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Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione cemento

 

Salvatore Settis

 

Paesaggio Costituzione cemento.

La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile

 

Einaudi, Torino 2011, pp. 326, € 19,00

EAN 9788806198718



 

Il titolo scelto da Salvatore Settis per questo importante libro, uscito nella seconda metà del 2010, rimanda a tre argomenti, il Paesaggio come bene pubblico, la Costituzione come riferimento del diritto, il cemento come nemico da combattere. Il sottotitolo sembra altrettanto chiaro, La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, ma il termine “battaglia” andrebbe spiegato: a quale battaglia per l'ambiente si riferisce Settis? La secolare battaglia che si svolge in Italia tra pubblico e privato? O la battaglia che si dovrebbe scatenare contro chi sta distruggendo il Bel Paese? Perché leggendo questo libro, purtroppo, non ci si può illudere molto, se battaglie ci sono state, sono state perdute da molti anni; forse allora il sottotitolo rappresenta l'auspicio che si scateni infine una giusta e nuova lotta per restituire ai cittadini il paese in cui vivono?

Salvatore Settis è intellettuale ben noto e di altissimo livello, tanto culturale quanto politico. Alla professione originale di storico dell'arte e di archeologo, che tuttora egli rivendica come la “sua” professione e che gli ha garantito un posto di rilievo tra gli esperti internazionali, il professor Settis ha affiancato una prestigiosa carriera di dirigente e di consulente, passando, tra molte altre attività, dalla Direzione della Scuola Normale di Pisa a quella del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Alle competenze dello studioso quindi ha saputo aggiungere quelle dell'uomo di diritto, confermate dalla laurea honoris causa in giurisprudenza conferitagli dall'Università degli Studi Roma "Tor Vergata".

Di bellezza e di leggi, in effetti, parla questo libro, che ha la struttura di una radicata ed esaustiva indagine su come sia stato possibile distruggere gran parte di un antichissimo paese, il nostro, nell'arco di appena 150 anni. La storia, raccontata da Settis con il piglio del grande saggista e divulgatore in grado di descrivere in modo trascinante anche argomenti normalmente considerati noiosi, comincia con la frase-slogan: “Il paesaggio è il grande malato d'Italia” e prosegue poche righe sotto, “Sempre più spesso sono consegnate a speculatori senza scrupolo le città che furono per secoli il modello d'Europa ….”.

Non si deve pensare tuttavia che il libro descriva soltanto l'attività speculativa che ha arricchito generazioni di palazzinari e di amministratori corrotti: Paesaggio Costituzione cemento descrive piuttosto come gli enti dello Stato italiano negli ultimi sessant'anni abbiano apparentemente difeso con le loro leggi il territorio, mentre in realtà lo consegnavano ai faccendieri.

Si parte con dati recenti, tra cui molti impressionanti per dimensione: i numeri relativi agli ettari di suolo passato da agricolo a urbanizzato, tali da coprire l'area di due o tre regioni, i numeri relativi alle cubature di cemento costruite, tali da accogliere milioni di persone, e i numeri relativi all'assenza di registrazione – il cosiddetto accatastamento – di almeno un milione e mezzo di case. Per non dire dei quattro milioni di immobili “condonati” in una ventina d'anni, edifici costruiti illegalmente che hanno ricevuto, per grazia di governi compiacenti, la legittimità invece dell'ordine di demolizione.

Se davanti a questi dati il lettore può sorprendersi, ora che li conosce il lettore deve indignarsi; Settis è molto chiaro a proposito e già a pagina 13 rivela lo scopo del suo libro:

Solo una diffusa consapevolezza dei cittadini non-addetti-ai-lavori può innescare un processo di presa di coscienza delle conseguenze di lungo periodo di questa foga cieca e distruttrice. Solo imparando a muoversi nel labirinto delle norme, dei dati, delle informazioni e controinformazioni potremo giudicare in prima persona (come è nostro diritto) che cosa, di quanto ci accade intorno, è giusto o inevitabile e che cosa invece è il frutto di cinica speculazione che per il vantaggio di pochi devasta il bene di tutti.

Imparare a muoversi nel labirinto delle norme, così ha fatto Settis storico dell'arte e così dobbiamo fare anche noi: questo mi sembra essere il cuore della ricerca del professore e del suo pensiero, la difesa del bene di tutti; problema non piccolo in un paese dove i cittadini si identificano raramente con lo Stato e dove regna sovrana non tanto l'ignoranza delle leggi, quanto la totale indifferenza verso di esse. Inoltre, rimandando la risposta ad un'analisi sociologica, resta aperto il tema della tendenza tutta italiana a investire essenzialmente in immobili (i mattoni del gergo popolare), che determina una sproporzione pericolosa tra il costruito per necessità e il costruito per motivi finanziari.

