Il colonnello Russo, ucciso poi dalla mafia, era convinto che don Agostino avesse nascosto Luciano Liggio latitante a Piano Zucco, zona in gran parte controllata dal prete e dai suoi fratelli Giacomo e Domenico. Tra il 1971 e il 1973, periodo di permanenza di Liggio latitante nel palermitano, padre Agostino Coppola acquistò beni per 49 miliardi di lire.

 

Sulla dissociazione o sulla privatizzazione della salvezza

 

All’interno del nesso tra mafie e Chiesa, il rapporto tra il concetto di pentimento (così come si è consolidato nel senso comune meridionale influenzato dalla cultura cattolica) e la figura del collaboratore di giustizia registra uno dei punti più critici e complessi. Non è scopo di questo saggio affrontare il tema e il ruolo dei pentiti nello smantellare organizzazioni criminali che si fondano sul vincolo della segretezza. Il giudizio degli esperti, a partire dai magistrati impegnati in prima linea nel contrasto, è unanime al riguardo: senza l’apporto dei pentiti e senza le norme che ne hanno favorito la collaborazione con lo Stato, la lotta alle mafie sarebbe ancora in alto mare. Su questo aspetto la Chiesa italiana non è stata di grande aiuto.

In fondo, qual è il comportamento ideale di un mafioso? Convertirsi e pentirsi davanti a Dio senza che ciò abbia conseguenze per altri, senza dover accusare nessun altro. Ciò si chiama in gergo giudiziario «dissociazione», mentre in termini religiosi «conversione» o «ravvedimento». In questo caso si resta uomini d’onore e ci si mette in pace con Dio. È la posizione di Cutolo, di Aglieri, di Guttadauro, di Riina, di Provenzano. Dice Cutolo in proposito: «Se avessi fatto come Giuda accusando e calunniando le persone, già sarei nella vita libera. Si deve essere pentiti, ma nel proprio animo e pagando le proprie colpe con umiltà». E ancora: «Un vero uomo deve affrontare le colpe del suo passato con dignità e coraggio. La conversione deve essere dentro al proprio animo e si deve soffrire anche per le tante colpe commesse da altri sulla mia pelle e sul mio animo. Il pentimento deve essere soltanto con Dio: giudice di tutti i giudici. Se non avessi creduto sempre e immensamente in Dio già sarei morto. Gesù in croce è la vera cattedra di vita». Questa posizione di Cutolo è simile a quella di molti capimafia.

E qual è la posizione di molti preti? Essa è molto simile a quella di Cutolo e dei capimafia: il pentimento davanti a Dio è più importante del pentimento davanti alla legge; e spesso i pentiti di legge sono considerati degli «infami» perché rovinano altre famiglie. Se un collaboratore di giustizia ha reso tantissimi contributi alla lotta alla mafia, permettendo di scoprire numerosi delitti impuniti, consentendo di arrestare e neutralizzare decine di assassini, evitando altri lutti e sofferenze, ma non si è contemporaneamente riconciliato con Dio, non si è pentito davanti a lui e alla sua Chiesa, allora la sua collaborazione con la giustizia non vale niente, anzi il suo può essere considerato addirittura un comportamento anticristiano. Se, invece, colui che ha commesso un crimine si è pentito e riconciliato con Dio, ma non ha rivelato nessun segreto, non ha permesso alla giustizia di fermare altri assassinii e di evitare altri lutti e dolori, non ha ricompensato le vittime dei suoi delitti, non ha restituito i capitali illecitamente accumulati, allora egli è la pecorella smarrita che torna all’ovile o il figliol prodigo che torna alla casa paterna e per il quale si ammazza l’agnello più grasso.

In questo modo di pensare e agire della Chiesa c’è il più stridente contrasto tra buon cristiano e pessimo cittadino. E purtroppo su questa posizione convergono non solo preti discutibili come don Frittitta, di cui parleremo in seguito, ma anche figure della Chiesa che sicuramente un impegno antimafia l’hanno dimostrato, come Monsignor Nogaro. Quest’ultimo, all’epoca vescovo di Caserta, scrive una prefazione a un libro su Cutolo in cui annuncia la conversione a Dio del boss di Ottaviano e chiede per lui comprensione da parte della giustizia italiana. Il punto non è se Cutolo si sia o no veramente pentito dei suoi delitti davanti a Dio, ma che non lo ha fatto davanti alla legge, e soprattutto che non ha fatto niente perché altri delitti fossero scoperti, altri lutti evitati, altri feroci assassini consegnati alla giustizia. Così come non è accettabile considerare quelli che non si pentono davanti alla giustizia e non collaborano con essa come degli esseri moralmente criticabili, non può essere al contrario considerato dalla Chiesa moralmente superiore solo chi si pente davanti a Dio e decide di non collaborare con la giustizia. C’è qualcosa di strano nel fatto che molti preti hanno grande considerazione per i dissociati e mostrano un aperto disprezzo per i collaboratori di giustizia.

Va ricordato che durante il periodo del terrorismo in Italia la Chiesa non assunse la stessa posizione sui dissociati, nel senso che non disse con nessuno dei suoi uomini che accusare altri terroristi per avere i benefici di legge fosse una posizione anticristiana. Invitò anzi al pentimento anche davanti alla legge. Forte fu l’impegno della Chiesa al fianco dei terroristi in carcere nel loro percorso di redenzione e di collaborazione con la giustizia. Invece diversa è stata la posizione nei confronti dei mafiosi collaboratori di giustizia. Mafiosi e terroristi sono, certo con motivazioni diverse, tutti assassini. Anche i terroristi pentiti hanno accusato altri e permesso allo Stato di scardinare le loro organizzazioni; non vuol dire forse che anch’essi si sono comportati da cristiani?

 

Pentimento senza riparazione

 

Nella dottrina cattolica, la violazione di alcuni comandamenti che hanno a che fare con la violenza sugli uomini e sulle cose (non rubare, non ammazzare) non rende necessario riparare con atti concreti l’ingiustizia commessa e il dolore procurato, così da annullare o attenuare (laddove possibile) gli effetti negativi dei propri misfatti. L’ingiustizia compiuta e il danno arrecato non implicano obblighi nei confronti delle vittime. È solo l’autorità religiosa che ha il potere di liberarci dal peso degli errori commessi. Lo strumento di questa traslazione di colpa è il sacramento della confessione e il sacerdote ne è il tramite.

La colpa, dunque, non è mai verso gli altri, verso la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi, ma è innanzitutto colpa verso Dio, peccato contro il Signore. La confessione serve a ripristinare il rapporto di fiducia con Dio che il peccato aveva compromesso. Dev’essere riparato il peccato verso il Signore, non verso le persone oggetto del torto. Colui che ha subito le conseguenze del peccato resta un estraneo, un non partecipe al rito della confessione e dell’espiazione.

Così concepita la confessione si trasforma in una deresponsabilizzazione etica che salta in blocco la dimensione pubblica e sociale del peccatore. Alla Chiesa è sufficiente il pentimento interiore, non quello rivolto all’oggetto del proprio atto peccaminoso o verso la collettività offesa. Insomma tutto si regge sul principio che bisogna riparare nei confronti della Chiesa (rappresentante in terra di Dio) ma non nei confronti della vittima. Questa si chiama «etica dell’intenzione», e si basa su questo assunto: se tu, peccatore, modifichi la tua interiorità che ti ha portato al peccato mediante il pentimento, ciò è sufficiente a farti rientrare tra coloro che possono riavere l’amore di Dio.

Il tragitto che si interpone nel mondo cattolico tra pentimento e perdono, tra colpa ed espiazione, è il più breve rispetto a qualsiasi altra religione. Sembra che la dottrina cattolica consideri più appagante il recupero di ogni singolo peccatore piuttosto che mettere in moto la reciprocità tra offeso e offensore. In questa ottica si considera secondario il giudizio terreno sulle colpe commesse e il sottoporsi all’autorità dello Stato. Non si fa nessuna distinzione tra peccati con conseguenze sociali e peccati senza conseguenze per gli altri. La Chiesa ha lasciato intendere con il suo messaggio che c’è un Dio con il quale si può negoziare in via privata la salvezza della propria anima senza dover passare per il recupero del danno arrecato socialmente e collettivamente sopportato. Un teologo l’ha definita «privatizzazione della salvezza». È a questa concezione che si rifanno i mafiosi, a questa idea del rapporto con Dio che si rapportano. Perciò, la dissociazione nella concezione dei mafiosi è quanto di più vicino ci sia alla teologia del perdono.

