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Venere in pelliccia, di Roman Polanski





VENERE IN PELLICCIA

di Roman Polanski


 

con Mathieu Amalric
ed Emmanuelle Seigner

FRANCE 2013, 96 min.

 

 

 

 
Nella sua forma più matura e compiuta, il connubio che Polanski ha realizzato fra il testo teatrale e la sua rielaborazione filmica è iniziato con La morte e la fanciulla (Death and the Maiden, 1994), tratto da una pièce di Ariel Dorfman e adattato sulla base di una sceneggiatura volutamente claustrofobica (in buona parte realizzata dallo stesso Dorfman), nella quale il coefficiente drammaturgico cresce per mezzo di dialoghi che sono autentiche coltellate e che confluiscono in una lunga confessione del personaggio interpretato da Ben Kingsley, costretto ad una grande prova da attore senza il sollievo di controcampi o di altri possibili momenti di riposo. Diversi anni più tardi, con Carnage (2011) – basato sul fortunato Le Dieu du carnage (2007) di Yasmine Reza, messo in scena anche a Londra e a Broadway (al Bernard B. Jacobs Theatre, 2009) – il regista ha perfezionato questa operazione optando per la soluzione aristotelica dell’unità di tempo e di luogo e mostrando come sia possibile racchiudere lo scontro letale fra personaggi in un gioco di doppie coppie, come in una partita a poker senza vincitori e in cui i dialoghi sono perfino qualcosa in più che semplici coltellate: sono sciabolate affondate nel corpo e nella mente del nemico, in un sistema relazionale in cui ognuno è un nemico e la coppia non serve a proteggere niente e nessuno. Nel tempo intercorso fra questi due film, Polanski – che non ha mai fatto mistero di volersi anche divertire in questo ambiente, non di rado producendosi in interpretazioni di un certo rilievo – ha avuto modo di recitare come protagonista nello splendido adattamento della commedia di Aleksander Fredro Zemsta (2002), un classico del teatro polacco dell’Ottocento rivisitato da Andrzej Wajda e giustamente elogiatissimo dalla critica1 sia per l’eleganza della regia che per la raffinata recitazione.

Con La Vénus à la fourrure, basato sulla pièce Venus in Furs dello statunitense David Ives e presentato in concorso a Cannes 2013, assistiamo ad un ulteriore passo avanti in questo incontro/scontro fra il territorio cinematografico e lo spunto teatrale. Lo spettacolo, basato sull’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, è stato messo in scena nel 2011, prima al Manhattan Theatre Club di Broadway e poi al Lyceum Theatre. Non molto tempo dopo, il testo è capitato fra le mani di Polanski, che a quanto pare ne è stato subito attratto e ha preso rapidamente la decisione di adattarlo, a quattro mani con Ives. In un’intervista concessa ad ottobre ad un settimanale del gruppo RCS, alla domanda posta dall’intervistatrice: «Un film con due attori, girato in un teatro: non facile. È stata una sua idea?» Polanski ha risposto:

« Mi ha dato la sceneggiatura il mio agente. Siccome quel giorno non avevo molto da fare ho cominciato a leggerla. E a ridere: i dialoghi erano davvero divertenti. A un film con due soli attori, poi, ci pensavo da anni. Era una sfida riuscire a farlo senza essere noiosi, e io ho bisogno di sfide. Anche l’ironia con cui veniva affrontato il rapporto uomo-donna mi piaceva, questa specie di vendetta di Venere era molto attraente. Inoltre, io amo il teatro. Ho cominciato presto, a 14 anni mi diedero un ruolo da protagonista e da allora continuai ad andarci, avessero bisogno di me o no»2.

Senza risalire fino a Les enfants du Paradis (1945) di Marcel Carné, di film che insistono sull’esplorazione dei recessi del mondo teatrale ce ne sono stati molti, basti pensare allo splendido Dopo la prova (Efter repetitionen, 1984), di Bergman. E nel cinema francese ci sono stati anche ottimi esempi di lungometraggi concepiti e realizzati intorno a due soli personaggi che dialogano all’infinito, come ha fatto nel 1981 Louis Malle col socratico La mia cena con André (My Dinner with André). Perciò, Polanski sapeva bene di avventurarsi in uno spazio per nulla vergine e anzi ricco di precedenti illustri. Eppure, forse anche grazie alla sua ben nota tendenza iconoclasta e ad una dose di divertimento che sembra provare da sempre quando può mettere a nudo e ferire le sue creature, il suo sforzo è da ritenersi perfettamente riuscito, tanto che Roberto Escobar ha legittimamente detto che le diverse ipotesi interpretative di questo film «possono valere l’una accanto all’altra»3 con buona pace del principio di esclusione reciproca.

