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Presenti a se stessi?

Estratto dalle Lettres sur un aveugle. Punctum caecum.1
(Per un'introduzione, vedi  Derrida e il suo doppio. di Igor Pelgreffi)

 

 

 

Così, abbassando la guardia prima ancora di deciderlo, prima ancora di girarmi [meretourner2], mi sarò lasciato sorprendere.

Ancora oggi non so né perché, né da chi.

Le riprese [le tournage] erano già cominciate.

Non vi ho mai acconsentito sino a questo punto. Tuttavia mai il consenso è stato così inquieto di se stesso, così poco e così mal gestito [joué], dolorosamente estraneo alla compiacenza, semplicemente impotente a dire «no», ad attingere nel fondo del «no» che ho sempre coltivato.

Mai, consapevole com’ero della situazione, ho agito così da cieco, gli occhi chiusi [les yeux fermés3] su un ordine che mi dettava: «a questo punto, a questa data, devi rinunciare a stare in guardia, e a riguardarti, e a guardarti. Rinuncia a tutto, rinuncia a tutti i riguardi che abitualmente riservi a ciò che ti protegge. Dimentica tutto ciò che può riguardarti o guardarti, sì, abbassa la guardia, disfati delle armi del discorso, non riparare più le parole con le parole, addormenta la vigilanza di una parola che non la finirebbe più di precisarsi, raffinarsi, contraddirsi, di pesare il pro e il contro, per poi, infine, ritirarsi. Accetta l’ipnosi, sì, l’ipnosi. »

Le riprese erano già cominciate.

La decisione non poteva esser stata la mia. Ammesso che lo sia stata altre volte.

Mai sono stato così passivo, in fondo, mai mi son lasciato fare [je me suis laissé faire4], e dirigere, sino a questo punto. Come ho potuto lasciarmi sorprendere sino a questo punto, così imprudentemente? Quando sono da sempre, insomma credo di essere molto accorto, e mi accorgo di essere accorto – verso questa situazione di imprudenza o imprevidenza [improvidence] (la fotografia, la conversazione improvvisata, l’impromptu, la cinepresa, il microfono, lo spazio pubblico stesso, etc.).

Apparentemente, certo, durante le riprese, sono poi stato attivo, e libero, mai nessuna parola mi è stata soffiata [soufflée5]. Ho improvvisato tutto da me. Su questo teatro, in cui sembrai così attivo, sempre attivo, sempre in movimento, spostandomi da me, spesso in automobile, fu un Atto dopo l’altro. E ho anche recitato l’Attore, un Attore che, in definitiva, reciterebbe il mio ruolo.

Se io mi designo d’ora in poi dicendo a volte me, io, e a volte lui, l’Attore, non sarà per rimettere in scena una qualche maestria ludica. Lungi da qualsiasi strizzata d’occhio ironica, vorrei al contrario far sentire questo malessere circa il mio posto, il mio posto impossibile in questo film. «Altrove», nel titolo del film (D’ailleurs, Derrida…), non designava solamente l’altroluogo in cui si trovavano, l’altra scena da cui venivano, l’altro paese in cui si recavano la persona e il personaggio che io sono di volta in volta o simultaneamente. «Altrove» dovrebbe anche dare ad intendere che sempre, io, l’Attore, mi sono sentito fuori dal film, estraneo a tutto quello che il film poteva mostrare o comporre di «me». E che ciò doveva sentirsi, come un «effetto di estraneità». Ed anche, e forse soprattutto, quando tale sapiente composizione (quella della scrittura del film, alla quale io non ho, in alcun momento, avuto alcun ruolo, chiedo che non lo si dimentichi mai) poteva fare nascere delle impressioni di verità sorprendenti o irrecusabili.