 

La vicenda di Padre Frittitta

 

C’è stata una vicenda emblematica dell’ambiguità del rapporto tra concezione del pentimento cattolico e collaborazione con la giustizia. Nel 1997 viene arrestato padre Frittitta, dopo la cattura del boss di Cosa nostra Aglieri. Non solo padre Frittitta è colui che ha celebrato la messa nel covo del capomafia, non solo lo ha confessato e comunicato mentre era latitante, ma ha anche dissuaso Aglieri dalla collaborazione con i magistrati. La sua posizione è «pentirsi e accusare altri non è da cristiani». «Pietro pensaci, riflettici prima di fare questo passo» è il consiglio che il frate dà al boss in una telefonata intercettata. L’incarico al frate di dissuadere il boss dal collaborare con la giustizia gli era stato affidato dai luogotenenti di Aglieri preoccupati di una sua possibile crisi mistica.

Il frate viene poi scarcerato, e nel provvedimento di scarcerazione il suo comportamento viene pesantemente criticato: «L’insegnamento di Cristo è inconciliabile coi fatti di mafia», scrivono i magistrati. Dopo la scarcerazione il frate è acclamato da tutto il quartiere, si affaccia al balcone della chiesa e saluta la folla numerosissima, e poi dall’altare dice: «Gesù è morto fra due ladroni, tutti noi siamo fratelli e ci dobbiamo amare. Nessuno deve essere escluso da questo amore».

Significativa a tal proposito l’intervista al padre provinciale dei carmelitani, padre Agostino Cappelletti, dopo l’arresto del suo confratello Frittitta: «Loro debbono arrestarli, noi dobbiamo convertirli. È stato il Papa ad invocare ad Agrigento “mafiosi convertitevi”. E tutti, anche i magistrati, ci chiedono “convertiteli”. Così noi ci incamminiamo per arrivare alla conversione, ma è un processo faticoso e lungo che può approdare alla confessione soltanto dopo incontri, consigli, contatti spirituali. Al procuratore Caselli [all’epoca capo della procura di Palermo] vorrei dire una cosa soprattutto: con la nostra antimafia avrete pentiti veri non falsi. Questo non significa criticare la sua antimafia, ma alla Chiesa bisogna lasciare la possibilità di praticare un metodo diverso. Loro li debbono arrestare, noi li dobbiamo convertire. Abbiamo meditato tutti insieme, da fratelli, per capire se il metodo antimafia assunto dalla magistratura sia cristianamente accettabile. E abbiamo concluso che cristianamente non è accettabile perché la chiesa non deve perseguire i reati per i reati, non deve estorcere confessioni per raccogliere favori, diminuzione di pena o altro. Deve annunciare Gesù Cristo e sentirsi libera di farlo anche esponendosi a persecuzioni, ma senza lasciarsi condizionare. Tutto ciò per tendere alla conversione dei peccatori. Quindi, primi fra tutti i mafiosi. La condanna della mafia rimane. Come la condanna del mafioso, ma non il rifiuto del mafioso. La chiesa non può, finché c’è richiesta di luce. Si sa, all’interno della Chiesa c’è una frangia molto legata alla politica, che mette in secondo ordine il valore evangelico della conversione. E la conversione ha esigenze diverse dal pentitismo. Per dichiararmi pentito, basta che io mi presenti, accusi qualcun altro e ottenga vantaggi, come gli sconti di pena, magari qualche villetta, mi dicono, protezione, soldi. Ecco la conversione è tutt’altra cosa. È una scelta piena ed interiore. A questa pensiamo noi, che siamo sacerdoti, non magistrati».

Meglio di così non si poteva riassumere un certo tipo di atteggiamento verso la mafia e i mafiosi. Traspare l’ostilità verso la magistratura, verso i pentiti di legge, e soprattutto i preti che vogliono recuperare a Dio i mafiosi si sentono, loro sì, dei martiri perseguitati dalla legge. Quando dei religiosi arrivano a sostenere che è un’infamia accusare altri, anche se questi altri hanno commesso spietati delitti che hanno privato numerosissime famiglie della vita di loro cari, allora ci si deve interrogare su dove sia il confine tra cultura mafiosa e cultura religiosa, perché queste che sembrano posizioni assurde sono assolutamente conciliabili con la dottrina cattolica.

Ma c’è un’altra chiesa che non la pensa allo stesso modo. Padre Fasullo intervistato da Luigi Offeddu così si esprime: «No, le conversioni dei boss spettano a Dio e nessuno può insultare i magistrati. A Palermo due chiese dai comportamenti diversi. Quello di padre Puglisi che considerava insanabile la frattura tra mafia e il Vangelo, e coloro che vanno a colloquiare con i mafiosi, sospinti dal desiderio di ritrovare ad ogni costo la pecorella smarrita».

In un’inchiesta pubblicata nel 2008, in appendice al libro di Alessandra Dino La mafia devota si può facilmente notare che sull’argomento il clero siciliano è diviso. Un questionario distribuito tra i sacerdoti di Palermo svela che sono ancora troppi i parroci indulgenti verso i boss mafiosi, in molti non avvertono Cosa Nostra come un pericolo vicino. Il 15% del campione ha piena consapevolezza della gravità del problema mafioso. Il 20% ne ha una conoscenza stereotipata, talvolta esprimendo critiche dirette soprattutto nei confronti della magistratura (in particolare sui pentiti), il 65% mostra ancora un’ambiguità nell’affrontare il tema mafia e la presenza mafiosa non viene vissuta come una questione di diretta competenza della Chiesa. Durissimo è il giudizio espresso sui collaboratori di giustizia da gran parte degli intervistati. Ed è significativo il parere di un sacerdote in materia: «Da un punto di vista umano i pentiti sono gente senza rispetto, sono esseri a Dio spiacenti, fanno ribrezzo. Il pentito vero è quello che si pente e rimane in carcere a scontare la pena. La legge, invece, premia il delatore, il collaboratore». Sembra di sentir parlare Raffaele Cutolo.

La risposta alla domanda sul perché degli assassini possano aver goduto continuativamente di una rapporto privilegiato con gli uomini di Chiesa, con le funzioni, i sacramenti e la dottrina, non va cercata solo nella vigliaccheria o nell’apatia dei preti siciliani e meridionali (dei don Abbondio moderni), né nella cautela della Chiesa di fronte a tematiche che riguardano la precipua responsabilità delle classi dirigenti, né tanto meno solo nella scelta dell’anticomunismo che nella storia recente ha caratterizzato il suo atteggiamento al punto di coprire qualsiasi altra ignominia pur di non favorire l’odiato pericolo comunista (il cardinale di Palermo Ruffini – 1947/1967 – ne è stato un campione fino a negare la presenza stessa della mafia). La mafia era inserita a pieno titolo nel fronte anticomunista, di cui la Chiesa era un avamposto, e dunque non era un nemico.