La trama è riassumibile in poche righe. Thomas è un regista che sta allestendo una rilettura del romanzo di Sacher-Masoch e sta facendo dei provini per selezionare la protagonista. Al termine della (presumibilmente) prima giornata di audizioni, mentre sta per andar via insoddisfatto delle attrici che si sono presentate, fa irruzione nel teatro Vanda, in apparenza una modesta attricetta molto volgare, grossolana, sovratatuata e incolta. Si rivela però subito adattissima al ruolo, che sa mettere in scena con un’intensità tale, da coinvolgere Thomas in un lungo gioco di scambi e metamorfosi, al punto che verso la fine induce il regista ad interpretare lui stesso la parte della protagonista e lei la parte di lui. Affondando sempre più nella psiche di Thomas, il gioco spinge il regista ad offrirsi in sacrificio legato (non molto diversamente da come era legato alla sedia Trelkovsky ne L’inquilino del terzo piano, interpretato nel 1976 dallo stesso Polanski) ad un assurdo cactus finto, rimasto sulla scena da un precedente allestimento di un musical basato su Ombre rosse, ossia proveniente da un mondo di valori ormai antico, in cui il principio maschile e quello femminile erano chiaramente separati e non confondibili. In un turbine di furori dionisiaci, Vanda si ripresenta sul palco come baccante in grado perfino di uccidere Thomas/Penteo, ma preferisce andar via dopo averlo annichilito e svuotato della sua presunzione autoriale.

Per certi aspetti, la donna incarna senza dubbio un principio femminile di fondo che è presente anche nella struttura psichica di Thomas ma che l’uomo tende ad occultare, probabilmente perché se ne sente minacciato. Tanto è vero che quando tale principio emerge – in particolare dopo l’esilarante sequenza nella quale il rapporto tra i due si trasforma in seduta psicoanalitica in cui è lei ad analizzare lui – travolge completamente l’autore. Per altri versi, dato il fortissimo scarto esistente (e sul quale Polanski insiste molto) fra la serietà borghese di lui e il kitsch a dir poco ruspante di lei, Vanda può essere considerata l’incarnazione di una vendetta anche culturale: il basso che rovescia l’alto, lo smaschera, lo denuda, lo travolge; che volendo potrebbe perfino ucciderlo. E va ricordato che la tendenza a mostrare personaggi che, isolati dal mondo esterno, tendono ad aggredirsi reciprocamente in un’operazione di progressivo disvelamento delle rispettive ipocrisie ed esibizione delle nature profonde – che sono quasi sempre violente, ma soprattutto miserabili – è presente nel cinema di Polanski fin dal suo esordio come regista ne Il coltello nell’acqua (Nóż w wodzie, 1962), tanto che non è eccessivo affermare che il suo pubblico se lo aspetta, almeno ogni 3-4 film. Ma c’è un aspetto ulteriore da tenere nella giusta considerazione, se si vuole andare alla ricerca della funzione svolta dal personaggio di Vanda. Sia il lungo piano-sequenza iniziale, quando lei arriva in teatro, che il suo reverse nella sequenza di chiusura (quando va via) sembrano pensati e realizzati per far risaltare uno spaventoso temporale che sta avendo luogo all’esterno del teatro e del quale sostanzialmente non si percepisce la presenza durante la lunga audizione.  Questo fa pensare alla volontà da parte del regista di collegare la prorompente personalità della donna a certe potenze naturali che si annunciano in modo classico, per mezzo di tuoni, fulmini e saette. Anche Álvaro Mutis aveva fatto una scelta non molto diversa, quando ha elaborato i personaggi di Ilona e di Larissa nel secondo romanzo della sua trilogia di Maqroll. Anche lì, infatti, è la pioggia ad annunciare l’avvicinamento oppure l’allontanamento del principio femminile, che però ha un valore molto più rassicurante poiché insegna all’uomo l’arte della pazienza riflessiva: «Lascia che le cose scorrano, in esse è nascosta la chiave. Se la si cerca, si perde la facoltà di scoprirla»4. Vanda non è venuta per filosofeggiare ma per smontare la personalità di Thomas e metterne a nudo la miseria che ne è al centro e intorno alla quale l’uomo ha costruito la sua carriera e la sua reputazione. Vanda non è una consolatrice ma una vendicatrice, e sembra proprio che attraverso di lei si scateni una potenza di origine sacra, che si presenta lasciandosi precedere da pioggia e fulmini. In realtà, l’associazione tra le forze meteorologiche e le divinità femminili è ben più antica dell’Afrodite greca, ed è molto diffusa: la si ritrova nella sumera Inanna, nella babilonese Ishtar, nella Tefnut egizia, nella Sulis celtica e così via. L’antropologia ci insegna che sono alcune caratteristiche biologiche della donna (ciclo mestruale, fecondità, parto, etc.) a farla percepire in moltissime culture come «un essere al tempo stesso ferito, impaurito e malefico, che appartiene per natura al sacro “sinistro” e di cui in certi casi occorre temere la presenza o il contatto»5, come lo teme in modo crescente Thomas, appunto. Ma di certo a Polanski, soprattutto nel momento in cui sceglie la moglie come interprete per questo ruolo così potente, facendola esporre fino ai limiti delle sue possibilità anagrafiche (Emmanuelle Seigner ha ormai 47 anni e non più 26 come durante le riprese di Luna di fiele), non interessa tanto il background antropologico di questa combinazione quanto la sua eterna attualità.