Che io rimanga estraneo («altrove», altro) perfino nei confronti della mia «verità», ecco l’esperienza della quale non riuscirò a parlare, ma che mi pare debba essere almeno evocata. Pensata, se non conosciuta. Divorzio fra l’Attore e me. Questo divorzio, questa separazione legale [séparation de corps], sembra privare l’Attore, certo, di qualunque verità rappresentativa, di qualunque legittimità, di qualunque fedeltà: c’è l’abisso, fra lui e me. Anche se l’Attore mi interpreta e mi recita, se recita un personaggio che rinvia alla mia persona, egli non è me, non mi riflette [réfléchit] più di quanto non mi rispecchi [reflète]. Mi tradisce6. Ma, inversamente, si deve sapere che questo divorzio non è incominciato con il girare [le tournage], con la deviazione del girare [avec le détour du tournage] (e divorziare, significa separarsi con un giro, con una deviazione: divortium, divertere, ecco l’immagine). Il divorzio fra l’Attore e me, fra i personaggi che interpreto e me, fra i miei ruoli e me, fra le mie «parti» e me, ha avuto inizio in «me» ben prima del film. E si è moltiplicato, ha proliferato durante tutta la «mia-vita». Questo non vale solo per me, ne sono perfettamente convinto, tutti «noi» possiamo altrettanto affermarlo, così come tutti e tutte allo stesso modo soffrirne, e parimenti gioirne, ma ogni divorzio ha la sua storia, il suo stile, la sua lingua, il suo volto, i suoi nomi propri, le sue firme, e se il film ha fatto intravedere i miei divorzi, i nomi dei miei divorzi, avrà detto vero [dit vrai], per questa «parte», avrà fatto la parte delle parti, avrà fatto vero [fait vrai] contemporaneamente per i divorzi che sono a noi comuni, e vero per gli insostituibili e irreversibili divorzi che furono la mia partita, che furono i miei propri (intendo dire fra me e me, divorzi il più delle volte segreti, conclusisi talvolta per tradimento unilaterale, talvolta in modo consensuale, talvolta riconoscendo i torti reciproci, talvolta per incompatibilità di carattere, etc.).

Detto altrimenti: il divorzio fra l’Attore e me, è davvero possibile che abbia fedelmente rappresentato, in verità, sino ad un certo punto, e riprodotto il divorzio fra me e me, fra più di un me, fra me e i miei ruoli «nell’esistenza», «altrove» rispetto al film. Fra me e le immagini di me, quelle visive e quelle sonore – che mi sono state da sempre, amici e parenti possono confermarlo, insopportabili. Alle quali sono sempre stato morbosamente allergico (mai questa parola mi è sembrata più giusta). Il divorzio dalla verità non avrà rappresentato poi così male, speriamo, la verità di un divorzio e il divorzio che fa la verità. A ciascuna parola, a ciascuna immagine, un’altra verità denudata. Qui non sono i suoi scapoli, anche, che mettono a nudo la sposa7 [ses célibataires, même, qui mettent à nu la mariée], ma la processione dei suoi divorziati…

Se d’ora in avanti dirò talvolta l’Attore, talvolta me, ciò non sarà dunque sempre il risultato di una scelta deliberata. È che spesso io non so più, prende posto l’indecidibile. Dove arriva il film, l’incalcolabile era già là. Lasciandogli la sua «parte», facendo il suo gioco, non credo che il film abbia registrato l’incalcolabile, come farebbe una presa d’atto realista o l’archivio di un documentario. Con l’energia inventiva di una finzione [fiction], ha rilanciato o intensificato, ha capitalizzato l’incalcolabile attraverso macchine e macchinazioni di ogni sorta.

Ecco il gioco al quale, così passivamente, mi sono prestato. Mi sono sorpreso io stesso. Mi sono passivamente prestato all’Attore, all’indolente iperattività della sua interpretazione. Ecco perché, stando al gioco, non me ne sono più riavuto [jouant le jeu, je n’en suis pas revenu]. Ecco da cosa mi sono lasciato prevenire. Nessuna preparazione vi poté nulla. Nessuna precauzione, nessuna circospezione poteva farvi nulla poiché essa stessa era anticipatamente presa nella macchina del divorzio. Nessuna anticipazione ha potuto impedire che tutto ciò mi accada, in effetti, e mi accada senza che io vi veda nulla.

Mi accade all’improvviso [à l’improviste8].

Le riprese erano già iniziate, non ricordo neppure più quando, prima di girare [tournage], erano iniziate prima di iniziare, prima che qualsiasi decisione di produzione fosse formalmente presa (era già nel 1997, a Cerisiy-la-Salle, credo, forse prima ancora, il film non ne serba traccia, ma, posso testimoniarlo, la macchina era già in azione – ineluttabilmente – senza che vi facessi attenzione o senza essere avvisato).