La risposta va invece cercata nella lunga sedimentazione degli insegnamenti della Chiesa sul costume, sulla mentalità, sul senso civico, sui valori privati e pubblici della società meridionale. La Chiesa non ha fatto da ostacolo alla mafia e ai mafiosi sia perché essa è stata parte fondamentale delle classi dirigenti meridionali, e ne ha condiviso tutti i limiti e le compromissioni in quanto coinvolta pienamente nella proprietà e nel controllo della terra (questione al centro, come è noto, dell’evoluzione della mafia siciliana), sia perché la sua teologia morale (severissimi con il peccato, indulgenti con il peccatore; combattere l’errore, cercare l’errante) ha permesso a degli assassini di sentirsi quasi dei privilegiati, essendo le pecorelle da recuperare e non avendo l’obbligo di legare la propria confessione dei delitti ad una espiazione sociale, pubblica, riparatrice dei danni provocati al singolo e alla società.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, va indagato come la lunga avversione alla formazione dello Stato nazionale si sia tradotta nell’Italia meridionale in una concezione privatistica della Chiesa e dei suoi precetti senza interrelazione con lo Stato e con la società, al punto da ritenere che una volta risolti i propri problemi di coscienza con Dio, con il sacerdote e con la Chiesa, non ci fosse nessun altro obbligo da soddisfare per potersi ritenere, anche se assassino, a pieno titolo membro della comunità religiosa. Per tutto il periodo post-unitario la Chiesa ha avuto un atteggiamento di pratico disinteresse per il buon funzionamento dello Stato italiano, per la moralità della politica, l’osservanza delle leggi, la formazione di un diffuso senso civico. In questo quadro di avversione e di contrapposizione allo Stato unitario la Chiesa ha ritenuto il problema della mafia non come un suo problema.

Inoltre, una serie di circostanze (la permanenza dei preti siciliani e meridionali nel paese di origine; l’abitare non nella canonica ma a casa dei propri familiari, non estranei dunque all’ascesa sociale della propria famiglia che veniva prima degli interessi della Chiesa; la garanzia di una vita agiata legata al possesso delle terre di proprietà della Chiesa; un maggior peso dato all’esteriorità rituale in virtù di una particolare presa della ‘religiosità barocca’) hanno fatto sì che il prete siciliano e meridionale fosse parte organica di quella borghesia che ha avuto un ruolo non secondario nel successo delle mafie. Nella religiosità cattolica del Meridione, l’estraneità ai doveri e agli obblighi verso lo Stato e la società ha fatto della confessione e del recupero del peccatore qualcosa di assolutamente originale, al punto, in alcuni casi, di identificare nel mafioso il cattolico perfetto. A tal proposito è illuminante questo giudizio espresso da Padre Ribaudo: «Mi augurerei che tanti dei miei parrocchiani avessero quella passione per Dio e per le cose di Dio e per il Vangelo che hanno tanti mafiosi».

La mafia, dunque, è un caso di insuccesso della Chiesa, almeno quanto lo è dello Stato e delle classi dirigenti siciliane e meridionali. La Chiesa non ha usato nessuna delle armi a sua disposizione (scomunica, interdizione dai sacramenti, predicazione, etc.) per emarginare i mafiosi, per prenderne le distanze, per separarli dalla comunità dei credenti. La teologia morale cattolica si è dimostrata impotente o addirittura convergente con gli interessi di assassini mafiosi quando al suo centro c’è il recupero del peccatore senza che ci sia nessun obbligo verso la società di espiare i propri peccati. Dice il pentito Leonardo Messina: «quando ero un assassino andavo in chiesa con animo tranquillo, oggi che sono un pentito no, non prego serenamente». Queste parole esprimono uno dei più grandi paradossi della società meridionale e siciliana, poiché i mafiosi sono dei criminali che si sono sentiti sempre in pace con Dio.

Com’è stato possibile, com’è potuto accadere che tanti uomini di Chiesa non abbiano avvertito la stridente contraddizione dell’essere mafiosi con le esigenze morali del Vangelo? Com’è stato possibile convivere pacificamente, intendersi e addirittura collaborare con questi uomini? La contrapposizione tra degli assassini e il Vangelo, tra mafia e cristianesimo, è assoluta, assai più netta che tra cristianesimo e marxismo, tra cristianesimo e più moderni costumi sessuali e sentimentali. Eppure solo queste ultime incompatibilità sono state sempre denunciate arrivando anche alla scomunica.

 

Una questione meridionale nella Chiesa?

 

Si può parlare di una diversità della chiesa meridionale rispetto alla chiesa centro-settentrionale? Esiste, cioè, una questione meridionale all’interno della chiesa italiana? E se sì, quali ne sono i termini?

È indubbio che la chiesa meridionale ha risentito dei caratteri che nell’insieme ha preso la società meridionale nel corso di una lunga trasformazione storica. Al punto che anche all’interno di un divenire condiviso della chiesa italiana, gerarchicamente centralistica e dal punto di vista della dottrina fortemente unitaria, si sono manifestate delle specificità frutto dell’intreccio tra i caratteri assunti dalle trasformazioni della società e dell’economia meridionali e il quadro unitario e nazionale entro cui si è mossa la dottrina e la pratica cattolica. Insomma, la forte gerarchizzazione e la impostazione necessariamente unitaria di una Chiesa addirittura universale (e, dunque, neanche solo nazionale) non ha impedito la sua meridionalizzazione, un’aderenza cioè ad alcuni tratti della specifica evoluzione del contesto in cui operava. E al tempo stesso, oltre che essere marcata indissolubilmente dal contesto storico-economico-sociale in cui operava, la Chiesa meridionale ha a sua volta influenzato decisamente i caratteri della trasformazione dell’ambiente, della società, dei valori, delle abitudini dei meridionali. Una dottrina e una prassi ‘universale’ che si sono plasmate sul contesto circostante e che a sua volta lo hanno condizionato e modificato.

Quindi parlare di Chiesa meridionale, non solo in un’accezione geografica, non è una forzatura, e va ricercata una «questione meridionale» all’interno della Chiesa cattolica italiana.

Non ci sono stati papi meridionali negli ultimi secoli (dal ‘500 in poi solo Paolo IV, Innocenzo XII, e Benedetto XIII), mentre la Chiesa settentrionale, in particolare quella del lombardo-veneto, sembra aver avuto un primato dottrinale che si è manifestato nel contributo massiccio di eletti al soglio di Pietro, e un numero foltissimo di vescovi catapultati nel Sud d’Italia in particolare dopo l’unificazione. Segno anche questo di una diversità profonda? E di che tipo? Nel Nord la contrapposizione frontale all’Italia unita e alla perdita del potere temporale si accompagnava ad una fortissima presenza dei cattolici e delle strutture della Chiesa nel formarsi economico-sociale della nazione. Ad una estraneità politica si contrapponeva un’attiva partecipazione al forgiarsi dei caratteri della nazione sia nelle sue attività industriali (Torino e Don Bosco) sia nel tessuto di solidarietà sociale che accompagnava la lenta trasformazione da società rurale ad agricola-industriale. Nasce l’oratorio, che affianca alla ‘passività’ delle funzioni e della preghiera un attivismo sociale sorprendente, nascono le casse mutue e le prime banche cooperative in competizione con l’analogo attivismo socialista. Non c’è niente di simile nel Sud. Gli oratori si consolidano solo nel secondo dopoguerra e le iniziative cooperative e sociali sono quasi inesistenti, se si esclude ciò che farà in Sicilia Luigi Sturzo. Anche i fermenti del ’68 hanno un impatto diverso tra Nord e Sud, non maturano le figure dei preti-operai né tanto meno l’esperienza delle comunità di base e del dissenso cattolico.

Nel Sud le Confraternite prevalgono sulle organizzazioni più attive nel campo sociale e la stessa Azione Cattolica stenta a radicarsi. Il culto dei santi prevale sull’insegnamento del catechismo. Anche i fermenti preconciliari e postconciliari hanno un andamento diverso nel Nord e nel Sud d’Italia. Don Zeno e don Milani non hanno analoghe figure per personalità e impegno nella Chiesa meridionale, che si identifica totalmente in Padre Pio, il quale è stato nel bene e nel male il contributo più significativo del Sud alla chiesa nazionale e universale. Si può descrivere questa differenza come un contrasto tra misticismo e attivismo, tra una religiosità passiva e religiosità dinamica, tra una Chiesa che scende nella società e un’altra che si preoccupa solo delle forme e dei riti? Qual è stato l’impatto della riforma tridentina con l’Italia meridionale e in particolare con quel territorio poi dominato dai Borbone?

Da sempre, più che altrove, la Chiesa meridionale è stata esposta ad una curvatura superstiziosa. L’impressione è che la controriforma trovi nel Regno di Napoli un suo terreno ideale, diventi un elemento costitutivo di una certa meridionalità che si afferma poi nel tempo. Religiosità barocca e Sud d’Italia via via si identificano. In questo quadro va affrontato il particolare culto dei santi, che, forse più di altre caratteristiche della controriforma, assumerà nel tempo i caratteri di una particolare congenialità con la religiosità meridionale. Il concilio di Trento e il dominio spagnolo diventano due elementi inscindibili per capire la religiosità di quel periodo.