La sequenza dei dati e delle notizie snocciolati nel libro segue un criterio scientifico; ogni dettaglio è analizzato e storicizzato, con una tendenza di fondo che sembra rimpiangere a volte le qualità amministrative e intellettuali di personaggi del passato (si propone in vari punti una attenta analisi dell'attività dei ministri “culturali” dal 1861 in poi, tra cui Benedetto Croce e tanti altri). Nell'attualità, Settis sottolinea quanto non siano sufficientemente noti gli interventi, direttamente guidati o opportunamente adattati alle esigenze federaliste della Lega Nord, sulla nostra legislazione e anche sulla Costituzione. L'autore esprime un giudizio, condannando senza appello tali scelte, comprese quelle non dovute direttamente alla Lega, come la incredibile e malfatta modifica dell'art. 114 della Costituzione attuata dal governo Amato nel 20011. Analizzando poi l'azione disgregante attuata dalla richiesta di federalismo, ci si può chiedere se essa sia del tutto consapevole e voluta o se non sia anche determinata dall'ignoranza di fondo dei leghisti e di quanti li affiancano o li hanno affiancati.

La realtà è che in Italia ci sono migliaia di leggi relative all'edilizia, all'urbanizzazione, alla tutela, e di queste leggi moltissime sono in contraddizione l'una con l'altra; e dubbia è persino la loro stessa validità, perché in molti casi non è chiaro se la legge da seguire sia quello emanata dal Comune, dalla Provincia, dalla Regione o dallo Stato. Davanti a tanta miseria legislativa, i cui esempi sono purtroppo innumerevoli, la risposta di Settis, con cui si può pienamente concordare, è che si deve tornare alla centralità amministrativa. L'idea di Nazione come punto fondante dello Stato è stata dimenticata in Italia, se mai davvero è esistita, mentre dovrebbe porsi in una fiera e precisa opposizione alle tendenze distruttive di un certo tipo di localismo.

L'altro grande male del Paese, che effettivamente non è un altro ma sta all'origine anche della piaga federalista, si rivelava sin dai tempi dell'Unità, quando le anime legislative dei vari paesi annessi al Regno di Sardegna si confrontarono e cercarono di integrarsi: la proprietà privata sin dal principio risultò intoccabile, protetta dagli interessi del latifondo. Mi sembra di poter aggiungere che lo è tuttora, non tanto perché essa venga difesa all'estremo, ma perché anche quando decade per il legittimo intervento della cosa pubblica, essa viene pagata a carissimo prezzo, garantendo quindi al proprietario un fruttifero scambio tra bene immobile e valuta.

Nel terzo capitolo, Settis racconta una storia articolata e complicatissima, cioè la storia della legislazione in materia di beni culturali negli Stati italiani prima dell'Unità; si vede come quei singoli piccoli paesi si dotarono di leggi importanti, all'avanguardia e spesso simili tra loro, allo scopo di difendere e tutelare il prezioso patrimonio accumulato nelle epoche precedenti. Fu un peccato che lo Stato meno avanzato e preparato in materia, il Regno di Sardegna, dovesse porsi come aggregatore delle diverse leggi nazionali al momento della nascita del Regno d'Italia. Nei fatti, dal 1861 fino all'inizio del Novecento si tentò, senza riuscirci, di creare una struttura unitaria e di dare allo Stato gli strumenti per tutelare i beni culturali pubblici; ad opporsi a queste legittime proposte furono i grandi proprietari, a quel tempo soprattutto aristocratici, in grado di manovrare il Senato, non elettivo, e di far valere “i diritti della proprietà privata e la difficoltà di riconoscere il primato del pubblico bene sul libero commercio ed esportazione delle opere d'arte” (pag. 113). E il discorso sulle opere d'arte vale anche per i beni ambientali.

Sembra paradossale, ma non lo è, che solo durante il Fascismo lo Stato si sia dotato di due leggi adeguate, al punto che esse rappresentano tuttora il substrato delle leggi in materia di territorio e di beni culturali: la legge Bottai del 1938 e la legge quadro in materia di urbanistica del 1942. Su ciò che è accaduto dopo, che Settis riesce a sintetizzare con estrema abilità saggistica nel quarto capitolo, può bastare un accenno: le due leggi erano fondamentalmente buone leggi, ma né loro né le tantissime da esse derivate, sono state osservate. Gli anni del boom economico furono anche gli anni selvaggi della speculazione; e negli ultimi vent'anni la situazione si è ripetuta, con le dovute varianti, ma identica nei risultati: la distruzione del territorio nel nome dei diritti dei privati e in spregio del bene comune.