Infine, a differenza di quanto accade in Carnage e nel relativo gioco di scambi e smascheramenti reciproci, in La Vénus à la fourrure risulta particolarmente decisiva la presenza di un testo scritto (come accade anche nella pièce teatrale) con il quale i due protagonisti si misurano in modo continuo, incessante, nevrotico, e che ha un ruolo molto attivo nella dialettica fra i due, quasi che il testo scritto fosse una sorta di terzo personaggio, con la sua particolare fisicità. In ogni momento il testo evoca elementi presenti nei due protagonisti, li chiama all’appello, li sfida. E tuttavia ad esso non è certo riservato un trattamento diverso, dato che anch’esso viene più volte smascherato, violato, decostruito. Vanda lo getta nel (finto) caminetto, Thomas lo strapazza senza soste, eppure il testo rimane lì e continua a partecipare al gioco senza fornire neanch’esso punti di riferimento stabili ma, anzi, negando la sua tradizionale funzione di donatore di senso. Contribuisce sia alla demolizione dell’identità dei personaggi che al momentaneo riassemblaggio dei pezzi rimasti. Siamo dunque in una giostra «di seduzione e dominio dove non è solo il trucco il segno della metamorfosi ma proprio la scrittura come persistente inganno»6, dato che nel mondo di Polanski – per sua stessa ammissione – le certezze sono la quintessenza della noia7 mentre l’esplorazione dei vizi e delle perversioni rappresenta quanto di più divertente il cinema possa rappresentare. E da questo punto di vista, anche da questo punto di vista, La Vénus à la fourrure è un autentico capolavoro.

 

 

Note al testo

1 Cfr. la recensione di Katarzyna Długosz in: Tygodnik, n. 6/2002. Cfr. anche Cinema Polska, nr. 10/2002, pp. 12-15.

3 Cfr. L’Espresso, n. 46/2013, p. 158.

4 Á. Mutis, Ilona arriva con la pioggia, a cura di E. Franco, Torino, Einaudi 1991, p. 62.

5 R. Caillois, L’uomo e il sacro, a cura di U.M. Olivieri, Torino, Bollati Boringhieri 2001, p. 134.

6 S. Emiliani, Claustrofobie e romanticismo, in: Filmcritica, n. 635-636, 2013, p. 261.

7 Cfr. F. Di Celle, Roman Polanski, Milano, Il Castoro 2008.