Il culto dei santi è precedente la controriforma, ma con essa assume nel Sud un carattere distintivo e identitario che non ha precedenti. Alla fine del Medioevo il Sud non ha un così radicato culto dei santi né un numero così impressionante di persone che vengono beatificate. Pochi erano stati eletti santi nel periodo medievale (Celestino V, S. Tommaso d’Aquino) e pochi lo saranno nell’età moderna (non più di dieci). Invece, tra il 1540 e il 1750 l’Italia meridionale è per numero di santi la prima regione dell’occidente cattolico. Un fatto eccezionale, poiché nel Medioevo la santità aveva investito l’Italia comunale e la Francia del sud, e pochi erano i santi nati in quell’epoca nel Regno di Napoli.

I santi sono per lo più aristocratici, possidenti, mercanti, liberi professionisti. Anche la santità non è accessibile agli strati più poveri della popolazione, salvo qualche rara eccezione. E i miracolati dai santi sono per la maggior parte aristocratici o possidenti. Dunque, l’accesso alla santità è possibile solo a determinati strati sociali: la santità diventa classista. L’identificazione totale della Chiesa e della santità con le classi dominanti è fattore non secondario nel tempo nel plasmare i caratteri della religiosità meridionale. Il popolo si riconosce nel santo non perché lo trova simile al suo modo di vivere, ma al contrario proprio perché più lontano. Più è nobile il santo, più può proteggere; nella santità si trasferisce lo stesso modello di protezione che il popolo intravede nei nobili. Così la santità meridionale assume le caratteristiche di intermediazione e di protezione tipiche del rapporto tra ceti popolari e ceti nobiliari. Il santo è l’unica forma interclassista di accesso a una protezione. La Chiesa si modella sui vertici della società e sulle classi dominanti, e i suoi santi ne sono l’espressione. Il popolo non può aspirare a somigliare ai santi, non è in grado di mettere in atto i loro insegnamenti, non li vuole né può copiarli, imitarli, ma solo servirsene, usarli per i propri bisogni (protezione dalle malattie, dalla cattiva sorte, dalla morte e dalla fame). Dunque, la santità meridionale non stimola l’imitazione, l’esempio; il modello di santità (rinuncia ai piaceri della carne, alla vanità, meditazione perpetua, ore e ore di preghiere, fustigazione del corpo) è possibile solo a ceti che già hanno e che possono disporre del tempo dell’ozio e trasformarlo in preghiera. La santità non spinge ad azioni virtuose, impossibili ai ceti popolari, ma si condensa in una ritualità in grado di attivare la protezione. I santi non insegnano a fare del bene ai poveri, ad essere altruisti, generosi, ma ad essere devoti, umili e obbedienti. E la Chiesa incoraggia il culto delle reliquie, che darà vita ad una vera e propria caccia alle carni e alle vesti dei santi.

Se nella religione luterana riformata il fedele accede al sacro attraverso le Scritture e il relativo commento, per i cattolici sarà il culto delle reliquie, spesso congiunto a quello dell’immagine sacra, che farà partecipi della materialità del sacro i fedeli che il clero tiene lontano dalle Scritture. È questa la santità barocca meridionale. E l’anoressia, il digiuno, sono tra le forme più caratteristiche del suo manifestarsi; un modello non imitabile da chi invece tentava di fuggire dalla fame.

È questa attenzione ai riti e ai culti, più che alla sostanza dell’essere cristiano, che ha permesso a tanti (compresi i mafiosi) di ritenersi dei buoni cattolici limitandosi a parteciparvi. La religiosità dei mafiosi dimostra fino alle estreme conseguenze il carattere formale che ha assunto la fede cattolica in Italia e soprattutto nel mezzogiorno; svela l’uso di essa come fattore di legittimazione sociale più che come espressione di una sofferta interiorità. Una fede che serve a posizionarsi verso la società e gli altri piuttosto che ad obbligare a vivere in accordo con i suoi precetti.

La religiosità dei mafiosi conferma il fatto che anche l’uso della violenza come strategia di vita e di ascesa sociale può essere coperto tranquillamente dalla fede cattolica.

 

S. Alfonso e la confessione

 

Cosa c’entra S. Alfonso de’ Liguori con questa storia? S. Alfonso è il più grande innovatore della Confessione in epoca moderna e ha influenzato come nessun altro il rapporto confessore-penitente, segnando profondamente la concezione e la pratica di questo Sacramento, e dunque la storia stessa della Chiesa universale e di quella meridionale. Egli diede una particolare interpretazione della pietà e della morale cristiana, recependo in chiave cattolica il «secolo dei lumi» e le sue suggestioni. La sua più documentata biografia si intitola appunto Il santo del secolo dei lumi.

Sulla sua grandezza intellettuale e umana non ci sono giudizi differenti tra cattolici e non; egli ha avuto ammiratori anche nel mondo protestante e tra intellettuali atei o anticattolici; alcuni lo hanno considerato assieme a Gianbattista Vico come la figura intellettuale più forte del Settecento italiano; altri, addirittura, lo considerano con Voltaire una delle vette del Settecento europeo. Più complessa la valutazione sul piano prettamente dottrinale, teologico, pastorale: si va dalla esaltazione (un gigante, appunto) alla riprovazione, soprattutto tra i contemporanei suoi avversari. Per Harnack, teologo protestante, egli rappresenta per il cattolicesimo moderno ciò che fu S. Agostino per l’antico. Fu il vero contrappeso a Lutero, la sua concezione della morale rappresenta per alcuni la vera risposta identitaria del cattolico rispetto al protestante, o meglio colui che più di altri «ha fatto rifluire la marea del rigorismo» all’interno del cattolicesimo. Se i gesuiti con il loro lassismo, probabilismo e casistica morale rappresentano il compromesso cattolico con la propria coscienza, S. Alfonso rappresenta invece l’anima latina benigna e tollerante per i limiti e le debolezze umane contrapposta al puritanesimo arcigno e intransigente dell’area centro-europea, cattolica e protestante, da Pascal a Giansenio fino a Lutero e Calvino. Egli ha cercato una via di mezzo tra lassismo e rigorismo morale, e perciò fu considerato un rivoluzionario della morale, cercando un rapporto nuovo tra legge, norma e libertà e una dottrina più confortevole con i penitenti. Fu colui che trasformò peccati ritenuti mortali e non assolvibili in peccati veniali, si trattasse dello spergiuro, o della bestemmia, dell’adulterio o dell’omicidio. In questo senso va l’espressione riferita alla sua opera e alla sua persona: «il più santo dei napoletani, il più napoletano dei santi». Poiché per ‘napoletano’ si intende ‘meridionale’, è importante capire il suo ruolo e la sua funzione nell’ambito del sentire religioso meridionale che interessa la nostra ricerca: in che modo la sua concezione della Confessione ha condizionato il cosiddetto «perdonismo» cattolico?

«Severi e duri con il peccato, tolleranti e comprensivi con il peccatore»: sono tipiche espressioni alfonsiane, fatte proprie da ogni uomo di Chiesa. Sembra che tutte le giustificazioni e le motivazioni di un atteggiamento permissivo e lassista del sacramento della Confessione facciano riferimento al suo insegnamento. Ma è proprio così? S. Alfonso sarebbe l’ideologo o il moralista di riferimento di un padre Frittitta e di tutti coloro che ne hanno condiviso il comportamento nei confronti del boss mafioso Pietro Aglieri? È in nome della dottrina ‘benigna’ del santo napoletano che Frittitta si è recato nel covo di un latitante, confessandolo e comunicandolo periodicamente? È applicando la sua morale che un cardinale assolve Michael Corleone da tutti i suoi peccati senza altra contropartita, come Coppola ci fa vedere ne Il padrino?