All’improvviso [à l’improviste], ecco una strana e intraducibile chance della lingua francese. Una parola importata, all’origine, da un paese mediterraneo all’altro, da una lingua latina all’altra (improvviso9). Ma una parola oramai inesportabile. Non inesportabile, no, ma inespropriabile, intraducibile, esportabile soltanto a condizione di fare di tutto per salvar la pelle del suo idioma francese. Come la parola «d’altronde» [d’ailleurs], d’altronde, è un avverbio che sembra recare un nome nel suo corpo. Gioca una sintassi senza equivalenti all’estero. Inizio di una qualche eccezione culturale.

Per iniziare, girerei dunque, anche io, qualche parola. Attorno a qualche parola.

 

 

Note

1 Estratto da: J. Derrida, Lettres sur un aveugle. Punctum caecum, in J. Derrida e S. Fathy, Tourner les mots. Au bord d’un film, Galilée/Arte Éditions, Paris 2000, pp. 73-77. Traduzione a cura di Igor Pelgreffi.

2 Traduciamo me retourner con girarmi, per mantenere l’indecidibilità che, in queste pagine e per tutto il libro Tourner les mots, caratterizza i termini tourner e affini. Tourner les mots, cioè: girare le parole sia nel senso di filmare che di voltare [N.d.T.].

3 Fermer les yeux sur qch. vuole dire anche, in senso figurato, chiudere un occhio su qc. [N.d.T.].

4 Se laisser faire, esprime una passività totale: accettare di essere eterodiretto, ‘essere agito’, lasciarsi sopraf-fare, sino a lasciarsi violentare, ‘fare’ [N.d.T.].

5 Soufflée, soffiata, cioè: sottratta, rubata, ma anche suggerita. Questo gioco semantico era già stato uno dei centri di irradiazione logico-tematici nel saggio di Derrida ‘La parole soufflée’, apparso sul numero 20 della rivista Tel Quel nel dicembre 1965, successivamente inserito in Jacques Derrida, L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, col titolo ‘Artaud: la parole soufflée’ [N.d.T.].

6 Sogno di divorzio e di tradimento, verità d’incubo. La scorsa notte (dal 10 all’11 gennaio, nella settimana in cui rileggo queste pagine prima di consegnarle all’editore), ho un incubo. Benché giuri di dire la verità, nient’altro che la verità, se non tutta la verità, non racconterò la cosa, ma eccone la sagoma logica. Nell’incubo, e proprio questo è l’incubo, io sogno che non sono me stesso, che in verità non mi si riconosce un tale merito (al quale credo, legittimamente, di meritare di pretendere nella vita sociale). Ora un attimo dopo, nello stesso incubo e senza risveglio, la verità è riconosciuta, io sono effettivamente identificato come colui che sono. Ma, senza vero sollievo, senza la minima interruzione nel sogno, l’incubo continua, lungamente, mi tortura senza tregua, lasciando coesistere in lui queste due situazioni apparentemente incompatibili, quella che mi fa onore e quella di cui ho vergogna. Al risveglio, riconfortato a stento, mi domando se quella non sia la mia esperienza del film (onirica, divisa [partagée], sofferente, che protesta tanto contro la buona quanto contro la cattiva immagine di me). A meno che quella non sia la «verità» del film. Essa mostrerebbe la persecuzione contro la quale in verità mi difendo sempre: quella della buona come quella della cattiva immagine di me.

7 Derrida gioca con il titolo dell’opera di Marcel Duchamp La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (1915-23), La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche, opera nota anche come Grand Verre (Grande Vetro) [N.d.T.].

8 À l’improviste, all’improvviso, tiene insieme le idee di imprevisto (imprévu), cioè del ‘non visto arrivare’ e di interruzione improvvisa. Locuzione intraducibile (se non ricorrendo a neologismi, quali ‘all’imprevisto’ o ‘imprevistamente’) che, tuttavia, secondo Derrida, permette di intuire il nesso sottile fra i concetti di improvvisazione, caso e cecità (cfr. su questo punto anche J. Derrida, Tourner les mots, op. cit., p. 18-19) [N.d.T.].

9 In italiano nel testo [N.d.T.]