In più punti del testo, e nel sesto capitolo in particolare, Settis si occupa anche di chiarire i termini in uso, e qui davvero si potrebbe creare un comico manuale di corbellerie leggendo nel dettaglio le nostre leggi. Ma il punto che mi sembra più interessante riguarda la questione di fondo, e cioè di cosa stiamo parlando quando parliamo di ambiente. Nel corso del tempo si sono usati termini diversi, ma l'inerzia generale ha finito per aggiungere, sostituire, chiarire e assommare parole su parole senza eliminare le parole precedenti. Così nelle leggi italiane Settis ci fa notare che si parla di ambiente, territorio e paesaggio come se fossero cose diverse, creando una molteplicità di sensi e di sfaccettature che non arricchiscono affatto l'argomento, ma lo confondono soltanto. Anche in questo caso, il lettore può uscire con stupore dalla scoperta delle differenze interpretative e dalla libertà d'uso di termini legali che dovrebbero per loro natura essere chiari, o bianchi o neri, mentre sono quasi sempre “grigi”.

Per finire, invito tutti i lettori con un minimo di cultura artistica a leggersi la pag. 83 del libro, nella quale Settis con straordinaria flemma distrugge la leggenda urbana delle percentuali mondiali del patrimonio artistico italiano, oscillanti tra il 40% e oltre il 100% (sic! l'aritmetica non è cosa per tutti) stando alle incredibili “citazioni” di autorevoli politici, intellettuali e sedicenti esperti d'arte. Non si tratta di un argomento superfluo, perché rivela in modo diretto ed evidente il populismo e il pressapochismo di troppi; per capirci, a nessun medico verrebbe mai in mente di improvvisare dati statistici sulle malattie o sulle epidemie senza citare fonti e dati concreti. In materia di patrimonio culturale (che assomma i beni dell'intelletto e del territorio), mancando del tutto una catalogazione, parlare di percentuali è come cercare di dividere un numero per zero.

E anzi, le pagine 83 e 84 le sintetizzo e trascrivo qui sotto, perché qualunque mio commento è ben poca cosa rispetto alla lucida scrittura di uno studioso che meriterebbe, infine, quel ruolo di estremo impegno che lui solo, io credo, saprebbe degnamente rivestire in Italia: Ministro della Cultura di un Governo nuovo, che possa ridare energia, orgoglio e entusiasmo a questo paese stremato.

Secondo le stime dell'Unesco, l'Italia possiede [fra il 60% e il 70% dei beni culturali mondiali secondo Eurispes, il 55-60% secondo Andrea Marcucci, sottosegretario, la maggior parte secondo Sandro Bondi, il 72% del patrimonio europeo e il 50% di quello mondiale secondo Silvio Berlusconi].

Affermazioni come queste si rincorrono dai discorsi e interviste dei politici a Facebook, al blog di Beppe Grillo. Le percentuali cambiano sempre (i più modesti si accontentano del 40%), ma sono ritenute talmente solide e attendibili (sotto l'usbergo dei 'dati Unesco') che le Regioni entrano in lizza fra loro: in questa Italia dei primati, ci saranno più beni culturali in Sicilia o in Toscana? […] avremo un bel risultato: l'Italia da sola supera di gran lunga il 100% dei beni culturali del pianeta. Intorno a noi, il deserto.

Tali dati […] sono anche dimostrazioni, davvero desolanti, di irresponsabile superficialità e approssimazione. Tutti citano a memoria, pochi sembrano accorgersi che la percentuale varia di bocca in bocca come accade nei pettegolezzi, non nelle statistiche. Quasi nessuno dice che questi dati sono inesistenti, che non c'è mai stata un'indagine svolta dall'Unesco che abbia quantificato il patrimonio culturale del pianeta, assegnando a ogni Paese la propria quota percentuale. L'Italia svetta, è vero, in cima alle classifiche per il numero di furti d'arte e d'archeologia, ma non è poi un dato tanto lusinghiero. Siamo i primi anche nella lista dei siti Unesco, ma i 44 siti italiani (su 890) corrispondono solo al 4,9% (la Spagna segue a un'incollatura).


Indice del volume

I. Una bomba a orologeria
II. L'orizzonte dei diritti
III. Cultura ed etica della tutela: una storia italiana
IV. Tutelare il paesaggio: da Croce a Bottai
V. Costituzione, devoluzioni
VI. L'Italia si fa in tre: paesaggio, territorio, ambiente
VII. Noi, i cittadini

 

Nota

1 La prima frase dell'articolo originale, La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni, aveva come soggetto attivo la Repubblica italiana, la cui consistenza è data dai veri enti che la compongono, ovvero in cui essa è suddivisa. Il nuovo testo, La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato, comporta un'inversione di senso, per cui la Repubblica è la somma astratta di elementi minori, tra cui incredibilmente c'è anche lo Stato.