Torniamo a S. Alfonso missionario. In genere per missione si suole intendere un’attività religiosa di conquista al Vangelo e di diffusione del credo cattolico tra popolazioni che ‘non conoscono il vero Dio’, cioè un’attività rivolta all’esterno di territori già cristianizzati, ad esempio verso le popolazioni indigene dopo la scoperta dell’America, o quelle asiatiche a seguito dell’apertura delle rotte commerciali, o verso l’Africa in epoca più recente. Ma nel Settecento, a Napoli soprattutto, si pose il problema delle condizioni ‘sotto-cristiane’ di molta parte del popolino della città e delle masse rurali che vivevano al di fuori dell’area urbana e al di là di Eboli. Questa ‘riscoperta’ della popolazione extraurbana (dal punto di vista delle condizioni religiose) andava di pari passo con una maggiore sensibilità che l’intellettualità della capitale cominciava a manifestare, nel secolo riformatore, verso le condizioni economico-sociali dei «regnicoli», cioè di coloro che non abitavano e non venivano a trafficare a Napoli. Il Galanti era andato in giro a descrivere i tratti economici, geografici e civili di un regno che si basava su di «una testa enorme» (Napoli, la capitale) e su un corpo gracilissimo (il resto del territorio). S. Alfonso seguì questa tendenza alla scoperta del non napoletano, del non conosciuto, dell’inedito, del mai-visto, dell’ignorato, cioè dell’uomo delle campagne e delle aree interne. Diventerà presto l’apostolo delle campagne abbandonate proprio perché prima non c’era stata nessuna figura religiosa di valore che evangelizzasse (o ri-evangelizzasse) villaggi e casolari della sterminata campagna a pochi chilometri da Napoli e di quella al di là del Sele e del Cilento. Non faccia meraviglia che un uomo del Settecento napoletano ignorasse completamente le condizioni di vita di chi non viveva in città; anche oggi la classe dirigente di Napoli conosce pochissimo (e le interessa pochissimo) tutto ciò che non rientra nel perimetro urbano. Ma per S. Alfonso «andare alle pecore perdute» non voleva dire preoccuparsi dei peccatori prima di ogni altro essere umano, ma interessarsi innanzitutto dell’attività e della vita religiosa di coloro che erano abbandonati alla povertà per condizioni economiche, per sfruttamento feudale, per incuria: appunto le popolazioni rurali del regno delle Due Sicilie. Fu, a suo modo, una scelta di classe, non nel senso economico-politico che a questo termine viene attribuito, ma religioso-sociale. La stessa scelta che un secolo prima aveva fatto in Francia S. Vincenzo Ferreri.

S. Alfonso scopre un altro mondo al di là di Napoli e oltre Eboli. Le mura della città sono un confine sociale prima che geografico. Come due secoli dopo Carlo Levi scoprirà un mondo totalmente diverso dalla città e dalla civiltà urbana nelle montagne lucane, così al de’ Liguori si svelerà su cosa era basata la «grandezza» della capitale: «Le terre migliori sono coperte dalle paludi… anche le città sono spopolate eccetto Napoli, la cui grandezza funesta è il frutto della miseria di un Regno intero». E la stessa cosa, fatte le dovute proporzioni, poteva essere detta di Palermo. «Dio è amore, e i santi vanno anche nell’inferno» esclamava Alfonso. E l’inferno era rappresentato dalle campagne e dalle montagne del regno.

S. Alfonso, trovandosi nell’impossibilità tipica della sua cultura di appartenenza di offrire alle masse rurali gli strumenti dell’emancipazione e dell’affrancamento economico e sociale, si avvicina con comprensione cristiana alla loro miseria umana e religiosa. E svolge da questo punto di vista un’azione di egualitarismo religioso, nel senso che mette le parole e gli uomini di Dio a disposizione anche di popolazioni che ne erano prima completamente e sprovviste. L’obiettivo della predicazione non è solo quello di confortare e consolare, non è quello di offrire una giustificazione alla propria condizione sociale, quanto piuttosto di ripristinare «pari condizioni» di salvezza anche a coloro che per lontananza da Napoli, per ignoranza e apatia del clero locale, non avrebbero potuto altrimenti incontrare la parola di Cristo e il suo messaggio salvifico. Nella città l’opportunità di incontrare la parola di Dio era più garantita, perciò S. Alfonso si fa missionario extraurbano.

È a questa intenzionalità alfonsiana che si deve legare strettamente la sua concezione morale, i suoi insegnamenti teologici, la sua particolare concezione della Confessione. Egli scrive la Theologia moralis e la Pratica dei confessori tenendo conto non solo della Bibbia, degli insegnamenti del Muratori e del Genovesi, ma anche delle condizioni materiali dei contadini del suo tempo. Non vuole mutare i rapporti sociali e feudali nelle campagne, vuole solo che le particolari condizioni dei contadini siano tenute nel giusto conto dal confessore.

Mettere a confronto Alfonso de’ Liguori con Voltaire è utile per capire il Settecento antireligioso e quello cattolico; metterlo a confronto con Lutero e Calvino è necessario per intendere compiutamente la matura risposta cattolica all’essenza spirituale del protestantesimo; confrontarlo con il gesuitismo o con Pascal e Giansenio è importante per comprendere la differenza tra lassismo, rigorismo morale e concezione benigna e ottimistica dell’uomo peccatore. S. Alfonso, amico ed estimatore di Vico, regge la sfida intellettuale e spirituale con questi grandi della storia del pensiero e della religione. Ma senza questo suo «voler andare verso le campagne», senza questa scelta antiurbana e nei fatti antiaristocratica e antiborghese, noi non capiremmo appieno la sua concezione morale, che è poi diventata nei secoli successivi la morale tout court della Chiesa cattolica universale. Non dimentichiamo che ancora nel Settecento esistevano disposizioni vescovili che invitavano a una maggiore comprensione dei peccati di alcune classi sociali, l’aristocrazia e l’alta borghesia, mentre si raccomandava maggiore severità verso i peccati del popolo; anzi i peccatori per antonomasia erano individuati tra coloro che per ceto e ignoranza non riuscivano a tenersi lontani dal peccato.

S. Alfonso, dunque, rompe con la morale precedente contrapponendosi sia (all’esterno) alla concezione luterana e calvinista, sia (all’interno) a quella gesuitica e giansenistica (la prima identificabile nel lassismo e permissivismo, la seconda nel rigorismo), ma lo fa tenendo ben presente l’obiettivo della sua missione: la cura e la guida, l’avvicinamento alla Chiesa (ai suoi precetti e al suo messaggio) di popolazioni rimaste estranee o ai margini della cristianità. La morale alfonsiana è comprensibile solo in questa dimensione, in questo particolare contesto storico in cui un napoletano (il più santo dei napoletani) si accorge della dimensione morale, oltre che sociale, delle campagne interne. Di quella realtà dove neanche l’utilizzo e l’accesso ai sacramenti era paritario. Il contadino non si confessava con serenità e con frequenza; anzi in alcune zone delle montagne non si confessava affatto. In una piccola comunità in cui tutti si conoscevano, il solo avvicinarsi al confessionale era segno di ‘peccato’ e di riconoscibilità del proprio stato di peccatore. E il peccato era bollato dai preti del posto come una condizione infernale già su questa terra. Nella durissima vita dei campi e della montagna la virtù cristiana, per come veniva predicata precedentemente, era un miraggio, un tendere verso qualcosa di impossibile, non alla portata di persone alle prese con la sopravvivenza quotidiana, che imponeva di non rispettare tutte le norme feudali per potersi almeno sfamare. I preti avevano come unico modo di far vivere la presenza divina quella del castigo, terribile per come veniva rappresentato ed evocato. E tra i peccati «ingiustificabili» c’erano quelli contro la proprietà e i privilegi feudali. Le fiamme dell’inferno non erano altro che il prolungamento di una vita terrena d’inferno. Come poteva essere attraente un messaggio cristiano così formulato?

Come abbiamo già detto, le popolazioni meridionali delle campagne si aggrappavano solo alla loro concezione della santità come difesa dalla natura, dalle malattie e dalla cattiva sorte. Nella loro concezione religiosa si rispecchiava fedelmente l’isolamento e l’atomismo semifeudale dei grossi borghi, dispersi per i latifondi del Mezzogiorno. Al santo il contadino non risparmiava gli onori e neanche gli insulti e le imprecazioni, quando falliva nel suo compito di protezione. Si facevano amico Dio attraverso il santo, per farsi amica la natura e il destino. È questa condizione che comprese profondamente S. Alfonso, il quale perciò elabora una teologia morale che consenta loro di avvicinarsi ai sacramenti senza paura di essere marchiati e senza timori delle fiamme dell’inferno. Li affranca dalla severità dei peccati, non potendo (e non essendo neanche lontanamente nel suo orizzonte culturale) affrancarli dal dominio feudale. Il compito principale del sacerdote non era più di allontanare i ‘rozzi’ dal confessionale spaventandoli con il pericolo del peccato mortale, ma di esaminare quale cognizione avessero del peccato stesso. «Iddio condanna solo chi pecca formalmente per malizia, o per ignoranza colpevole, ma non già chi opera con buona fede, e certezza morale del suo operare», scriveva S. Alfonso. Il santo napoletano umanizza il confessionale. Sposta la tolleranza del secolo dei lumi dalle classi alte e borghesi alle classi rurali, sposta la tolleranza dalle convinzioni politiche a quelle religiose, dalla libertà personale alla salvezza individuale, dalla società al confessionale. Anche i rozzi contadini possono salvarsi, mentre prima di lui questa ‘opportunità’ del messaggio evangelico sembrava restringersi solo alle classi dominanti o a quelle urbanizzate delle grandi città. Un Voltaire cattolico delle campagne.

S. Alfonso invitava ad andare incontro ai contadini, gli abbandonati dell’epoca, non certo ai mafiosi. Ma bisogna prendere atto che l’attitudine al perdono facile, l’assoluzione automatica per qualsivoglia peccato, la comprensione per le ragioni dei peccatori, trovano in lui, al di là delle intenzioni, un punto di riferimento che influenzerà tutta la Chiesa cattolica. Il facile perdono, infatti, unito al bassissimo senso dello Stato e delle sue leggi, ha prodotto nel Sud uno spaventoso cortocircuito, di cui è anche espressione la particolare religiosità dei mafiosi e l’accondiscendenza verso di essi.

 

La mancata scomunica

 

Nel 1989 alla vigilia della assemblea annuale della Cei, l’organismo di governo dei vescovi italiani, il cardinale di Napoli, Michele Giordano, annuncia in conferenza stampa che i vescovi stavano per decidere la scomunica di tutti coloro che fossero stati definiti mafiosi o camorristi da una sentenza di tribunale. Il messaggio era chiaro: Giordano aveva parlato di «sanzioni canoniche» da adottare nei confronti dei mafiosi, vietando loro sia i sacramenti che la partecipazione in qualità di padrini a cerimonie quali battesimi o cresime. Ma il cardinale Poletti nel discorso di chiusura della stessa assemblea corregge la posizione di Giordano: non ci sarà nessuna scomunica dei mafiosi in quanto questa sanzione è già prevista dal codice di diritto canonico. Che cosa era successo nel corso della discussione tra i vescovi italiani da causare una così clamorosa e pubblica marcia indietro da parte del segretario della Cei? Possibile che il cardinale Giordano si esponesse a una così magra figura prospettando decisioni in materia di mafie che già erano vigenti? Un principe della Chiesa, e per giunta di una delle città più coinvolte dalla criminalità di tipo mafioso, non ne era a conoscenza? È indubbio che nel corso dell’assemblea ci fu un duro scontro tra diversi settori dell’episcopato italiano. Ma come siano andate effettivamente le cose, quale sia stato il motivo precipuo del contendere, resta un mistero, uno dei tanti della storia della Chiesa.

Poletti dal palco parla in tono pacato, ma poi torna sulla questione con una certa perentorietà, fastidio e imbarazzo: «La scomunica della mafia non era all’ordine del giorno e non è stata trattata dall’assemblea della Cei. La questione è stata posta solo da alcuni vescovi del gruppo di studio sul Meridione. Ma tutto è finito lì. Non è prevista e non è prevedibile nessuna sanzione di questo tipo». Il cardinale Poletti esclude anche che il documento sul Meridione, che si stava elaborando proprio in quel periodo, potesse contenere qualche accenno alla condanna della mafia (infatti il documento che uscirà nell’autunno del 1989, una delle più significative analisi sui problemi del Sud scritte dalla Chiesa, non conterrà riferimenti alla questione della scomunica). Il segretario della Cei insiste: «La Chiesa nella sua legislazione generale, che è contenuta nel codice di diritto canonico, già prevede sanzioni che valgono per tutti gli stati di violenza. Quindi basta attenersi a queste. La condanna della violenza da parte della Chiesa è sempre chiara e inequivocabile. Ma non è compito della Chiesa varare provvedimenti particolari, anche perché le stesse autorità civili e giudiziarie sono perplesse quando devono individuare i responsabili di atti criminosi». Intanto, come si fa a sostenere che la questione della scomunica non era all’ordine del giorno se uno dei cardinali più importanti e rappresentativi della Chiesa italiana, quello di Napoli, ne aveva parlato in conferenza stampa prima dell’apertura dell’assemblea? E ammesso anche che formalmente la scomunica dei mafiosi non fosse all’ordine del giorno, era sicuramente in quel periodo, dopo infiniti silenzi, una problematica molto avvertita e discussa all’interno e all’esterno della Chiesa cattolica. Erano gli anni successivi all’omicidio di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici in Sicilia, delle guerre tra Nuova Camorra Organizzata di Cutolo e Nuova Famiglia di Alfieri in Campania, dei numerosissimi delitti di ‘ndrangheta dopo l’eliminazione del potente capoclan Paolo De Stefano, e dell’affacciarsi sulla scena criminale nazionale della Sacra corona unita. Nel 1989 le mafie erano una delle principali questioni della società italiana e una spina nel fianco della stessa comunità cattolica. «L’aspetto interessante di questa vicenda non era tanto nel ritardo con cui si era pensato a una misura così radicale, quanto nel fatto che essa fosse seriamente presa in considerazione». Ma la scomunica non ci fu allora, non c’era stata prima, non ci sarà dopo.

Cos’è la scomunica? Il termine scomunica appare per la prima volta in documenti ecclesiastici nel IV secolo. Nell’ambito del diritto canonico essa rappresenta la più grave delle pene che possa essere comminata a un battezzato: con quella decisione lo si esclude dalla comunione dei fedeli e lo si priva di tutti i diritti e i benefici derivanti dall’appartenenza alla Chiesa, in particolare quello di amministrare e ricevere i sacramenti. Oggi le scomuniche si definiscono latae sententiae se scaturiscono da un comportamento delittuoso in quanto tale, e non è necessario che vengano esplicitamente comminate da un ente ecclesiastico: chi compie un certo atto si trova ad essere scomunicato automaticamente. Si definiscono invece ferendae sententiae se non sono automatiche, ma devono essere inflitte da un organismo ecclesiale.

Prima della nascita degli stati di diritto, la scomunica aveva gravi effetti sullo scomunicato: nella pratica era una morte civile, lo scomunicato cioè perdeva qualsiasi diritto ed era alla mercé di chiunque avesse interesse a perseguirlo. Era dunque un’arma potentissima nelle mani della Chiesa.

Diverse scomuniche hanno segnato il corso della storia, e non solo di quella religiosa. Negli ultimi decenni sono stati scomunicati i divorziati, chi pratica l’aborto o lo favorisce, coloro che usano la pillola RU486 o spingono ad usarla, coloro che interrompono la vita con mezzi artificiali. È difficile, comunque, districarsi tra scomunica latae sententiae (automatica) e quella per la quale deve pronunciarsi direttamente il Vaticano. È del tutto evidente che quando una questione è centrale per la Chiesa, che ne vuole fare avvertire l’importanza per tutti i suoi membri, su di essa (e sulla relativa scomunica) si pronunciano direttamente il Vaticano e i suoi organi. Sui mafiosi non è stato finora così. Nonostante ripetute prese di posizione in documenti vari, nonostante il discorso coraggioso di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993, gli affiliati alla mafia e alle sue consorelle non sono stati oggetto di scomunica da parte della Santa Sede e dei suoi organi. Non è un fatto sorprendente?

Si potrebbe ritenere che la Chiesa non consideri più la scomunica un’arma adatta a far valere la sua autorità morale e dottrinale, dopo averla usata in tal senso per secoli e secoli. In un mondo contemporaneo profondamente cambiato potrebbe aver ritenuto anacronistico uno strumento appartenente al suo passato e, in ogni caso, non più efficace. Ma non è così, poiché l’arma della scomunica è stata usata fino ai nostri giorni. Dunque, la Chiesa non ha usato finora la scomunica contro le mafie sicuramente non per convinzione di scarsa efficacia dello strumento. D’altra parte la Chiesa sa che la scomunica non è tanto importante per il singolo che la riceve ma per il messaggio rivolto alla società. Se è vero che in altre epoche lo scomunicato veniva posto fuori dal consorzio sociale, in epoca contemporanea la scomunica è stata usata anche come ‘avvertimento’, in un senso cioè politico-sociale, oltre che religioso-dottrinale. È sicuramente questo il caso della scomunica ai comunisti per incidere sul comportamento politico in maniera preventiva e dissuasiva. Nel caso delle mafie il messaggio culturale e sociale della scomunica sarebbe stato ancora più decisivo e isolante, basandosi il potere di queste organizzazioni proprio sulle relazioni con l’insieme della società e con le istituzioni preposte a combatterle. La scomunica avrebbe intaccato quel prestigio sociale, religioso e istituzionale di cui vanno alla ricerca e di cui ampiamente usufruiscono i mafiosi. La Chiesa è troppo consapevole dell’impatto sociale e civile delle sue sentenze e decisioni per non aver preso in considerazione l’arma della scomunica anche contro le mafie, ma alla fine l’ha scartata. Perché?

Una risposta a questo interrogativo non è semplice. Le mafie, intanto, non sono nemici ideologici della Chiesa, nel senso che non propugnano l’ateismo e dunque non hanno finalità di sottrarre seguaci alla fede cattolica, come nel caso dei comunisti. Non propugnano posizioni eretiche, non si prefiggono scismi, rispettano l’obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche, non praticano una diversa e antitetica morale sessuale: dunque non rientrano nei casi fino ai giorni nostri oggetto degli anatemi e dei fulmini della Chiesa. I mafiosi sono ‘semplicemente’ assassini, cioè violano il sesto comandamento, ma la Chiesa nel corso della sua lunghissima storia ha avuto ‘normalmente’ a che fare con gli assassini e si è regolata senza ricorrere alla scomunica. Inoltre per più di un secolo non li ha mai neanche considerati assassini, ritenendo la ‘mafiosità’ un comportamento della sicilianità e di alcuni codici culturali tipicamente meridionali e non una forma delinquenziale. L’omicida è uno che toglie la vita ad un altro, e dunque viola un comandamento, come si possono violarne altri. Ma la scomunica non è uno strumento per i trasgressori dei 10 comandamenti. Non nel senso che trasgredirli non sia grave, o che l’omicidio non sia un peccato mortale (infatti non ti salvi se muori senza pentirtene), ma nel senso che esso è una delle più tipiche debolezze umane da Caino in poi: la Chiesa ha cercato di porvi freno, qualche volta lo ha ‘nobilitato’ se, ad esempio, finalizzato a sottrarre i luoghi santi dalle mani degli infedeli, più spesso ha provato a rendere con i suoi mezzi l’uomo meno lupo per altri uomini. Quindi l’assassinio non è mai stato un problema da affrontare con la scomunica, ma con i mezzi ordinari con cui nei secoli si è tentato di arginare la violenza dell’uomo sull’uomo. E poi l’omicidio è un ‘errore’ che rientra nel circuito colpa-pentimento-perdono sul quale si fonda l’essenza stessa della religione cattolica. Insomma il delitto di sangue non è considerato ‘eccezionale’ comportamento dell’uomo peccatore, non nel senso che non sia grave, ma solo nel senso che per affrontarlo non c’è bisogno di misure eccezionali. Certo il peccatore è considerato e valutato secondo l’entità della sua colpa, ma qualunque colpa abbia commesso è oggetto possibile del perdono divino tramite la Chiesa.

Torniamo alle parole di Poletti: «Non è compito della Chiesa varare provvedimenti particolari». Cioè: per contrastare le mafie non c’è necessità di misure eccezionali. Qui il riferimento non è tanto alla giurisprudenza o alle azioni di contrasto ‘militare’ dello Stato, quanto allo stretto campo di competenza della Chiesa: contro le mafie la Chiesa non deve mettere in atto azioni ‘particolari’ come ad esempio la scomunica. Quindi Poletti considera la scomunica un’arma particolare, pensa che non sia ancora necessaria e con queste affermazioni riconosce nei fatti che la scomunica non c’è ancora verso i mafiosi, smentendo le sue stesse parole («già esiste»). D’altra parte se la scomunica fosse stata già applicabile ipso facto ad ogni assassino, perché si è consentito a un capo della banda della Magliana, Enrico De Pedis detto Renatino, autore di efferati omicidi, di essere seppellito tra papi e cardinali nella chiesa di Sant’Apolinare a Roma?

È in questo clima altalenante di impegno e di cautela che va inscritta la storia della mancata scomunica alle mafie da parte del Vaticano, che ha riflettuto sicuramente le posizioni oscillanti all’interno delle Chiese meridionali e in particolare di quella siciliana. Imbarazzo che si è manifestato nella ricordata dichiarazione di Poletti e prosegue ogni volta si chiede a qualche esponente delle gerarchie ecclesiastiche il perché della decisione di non scomunicare le mafie. La risposta è sempre uguale: lo abbiamo già fatto. Ma anche chi risponde così sa di non dire la verità, come abbiamo dimostrato in questo capitolo. E allora, perché questo atteggiamento?

Sicuramente ha influito sulle gerarchie vaticane e sulle prelature meridionali anche la paura, il timore di una reazione violenta dei mafiosi. Erano bastate alcune omelie, alcune prese di posizione più coraggiose della Chiesa per esporla a una prima ritorsione, con i delitti di due preti nel giro di pochi mesi. Anche gli attentati a due chiese di Roma, quella di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano, venivano lette come risposta alla posizione del Papa ad Agrigento. In un ambiente abituato alla cautela e alla convivenza con forme criminali, la paura di azioni più clamorose avrà pure pesato. Un secondo elemento di cui tenere conto sta proprio nelle affermazioni di Poletti: «le stesse autorità civili e giudiziarie sono perplesse quando debbono valutare i responsabili di atti criminosi». Cosa voleva dire l’allora segretario della Cei? Certo è difficile individuare un mafioso quando non è condannato per questo reato, dunque una scomunica generale verso di essi potrebbe imbarazzare un prete nell’applicarla: la comunione si deve dare o no ad uno che tutti sanno essere mafioso ma non ha avuto condanne? Si deve consentire che facciano da padrini di battesimo? Un gesuita siciliano così aveva risposto a un giornalista: «Perché chiedere al prete di sostituirsi al magistrato e al carabiniere? Il mafioso che si presenta in chiesa con il figlioccio tra le braccia, quante assoluzioni avrà già collezionato, per insufficienza di prove per non aver commesso i fatti imputatigli? E lei vorrebbe che un povero parroco si atteggiasse a super-giudice, scacciasse quell’uomo che la legge ha assolto?». Il cardinale Giordano, per la verità, aveva proposto la scomunica per quelli già condannati, superando intelligentemente il problema. Dunque non era questa la difficoltà.

Essendo la mafia e le consorelle organizzazioni di massa, attorno a cui oltre agli aderenti orbita tutto un mondo di professionisti, di politici, di settori estesi delle classi popolari e dei colletti bianchi, la scomunica avrebbe potuto avere effetti non calcolabili nel rapporto della Chiesa con questi stessi strati sociali. Quando si scomunica un comunista, lo si individua facilmente perché egli non si nasconde; stessa cosa per un medico abortista o un divorziato. Nel caso di un mafioso, come comportarsi? Ci si può trovare nella condizione di privare dei sacramenti persone con le quali si vive a stretto contatto, o assidui frequentatori delle funzioni, cattolici ferventi. Si può, insomma, scomunicare una parte del proprio mondo? La Chiesa ha avuto enormi difficoltà a riconoscere il reato di associazione di tipo mafioso, perché esso non individua la colpa in un atto specifico ma nell’atteggiamento e nella forza derivante dal vincolo associativo, cioè rompe il rapporto individuale tra colpa e castigo, e rende potenziali mafiosi un numero esteso di persone non strettamente criminali. Insomma, se per le altre scomuniche comminate si trattava di persone o di mondi sociali e culturali già in qualche modo distaccatisi dalla Chiesa per ragioni politiche, scientifiche o altro, nel caso dell’eventuale scomunica alle mafie si andava a colpire un vasto mondo di credenti. Troppo per la Chiesa.

In conclusione, alla domanda relativa al perché non c’è stata la scomunica, la risposta non è univoca. Forse l’elemento di maggior freno sta nella concezione cattolica della recuperabilità del peccatore: mai lasciare niente di intentato alla possibilità del recupero. Ci sono state persone e problematiche contro le quali la Chiesa ha eretto l’irriducibile inconciliabilità della dottrina cattolica, anche a costo di perdere definitivamente un’anima a Dio: i mafiosi e le mafie non fanno parte di questa categoria. In fondo, se si sentono a loro modo cattolici, vuol dire che non sono del tutto persi al messaggio cristiano. Questo in sintesi il ragionamento della Chiesa. La scomunica del Vaticano avrebbe chiuso tutte le porte, e qualcuna andava lasciata aperta. In un periodo decisivo della lotta alle mafie, all’inizio degli anni ottanta, e poi dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, quando lo Stato italiano sembrava nelle condizioni di venire a capo di una questione plurisecolare grazie anche al risveglio di una parte della società meridionale prima sorda e silenziosa, la Chiesa non ha voluto offrire e mettere a disposizione di questa battaglia di civiltà la sua arma più potente: la scomunica vaticana. Ha ancora una volta scelto di ribadire l’immodificabilità della sua struttura teologica e dottrinale di fronte a un problema centrale per la civiltà del Mezzogiorno. Perché il peccato di mafia interroga pesantemente la teologia morale cattolica, ne mostra tutta l’inadeguatezza di fronte ai problemi della convivenza civile, e ne mette in discussione alcuni dei suoi più sicuri e incontrovertibili postulati. Nella convinzione della ricerca della salvezza per tutti, alla fine ha salvato se stessa. La Confindustria in Sicilia ha deciso di espellere tutti gli imprenditori aderenti che in qualche modo hanno avuto rapporti con i mafiosi, anche sotto forma di pagamento del pizzo. Un fatto la cui portata si inscrive tra quegli atti che sono in grado di modificare la storia civile e sociale di un territorio, proprio perché viene da un mondo che ha sempre legittimato e collaborato con i mafiosi. La Chiesa non ha voluto finora fare altrettanto. Non di sola lotta alle mafie può vivere la Chiesa, né può uniformare la sua dottrina e identità solo su questa questione, è ovvio; ma ci sono momenti storici nei quali una comunità civile, di cui la Chiesa è parte, si pone obiettivi prioritari per la sua stessa sopravvivenza e li può raggiungere solo se le agenzie formative del senso comune e della mentalità assolvono pienamente alla loro funzione. La Chiesa non lo ha fatto ancora, e non è stata completamente all’altezza della sua funzione.

 

Letteratura e preti

 

Concludiamo con questa domanda: perché in quasi tutta la letteratura meridionale non c’è una figura positiva di prete? Nel resto della letteratura italiana ci sono dei Fra’ Cristoforo accanto ai Don Abbondio, mentre nel sud solo Don Abbondio o anche preti mafiosi. Da Masuccio Salernitano al Basile, da Mastriani alla Serao, da Sciascia a Camilleri non c’è una figura di prete che possa eguagliare quelle presenti in alcuni autori centro-settentrionali, dal Manzoni al Fogazzaro (padre Giuseppe Flores), da Marino Moretti a Goffredo Parise. Anche in Camilleri l’uomo di Chiesa è il «parrino», ignorante, gaudente e mafioso, e in De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa il ruolo della Chiesa nelle vicende storiche pre e post-unitarie è segnato dalla compromissione con le classi dirigenti gattopardesche. Nella letteratura francese possiamo pensare a Bernanos e alle figure spirituali del ‘Parroco di campagna’ e dell’Abate Donissan. È come se la letteratura rispecchiasse pienamente la diversa funzione che nelle rispettive società hanno svolto i preti e la chiesa: una religiosità ‘passiva’ nel sud fatta di fustigazioni, preghiere e rinunce, di esteriorità, di apparenze, rispetto ad una religiosità ‘attiva’ in cui la salvezza è dettata anche da ciò che si fa nel mondo e non solo in chiesa, nella propria cella o nella propria stanza.

In questo quadro assume un ruolo centrale Leonardo Sciascia. Il tema dei preti è fondamentale nei suoi romanzi, al pari della mafia. La presenza di tanti religiosi e l’assenza di una religione civile sono le ossessioni di Sciascia. Due personaggi di prete prevalgono nella sue opere: il prete ignorante, spesso gaudente e privo di scrupoli, e quello colto, raffinato ma cinico, indifferente ai valori civici. Si può dire che in quasi nessun romanzo sia assente un prete o un uomo di chiesa. Perché tanti preti protagonisti nell’opera di un autore laico? Non ci sono in Italia scrittori cattolici che hanno reso così tanti preti corrotti protagonisti dei loro libri. E perché tanti preti modelli di falsificazione, di ignoranza, di turpitudine, di ambiguità? È il pregiudizio antireligioso che domina le sue ossessioni? È la religione modello di tutte le imposture, come una certa critica gli ha attribuito? Bella la frase di Sciascia a proposito del credere o non credere: «Si è credenti o atei sempre in maniera imperfetta». Certo, c’è anche qualche figura positiva di uomo di Chiesa, quale Monsignor Ficarra nel libro Dalle parti degli infedeli, ma per la maggior parte si tratta di cattivi preti che spesso ammazzano e vengono ammazzati (naturalmente nella finzione letteraria). Inquietante la figura di don Gaetano in Todo Modo che si lascia andare alla seguente affermazione: «Cos’è la Chiesa senza il male?». Ma se si prende per buono ciò che scrive uno dei suoi migliori interpreti, Gaspare Giudice, cioè la «tentazione cattolica» di Sciascia, allora il discorso cambia radicalmente: lo scrittore ha nostalgia e voglia di una Chiesa diversa, e la sua letteratura è come se gridasse: «Cosa sarebbe la Sicilia e l’Italia con una Chiesa non implicata con le classi dirigenti e con la mafia?». Egli segnala con la sua opera il ruolo centrale nella cultura e nella società siciliana della Chiesa («È da loro e tramite loro che traggono origine molti dei mali che ci affliggono») e al tempo stesso, nel descriverne le aberrazioni, avverte il bisogno di un’altra Chiesa.

 

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1 Le candelore, dette anche cerei, sono delle opere in legno di diversa dimensione e altezza allestite da varie categorie di mestieri che ne curano l’addobbo e la sfilata.

2 Nel covo del boss Lo Piccolo nel 2007 sono state trovate le «dieci regole» per l’appartenenza alla mafia: 1) «Non ci si può presentare da soli a un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo»; 2) «Non si guardano mogli di amici nostri»; 3) «Non si fanno comparati (amicizia ndr) con gli sbirri»; 4) «Non si frequentano né taverne né circoli»; 5) «Si ha il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa nostra. Anche se c’è la moglie che sta per partorire»; 6) «Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti»; 7) «Si ci deve portare rispetto alla moglie»; 8) «Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità»; 9) «Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie»; 10) «Niente affiliazione per chi ha un parente stretto nelle varie forze dell'ordine, oppure chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, o chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali».