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La persistenza del presente

 

 

Presente: l’hic et nunc dell’appagamento

 

«L’obiettivo asintotico dei nostri sforzi odierni è la soppressione del tempo. Per quanto possa sembrare incredibile, questo obiettivo impossibile in parte è già effettivamente raggiunto. Vale a dire nella radio e nella televisione. Lì, infatti, la ricezione di ciò che è trasmesso avviene (almeno psicologicamente) nel momento stesso in cui avviene la trasmissione; e questo è un transfert che finora si era verificato solo nel parlato»1.

 

Era il 1972 quando queste riflessioni erano formulate da Günther Anders. La tecnica di riduzione del tempo e della distanza, dimostrava allora i suoi primordiali meccanismi nelle forme della radio e della televisione: ancora non esisteva la connessione globale del world-wide-web e nemmeno la gran diffusione dei telefoni cellulari; ancora non era possibile vivere costantemente online grazie all’utilizzo di social network. Eppure già allora Anders, osservando quelle antiquate forme tecnologiche, si dimostrò capace di cogliere, al di là dell’apparenza, il profondo significato del loro utilizzo. Il risultato è quanto più sorprendente, se si considera l’assoluta attualità di quelle stesse riflessioni, nate quasi quaranta anni fa.

Non si potrà certo negare che l’obiettivo primario di ogni nuova tecnologia sia proprio la riduzione del tempo: la necessità sempre crescente di essere costantemente connessi (alla rete virtuale, al mondo dei servizi) non trova forse in questo la sua piena giustificazione? Poter godere di un rapido accesso ad ogni informazione, monitorare in tempo reale affari ed impegni, superando così ogni distanza materiale.

La battaglia per la riduzione del tempo sembra dunque continuare anche in questa epoca, poiché ogni vittoria guadagnata, non sembra mai apparire soddisfacente: «perché tutto, in quanto dura, dura troppo e per questo motivo è qualche cosa che ruba tempo, dunque qualche cosa di negativo»2. Questo accadeva allora così come sembra accadere oggi, nella misura in cui persiste l’assidua necessità di ridurre il tempo al minimo, nel tentativo di eliminare finalmente ogni mediazione: distruggere il ponte che collega desiderio e appagamento, senza che il percorso necessario a raggiungerlo abbia ancora qualche durata.

Tuttavia -osservava Anders- l’effetto che si ottiene risulta scadere nell’esatto opposto: con l’abbreviarsi delle azioni, con l’abitudine all’immediata soddisfazione di ogni bisogno, l’uomo si trova a guadagnare una quantità di tempo che non sa più come investire, di cui non è più in grado di fare nulla. Accorciato il percorso dell’acquisizione, esaurita la spinta del bisogno, il tempo dunque si moltiplica alla maniera di un’Idra, durando incomparabilmente più a lungo rispetto a qualsiasi altro tempo riempito di azioni: il tempo libero, libero da necessità, libero da attività di percorso, insiste nella sua immobilità, tanto da sembrare fermo.

Così Anders descriveva i cambiamenti della temporalità per l’uomo delle nuove tecnologie, il cui sogno consisteva proprio nell’ideale di immediatezza: ridurre gli spazi intermedi tra desideri e bisogni, tra bramosia e piacere, al fine di raggiungere l’ideale utopico del paese della Cuccagna in cui «nessuna lontananza ci metterebbe di malumore; non ci sarebbe piccione che non ci volasse direttamente in bocca, frigorifero che non stesse subito nella nostra cucina, voglia di… che non si ribaltasse subito in piacere di… In breve: non ci sarebbe desideratum che per essere soddisfatto, ci richiedesse di compiere un percorso o di pazientare anche solo per un attimo»3.

Una tale situazione appare certo invidiabile a prima vista: cancellato ogni percorso che porta all’avere, ogni bisogno troverebbe immediata soddisfazione senza alcuna necessità né difficoltà di escogitare percorsi che ne medino il raggiungimento. La richiesta e l’offerta verrebbero così a sovrapporsi, garantendo all’uomo il privilegio di una diretta corrispondenza: inserito in un meccanismo che lo com-prende, egli non avrebbe che da desiderare per ottenere, e forse, potrebbe anche fare a meno del desiderio, poiché l’offerta potrebbe addirittura precedere la domanda.

Tuttavia, agli occhi di Anders, questa ingenua comodità pregiudicherebbe in modo sostanziale una condizione ontologica fondamentale dell’uomo: in una conferenza dal titolo Die Weltfremdheit des Menschen 4(tenutasi presso la Kantgesellschaft di Francoforte nel 1929) egli abbozzò le linee teoriche di un pensiero volto a considerare l’essere umano come parte estraniata di un mondo nel quale non è prescritta per lui alcuna posizione necessaria. Sarebbe dunque la totale contingenza del suo esistere a caratterizzare la sua natura: egli può trovare un senso ed un ruolo solo a posteriori, venendo al mondo come la quinta ruota del carro. Nella radicale distanza che l’uomo intrattiene nei confronti del proprio mondo e del proprio ambiente, consiste quindi la sua condanna, la mancata garanzia di una posizione specifica e pre-assegnata. Tuttavia, nella stessa contingenza che lo caratterizza, si gioca anche il suo riscatto: in quanto parte estraniata del mondo, egli non appartiene aprioristicamente ad un sistema prestabilito e, per questo motivo, può (e deve) costituire da sé il proprio destino, riabilitare la contingenza in possibilità di essere, capacità di articolazione, libera progettazione del proprio futuro.

Risulta di fondamentale importanza, dunque, sottolineare come, nella prospettiva andersiana, sia proprio questa originaria estraneazione (intesa come distanza, contingenza, alterità) a definire in maniera imprescindibile ogni possibile libertà per l’uomo, libertà intesa come

«Niente di trascendentale, niente di morale. […] Essa esprime il fatto dell’individuazione, o, meglio della dividuazione. Cioè il fatto che un essere determinato (l’uomo) possieda il suo essere in una guisa relativamente autonoma e del tutto peculiare, distaccato com’è dall’essere nella sua totalità. Libertà sempre relativa nella misura in cui traduce la negazione di un determinato coefficiente di integrazione»5.

 

Il costitutivo distacco dal mondo (dal sistema che comprende e definisce) caratterizzerebbe così l’essere umano, determinandone l’essenza. Dal fatto stesso della lontananza, deriva dunque la necessità di colmare il vuoto dell’assenza, di cui il desiderio ed il bisogno sono testimonianza. Questo è un tratto fondamentale delle riflessioni antropologiche di Anders, per il quale sono proprio i concetti di contingenza, indeterminatezza e limite ontico a definire l’uomo.

E proprio in questi termini verrebbe a delinearsi il decisivo allontanamento dalla filosofia di Heidegger, suo antico maestro, nei confronti del quale Anders arriva a formulare forti critiche6: nonostante le premesse esistenziali e l’intenzione di offrire una maggior attinenza al mondo reale, Heidegger viene accusato di rimanere ancorato ad una pseudo-concretezza che caratterizzerebbe la sua filosofia come estetismo dell’inazione. Secondo Anders, infatti, l’esserci resta ben lontano dall’essere concreto, e questo proprio perché Heidegger da un lato nega che abbia qualità divine, dall’altro non analizza le condizioni di necessità che lo spingono al commercio col mondo7: «La posizione di Anders è netta: ciò che definisce la finitezza dell’essere è la fame, ed è sempre la fame a costituire il perno della cura. Heidegger invece gira intorno alla questione e la fa facile»8.

«La verità è che l’esserci è cura perché è fame»9argomenta Anders, formulando nei confronti di Heidegger una critica materialisticaall’ontologia esistenziale: evitando una filosofia dei corpi10, egli sembrerebbe dimenticare che l’uomo è caratterizzato da bisogni e desideri che richiedono, di volta in volta, di essere soddisfatti ed il fatto della cura (della relazione che l’essere si trova a dover intrattenere col mondo) ne dimostrerebbe proprio i limiti ontici.

In questo modo si rivela l’intenzione di Anders di correlare tra loro l’essere accidentale dell’uomo (il suo essere indeterminato e onticamente limitato), la cura (che nella filosofia di Anders arriverà ad assumere i toni del bisogno, della mancanza, della necessità) ed una filosofia del tempo:

 

«Solo se si rettifica la cura, che è estremamente equivoca, e la si trasforma in bisogno, diventa di colpo univoco anche il problema del tempo in Essere e Tempo, che ad onta delle profondità dell’indagine restava tuttavia un problema oscuro. Il libro di Heidegger, in effetti, non chiarisce se è l’esserci che si “fonda” nel tempo o il tempo nell’esserci. Ma alla fine ci si imbatte appunto nella formula per cui “la cura si fonda nella temporalità”. È vero il contrario: è il bisogno che fonda il tempo»11.

 

Sono dunque questi i presupposti che conducono Anders ad un’analisi genealogica del tempo fondata sul fatto del bisogno: «il tempo emerge come durata, come vuoto, come spazio intermedio qualora, e solo qualora gli obiettivi non sono ancora stati raggiunti; solo finché, come desiderata, restano lontani»12. Solo così il tempo si manifesta come estensione, percorso che porta all’avere: esiste solo finché il soggetto è un essere bisognoso, ovvero finché esperisce la necessità di pro-cacciarsi il cibo, di correre dietro alla preda. Ed, infatti, a caratterizzare il tempo non sono quelle attività che consentono una fornitura diretta (l’immediato esaurirsi dello scopo nell’esempio del tempo libero), ma solo quelle che impongono di eliminare una distanza. Insieme al tempo, infatti, anche lo spaziorisulta legato alla condizione di separazione, alla lontananza che il soggetto deve saper colmare per raggiungere la soddisfazione: l’hic et nunc dell’appagamento. È questa, infatti, la dimensione del presente, unico momento in cui ogni tensione, desiderio e bisogno si acquieta, placando temporaneamente lo scorrere del tempo: «Una volta che l’oggetto di cui si ha bisogno è raggiunto, il tempo cessa di scorrere: il bambino soddisfatto dorme ed è fuori dal tempo, per chi è felice il tempo non c’è»13. Per esser-ci l’uomo deve incorporarsi il mondo, e questo significa che per lui non è tanto primario l’orizzonte del rappresentare [Vor-stellen] quanto piuttosto quello del perseguire [Nach-stellen]14, ovvero di porsi dietro la fame, la mancanza, il bisogno. In quanto lontano dal suo cibo l’essere vivente deve dare la caccia all’oggetto desiderato, deve coprire così una certa estensione affinché l’oggetto del desiderio sia presente ed il bisogno acquietato:

 

«Quando nell’ora il bisogno è soddisfatto cessa anche il tempo, che originariamente non è un continuum ma per così dire prorompe solo in attacchi acuti e dura soltanto quanto la caccia stessa. Con il sonno dopo il pasto dorme anche il tempo. Ciò vuol dire che il tempo è la via per procurarsi il fabbisogno»15.

 

Tuttavia il presente è destinato ad essere, per sua natura, effimero, e questo proprio a causa della naturale condizione dell’essere umano, del suo essere esistenzialmente in-appagato, in-soddisfatto, in-completo: in-determinato. Così nella filosofia andersiana, il difetto ontico definisce l’uomo essenzialmente, non solo come essere spazio-temporale, ma anche nei termini di un’antropologia negativa: una prospettiva di antropologia filosofica che muove dalla consapevole in-determinatezza dell’essere umano e dalla conseguente impossibilità di raggiungere una definizione della sua natura. La stessa in-determinatezza è anche causa del suo non essere per nulla coestensivo col mondo. Allo stesso tempo, però, essa funge da garanzia di libertà dalle maglie di qualsiasi sistema precostituto: non essendo tagliato per nulla di preciso, egli può -e deve- creare da sé il proprio spazio nel mondo, riabilitando la sua distanza tramite l’attività e la prassi.

Il destino dell’umana battaglia per l’abolizione del tempo sembra dunque essere inscritto in questa sua natura: a partire dall’insufficienza ontica l’uomo cerca di raggiungere l’acquietamento offerto dall’ hict et nunc, placare i morsi della fame rendendo il cibo presente. Lo stesso sembra dunque valere per quello che emergerebbe come fine della tecnica: essa si porrebbe dunque lo scopo di colmare il vuoto, ridurre la distanza attraverso la mediazione, istituendosi come ponte tra desiderio ed appagamento. Anche Anders sembra ribadirlo, sottolineando come «l’artificialità è la natura dell’uomo». Però poi subito aggiunge «E la sua essenza è l’instabilità»16.

Cosa definisce questa piccola aggiunta?

In realtà qualche cosa di molto importante: come già è emerso, infatti, nella distanza sta proprio la cifra della libertà, nella separazione l’autonomia della scelta, nell’instabilità la capacità di articolazione. Cosa accadrebbe se il desiderio tanto caratteristico della contemporaneità si realizzasse? Cosa succederebbe ontologicamente a quell’essere che vantasse davvero il privilegio di vivere nel paese della Cuccagna, in una dimensione in cui fosse annullato lo spazio ed il tempo tra esigenza ed appagamento, in cui i piccioni potessero volare direttamente in bocca, annullando così ogni percorso ed ogni ostacolo? L’assoluta autarchia, la libertà di non dover rendere presente, hic et nunc, l’appagamento non lo renderebbero forse un essere fuori dal tempo17 e, così detemporalizzato, non arriverebbero infine a minare la sua stessa libertà?

Eppure, non si può certo negare che sia proprio questo il fine ultimo della tecnica contemporanea.

 

 

Essere senza Tempo

 

Anders mette in scena gli atti di una vita così ridotta, nell’analisi dell’opera teatrale di Beckett Aspettando Godot: «si tratta di una parabola»18osserva e, come tutte le parabole, essa ubbidisce al meccanismo dell’inversione: scambiando soggetto e predicato ottiene un divertente effetto di distacco che Beckett utilizza in maniera assai raffinata:

 

«Per raccontare la favola di quell’esistenza che non conosce più forma o principio, in cui la vita non sa più come andare avanti, egli distrugge la forma ed il principio della favola: ossia la favola distrutta, che non va avanti, diventa la favola adatta a illustrare la vita che non va avanti»19.

 

E se la vita non va vanti, se il presente persiste, è perché a persistere è proprio il desiderio di stabilità, l’intenzione di colmare quella carenza ontica dell’uomo, fermare definitivamente l’oscillazione del bisogno. Questa sembra, infatti, essere la conquista promessa dai richiami sirenici della tecnica contemporanea20, volontà che manifesta il bisogno umano (troppo umano?) di superare completamente la naturale indeterminatezza e propensione all’instabilità; desiderio che manca, tuttavia, di un’onesta consapevolezza del sacrificio che questo comporterebbe.

Non è infatti l’inclinazione alla tecnica ad essere criticata da Anders, il quale la considera necessaria per quell’uomo che, nato senza funzione specifica 21, si trova a disporre dell’artificio come suo unico mezzo di sopravvivenza. Ciò che diviene oggetto di critica è piuttosto il fine che, attraverso la tecnica, questi sembra voler raggiungere con ostentata superficialità: la volontà, carica di hýbris, di eliminare drasticamente il percorso, istituendo un ponte diretto tra avidità e soddisfazione, desiderio ed appagamento, partenza ed arrivo. L’ingenuità di questo comportamento non lascia spazio a considerazioni più profonde rispetto all’ambizione di raggiungere una condizione in cui nulla è assente, in cui c’è tutto.

Il paese della Cuccagna, infatti, propone un risvolto del tutto inaspettato nella commedia di Godot, che si mostra così incongruente, poiché l’incongruenza è il suo argomento, e si concede il lusso di non raccontare un’azione, poiché tratta della vita che non agisce. Essa si arroga il diritto di non offrire più una storia, poiché mette in scena l’uomo senza storia: Estragon e Vladimir sono personaggi avulsi, pigri e paralizzati, così come lo è quell’uomo privo di progettualità. Essi non hanno più nulla da fare, poiché tutto è già dato, restituito all’immediatezza che annulla il tempo e lo spazio e con questi l’attiva articolazione di un percorso. L’unico residuo di attività che sembra loro rimasto consiste nel continuare, continuare ad aspettare Godot: «Restiamo -sembrano dire- dunque aspettiamo. Aspettiamo. Dunque abbiamo qualche cosa da aspettare»22. La vita diviene così un banale modo di passare il tempo, escogitare giochi e stratagemmi utili a metter in moto la stazionaria poltiglia di un tempo ormai paralizzato. Questi giochi non possono che risultare effimeri, tuttavia, nella loro inefficacia, poiché l’azione risulta così drasticamente paralizzata e con essa anche qualsiasi possibile forma di libertà.

Che l’azione, o meglio, la capacità di articolare costruttivamente l’azione, sia prova di libertà, è un motivo ricorrente all’interno di tutta la filosofia andersiana: infatti, per quell’essere non compreso preventivamente in un ambiente specifico, la possibilità di edificare a posteriori un mondo autentico in cui potersi identificare, è l’unico modo per riscattare quella vuota genericità di cui è costituito.

Qui si pone un altro importante punto distacco nei confronti della filosofia di Heidegger: abbiamo mostrato come Anders considerasse ambiguo il concetto di cura finché questo non fosse correlato all’idea di finitezza dell’esserci, ovvero al suo essere bisognoso di mondo, al suo avere fame di mondo. Solo a partire da questo presupposto, infatti, assumerebbe significato quel commercio col mondo che, attraverso la cura, egli si troverebbe ad istituire. Lo stesso principio vale ora per l’idea di fondazione: secondo Anders l’esserci heideggeriano (rispetto a cui non viene mai riconosciuta alcuna specificazione né alcun limite ontico23) non si trova più nella condizione di dover costituire un suo mondo ma solo se stesso, se stesso come autentico nel mondo. In questo modo il suo costruirsi e rendersi responsabile si realizza in un ambito esclusivamente privato, soverchiando la necessità di una fondazione positiva del mondo intesa come attiva istituzione di una società da parte dei soggetti. Se Heidegger viene definito esteta dell’inazione24, è proprio perchè Anders non vede nella sua filosofia dell'esistenza alcun imperativo categorico capace del monitoagisci!” o “fai!”; essa si limiterebbe piuttosto al semplice “sii stesso!25una prescrizione innocua, cui la vita può obbedire anche restando seduti alla scrivania»26). Così facendo egli renderebbe in-attiva qualsiasi relazione che l’esserci intrattiene con il mondo, proprio perché, a queste condizioni, questa può configurarsi esclusivamente come relazione univoca tra un soggetto -del tutto asociale- ed un mondo -privo di ambiti di relazione-. Senza la necessità (pratica, ma anche morale 27) di creare il proprio mondo, risulta dunque appiattita anche quella libertà che sottostà ad ogni atto di fondazione.

Nell’ottica di Anders, infatti, la capacità di immaginare un futuro che ancora non c’è ma è da costituire (ovvero la capacità di pres-agire), rappresenta già un indizio di libertà. Tuttavia, è solo rendendo effettiva quell’immagine aleatoria che la libertà per l’uomo diviene effettiva: questo avviene solo grazie ad una compiuta articolazione dell’agire, di «quell’azione attraverso la quale l’uomo di fatto si definisce continuamente e determina quello che è in ogni occasione»28. In questo dunque si consolida il valore dell’azione non compreso nella filosofia heideggeriana: nella possibilità per l’uomo di fondare un mondo autentico definendo, proprio in questo atto, anche la propria autenticità.

In questa prospettiva, saranno le dimensioni del condizionale e del futuro ad offrire l’apertura e l’indeterminatezza necessarie per un’azione così costituita. Un futuro che non si proietti come reiterazione del passato -sterile ripetizione dell’identico- ma si presenti come terreno di astrazione, luogo in cui articolare progetti (frutto della facoltà di immaginazione) che rappresentino per l’uomo la possibilità di sottrarsi al presente, alla contingenza del suo essere qui ed ora. La libertà risulta dunque direttamente proporzionale alla capacità di consolidare nel futuro (come luogo e prospettiva di fondazione) il frutto delle proprie astrazioni.

Non stupisce perciò il fatto che, ciò che resta da fare ai personaggi di Backett, siano solo delle vane azioni, vuote finzioni, atti posticci che si allontanano dal vero agire, cancellando così anche ogni valore esistenziale del tempo. L’attesa, il continuare rappresentano solo un misero surrogato dell’azione per quell’uomo che, libero da bisogni, è ormai avulso dalla dimensione temporale, incapace di pro-gettarsi, astrarsi, affrancarsi dall’ hic et nunc del presente.

Questo segna evidentemente un grave limite: la stessa decisione di non continuare resta già esclusa ai due personaggi, giacché presupporrebbe quella libertà, quella capacità di rappresentazione (di rappresentarsi al di là di questi stessi hic et nunc) che è loro preclusa. La persistenza del tempo risulta così sintomo di una perduta confidenza con la potenzialità, con la possibilità o ipoteticità del futuro, il quale, nella mera stazionarietà, non potrà che essere percepito come garanzia -ed ingenuo conforto- del ritorno dell’identico. Viene così abbandonata ogni abitudine alla pianificazione e volontà di raggiungere nuovi obiettivi:

«Perchè il tempo procede solo per quella vita che persegue essa stessa uno scopo e si dirige verso qualche cosa. Ed è proprio questo che la vita degli Estragon e degli Vladimir non fa più. Perciò la commedia di Beckett ha ragione di segnare il passo; perciò gli avvenimenti ed i discorsi cominciano a muoversi in circolo (come le comparse teatrali che escono di scena da sinistra e rientrano da destra per rappresentare passanti che si presumono sempre diversi); prima e dopo diventano come destra e sinistra, dunque temporalmente neutrali; dopo un poco il circolo diventa stazionario, il tempo sembra fermarsi e, se è consentito richiamasi alla cattiva infinità di Hegel, diventa cattiva eternità»29 .

 

Il totale superamento dell’instabilità, che l’umana condizione di indeterminatezza comporta, non può dunque avvenire senza gravi danni. Questa atrofizzazione della capacità di astrazione infatti, è la premessa della perdita di libertà30. L’impossibilità di affrancarsi dall’esistente testimonia l’avvento di un consistente margine di integrazione: pur essendo questo finalizzato all’adattamento nella riduzione del rischio e dell’imprevisto, esiste evidentemente un limite, superato il quale, l’integrazione inizia a mostrarsi come svantaggio.

«Chi pianifica, confronta possibilità, approfitta delle opportunità, affronta dei rischi, utilizza dei mezzi per degli scopi, vive costantemente nel “se”, […] ha familiarità con la potenzialità e l’alea. Ma quanto più un’esistenza umana è determinata da altri, quanto più ermeticamente è isolata dagli altri contro l’imprevisto, tanto più si atrofizza il “se”»31.

Nella superficialità del desiderio di eliminare la dimensione dell’instabilità e dell'incertezza, l’uomo non sembra realizzare come l’articolazione temporale possa raggiungere una drastica semplificazione, i cui risvolti hanno del tragico: per paura dell’alea legata alla possibilità, il condizionale svanisce mentre, nel timore del cambiamento, il futuro si appiattisce nella misera iterazione dell’identico 32. Il presente così persiste con la sua incombenza, ac-cadendo più non cade, non cede cioè il passo all’avvento del nuovo e, ripiegandosi su se stesso, si chiude verso il passato completando il circolo vizioso33. L’attesa diviene dunque il simbolo di questa perversione temporale: nel continuare per forza di inerzia -come misero residuo di una prassi ormai scomparsa- si nasconde la vana aspettativa, l’evidente auto illusione della possibilità di poter ancora giustificare la propria immobilità. In realtà i due personaggi non aspettano proprio nulla: «Godot non è che il nome del fatto che l’esistenza che continua senza senso crede erroneamente di essere un’ ”aspettativa”, un’ “aspettativa di qualche cosa”»34.

La riduzione del significato esistenziale che le forme di tempo e spazio sembrano assumere risulta così drastica da portare l’uomo ai limiti di una tragica condizione di essere senza tempo.

 

Il valore della distanza

 

Quella stessa distanza che allontana l’uomo dalla facilità di un mondo che comodamente con-viene si dimostra dunque essere il presupposto fondamentale per lo sviluppo di un significato esistenziale delle forme di spazio e tempo.

Un ambiente che, nel suo essere preventivamente arrangiato, garantisca la piena soddisfazione di ogni necessità, priverebbe infatti l’uomo della possibilità di un’autonoma articolazione, paralizzando le sue capacità progettuali in una sterile con-venienza con il mondo. Senza lo stimolo della ricerca di qualcosa d’altro, senza spazi da riempire e vuoti da colmare, l’uomo perderebbe l’intera articolazione spazio temporale del suo esistere. È infatti in virtù di quella stessa mancanza, di quell’in-completezza testimoniata dal bisogno, che il tempo e lo spazio si concretizzano in percorsi capaci di riempire il vuoto:

«Siamo destinati alla mediazione e condannati a compiere percorsi, a ricercare la soddisfazione dei nostri bisogni col sudore della fronte, meritandocela col lavoro o con l’attesa. Ma i percorsi sono percorsi perché c’è lo spazio. E richiedono tempo. In quanto soggetti al bisogno, noi siamo dunque essere spazio temporali»35.

Solo in quanto soggetto al bisogno, dunque,l’uomo può essere definito un essere spazio temporale: vivere il mondo come ricerca, tensione verso la meta, continuo tentativo di recuperare la distanza, significa infatti saper articolare quelle stesse forme del se che definiscono la potenzialità e l'alea. Nell’insoddisfazione di un mondo che non appaga le sue necessità, l’uomo articola un percorso e, spinto da una mancanza, concretizza in azione il superamento dell’hic et nunc di un presente incapace di soddisfarlo.

La possibilità di istituire una distanza tra desiderio ed appagamento dimostra così l’effettiva libertà che ancora è concessa all’uomo.

E proprio rispetto alla volontà di eliminare completamente quella distanza, di raggiungere una definitiva completezza Anders obbliga a riflettere, chiedendo fino a che punto sia lecito -e vantaggioso per l’uomo- annullare la schiavitù dal bisogno e la condanna della mediazione.

La continua alternanza tra desiderio ed appagamento, infatti, sebbene sia prova di un’effettiva incompletezza, si dimostra essere garanzia per una libera edificazione dell’esistenza umana. Quella stessa distanza, testimoniata dall’effetto di resistenza che il mondo manifesta all’uomo, è così segno inconfutabile di un’effettiva esperienza, partecipazione attiva e prova di un proficuo utilizzo delle facoltà di giudizio poiché

«non afferriamo la pillola che liscia, scivola giù senza resistenza; afferriamo invece il pezzo di carne che dobbiamo prima masticare. Ma il mondo che “penetra facilmente” somiglia alla pillola. Oppure, per servirci di un’altra immagine: si rende troppo facile […] è troppo premuroso, e nel momento stesso in cui si presenta si è già concesso, quindi non arriviamo nemmeno a “prenderlo” propriamente; e tanto meno a dover mettere dell’impegno per afferrarlo o afferrarne il senso»36.

Risulta dunque fondamentale metter in evidenza il carattere di resistenza e distanza del mondo: questo si presenta non solo come condizione primaria per l’articolazione delle forme di spazio e tempo, ma, garantendo un effettivo distacco tra il soggetto ed il suo ambiente, esso condiziona anche ogni possibile capacità di analisi, interpretazione e giudizio. Solo nella separazione tra soggetto ed oggetto risulta infatti plausibile ogni tentativo di conoscenza e comprensione.

Cosa resterebbe mai da comprendere nell’identità di un soggetto che semplicemente già coincide con il suo oggetto, già con-viene con il suo mondo? Cosa resterebbe da scoprire in un mondo che è già semplicemente coestensivo rispetto al soggetto, banalmente identico e per questo per nulla problematico?

Sicuramente una siffatta condizione potrebbe lusingare per la facilità e comodità che promette. Ma il filosofo attento non si lascia lusingare così facilmente: capirebbe subito come una totale mancanza di resistenza impedisca al soggetto di afferrare veramente il mondo, di interpretarlo e quindi comprenderlo. Mettere in pausa le facoltà di giudizio, per il filosofo attento, non suonerebbe come una lusinga, piuttosto come una condanna.

Nel corso della storia la tecnica si è sempre caratterizzata come il tentativo, sempre rinnovato, di ridurre al minimo la frizione tra uomo e mondo, assottigliare le difficoltà incombenti avvicinando il soggetto ad una maggiore affinità con il suo ambiente. Alla luce delle riflessioni che sono state fatte però, quanto può essere considerata vantaggiosa una tale pratica, se applicata senza una chiara consapevolezza del valore della distanza, e dunque senza presa di coscienza dei limiti che, in questo, dovrebbero essere rispettati? La possibilità di immediatezza,la lusinga di eliminare ogni percorso e mediazione, nasconde dietro di sé un’amara condizione: con il percorso vengono inevitabilmente meno anche le forme di spazio e tempo e, con queste, collassa tragicamente anche ogni capacità di giudizio che il soggetto può esercitare nei confronti di un mondo già preventivamente arrangiato. Svanisce così anche ogni possibile forma di comprensione o esercizio di interpretazione: «come non possiamo cuocere e tagliare a casa il pane già cotto ed affettato, così non possiamo arrangiare ideologicamente di bel nuovo o interpretare gli avvenimenti che ci pervengono già ideologicamente pretagliati, preinterpretati ed arrangiati»37.

Se nelle facili promesse offerte dalla tecnica l’uomo cerca conforto dall’instabile distanza che caratterizza il suo rapporto col mondo, tuttavia è solo in quel costitutivo distacco che risiede per lui la possibilità di un’autentica fondazione del proprio esistere. Solo nella duttilità che l’assenza di forma specifica comporta, egli può riscoprire la capacità di modellare da sé il proprio essere, nominarsi soggetto attivo del proprio destino ed edificare, infine, il proprio mondo.

Proprio per questo, dunque, il soggetto deve costantemente impegnarsi a mantenere attive le forme di spazio e tempo: accomodandosi sulle lusinghe della tecnica l’articolazione del futuro e del condizionale si assottiglierebbe ripiegandosi nella comodità di un presente scontato, e fin troppo garantito. Attraverso una continua manovra di pre-occupazione, il soggetto -al pari di Estragon e Vladimir- sarebbe condotto per mano a tal punto che ogni possibile fare diventerebbe per lui una mera variante della passività, lontana da qualsiasi agire storico-progettuale possibile.

In questo potremmo dunque scoprire l’eredità lasciataci da Anders, nel severo e continuo monito all’articolazione: articolazione delle forme di tempo e spazio; articolazione delle facoltà di giudizio; articolazione di quella distanza che separa l’uomo da un sistema precostituito; articolazione pratica nell’edificazione di un mondo autentico.

Articolazione proprio perché l’uomo «è tanto articolato quanto egli stesso articola, e tanto inarticolato quanto non articola»38.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

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S.Velotti, Gli estremi rimedi di Günther Anders, in “Lo straniero”, 34, 2003.

S.Velotti, L’antropologia di G.Anders e l’ambivalenza delle immagini, in “Discipline filosofiche”, Quodlibet, anno XVIII, numero 2, 2008.

U.Galimberti, Psiche e Techne: L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2005.

 

 

 

1G.Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Band II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, Beck, München 1980, trad. it. L’uomo è antiquato, vol II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Tornino 2005, [d’ora in poi UA II], p. 322. L’articolo fu originariamente pubblicato nella rivista Scheidewege, (Gennaio 1972, n.3) col titolo Die Antiquietheit von Raum und Zeit.

2UA II, p. 324.

3UA II, p. 312.

4Il testo della conferenza venne ritrovato, sotto forma di manoscritto in lingua tedesca, tra le carte di Anders dopo la sua morte (1992) ma resta tuttora inedito. Ne esiste però una versione francese, pubblicata tra il 1934 ed il 1936 in forma di due saggi: Une interprétation de l'a posteriori” (in «Recherches Philosophiques» 4, 1934-35, pp. 65-80) e “Pathologie de la Liberté”.Essai sur la non-identification (in «Recherches Philosophiques» 6, 1936-37, pp. 22-54). Entrambi i testi sono disponibili in edizione italiana nel volume: G.Anders, Patologie della libertà, Saggio sulla non-identificazione, Palomar, Bari, 1993.

5G.Anders, Patologie della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Palomar, Bari, 1993p. 37.

6I riferimenti alla filosofia dell’esistenza heideggeriana sono rintracciabili all’interno di tutta l’opera andersiana e, per lo più, costituiti da brevi incisi o concentrati in note. Gli unici testi effettivamente indirizzati ad una più approfondita analisi critica, risultano essere due saggi degli anni quaranta: G. Anders-Stern, Nihilismus und Existenz, in “Die Neue Rundschau” 5, 1946, tr. it. Nichilismo ed esistenza, in Micromega, 2/88, Roma; e G.Anders-Stern, On the pseudo concreteness of Heidegger Philosophy, in “Philosophy and Phenomenological Research“ 8, June 1948, trad. it. Heidegger esteta dell’inazione, in AAVV, Su Heidegger, cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998. Come è stato osservato da Stefano Velotti «Una serie di motivi teoretici, politici, morali e, non è da escludere, personali giustificano i numerosi riferimenti polemici nei confronti di Heidegger il cui pensiero costituisce comunque uno sfondo imprescindibile per quello di Anders». (S. Velotti, L’antropologia di G. Anders e l’ambivalenza delle immagini, in “Discipline filosofiche”,Quodlibet, anno XVIII, n. 2, 2008, riferimento a nota 1, p. 100). Per ulteriori approfondimenti si prenda in considerazione: G. Anders, Über Heidegger, a cura di G. Oberschlick, Beck, München 2001.

7Cfr: «La semplice domanda sul perché l’esserci si getti in tutte le sue occupazioni dominate dalla “cura”, perché si affanni giorno e notte, questa domanda che riguarda non già la condizione di possibilità (Bedingung der Moglickheit), ma a condizione di necessità (Bedingung der Notigkeit) (della cura) è semplicemente tralasciata. E non c’è da meravigliarsene, perché questa domanda avrebbe condotto Heidegger dall’analisi, cosìdetta concreta, del commercio pratico con il mondo, ad un’analisi della fame e del desiderio e quindi a quei problemi che si connettono con il materialismo. […] Con ciò lascia la sua architettura priva di fondamenta, perché la fame o il desiderio, nel senso più ampio, la dipendenza dal mondo, l’essere affamati di mondo è ciò che in realtà definisce la finitezza dell’esserci». G.Anders-Stern, Heidegger esteta dell’inazione, in AAVV, Su Heidegger, cinque voci ebraiche, Donzelli, Roma 1998, p. 33-34.

8M. Latini, Antropologia negativa e dialettica negativa. Su Adorno e Anders, in Mariannina Failla (ed.), La “Dialettica negativa” di Adorno, Manifesto libri, Roma, 2008. pp. 147-148.

9Cfr: «Non vi è da nessuna parte il benché minimo accenno -ancora una volta nonostante la “cura”- al fatto che la condizione di possibilità dell’essere “ontologico” da parte dell’uomo potrebbe risiedere nella sua condizione ontica, o più propriamente, nel suo difetto ontico. Da nessuna parte si fa accenno al fatto che l’esserci ha (o è) un corpo; o che ha, come è stato detto in più di duemila anni di filosofia, una duplice natura. Su tutto ciò Heidegger sorvola in silenzio, nonostante la sua vicinanza alle teorie naturalistiche». G. Anders, Heidegger esteta dell’inazione, p. 37.

1010G. Anders, Heidegger esteta dell’inazione, p. 36.

11G. Anders-Stern, Nichilismo ed esistenza, in Micromega, 2/88, Roma,p.204.

12UA II, p. 319.

13G. Anders, Heidegger esteta dell’inazione, p. 36.

14Cfr: «Il tempo non è dunque “forma dell’intuizione” e neppure forma della “rappresentazione” [Vorstellung] bensì forma della “persecuzione” [Nachstellung]. Forma della nostra vita che prosegue mentre la preda che stiamo inseguendo resta lontana e si sottrae o addirittura ci sfugge, finché infine non l’abbiamo acchiappata e resa presente per noi, e ci siamo saziati di lei». UA II p. 319.

15G. Anders-Stern, Nichilismo ed esistenza, p.204.

16G.Anders, Patologie della libertà, Saggio sulla non-identificazione, p. 55.

17Cfr: «Così come solo chi non è sazio ha fame (perché non ha il cibo che di fatto dovrebbe avere per essere) allo stesso modo solo chi non è sazio ha tempo. Al contrario, le ore non suonano per chi è felice, per chi è in presenza di ciò che gli è necessario, per chi è soddisfatto. Costui è senza tempo». UA II p. 319.

18G.Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Band I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Beck, München 1956, trad. it. L’uomo è antiquato, vol I: considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, [d’ora in poi UA I], p.230.

19ivi.

20Per un confronto delle riflessioni andersiane rispetto dibattito contemporaneo sulla tecnica si prenda in considerazione il testo di R.Nacci, Pensare la tecnica, Laterza, Roma-Bari 2000.

21Cfr: «[…] Il fatto che l’uomo non è un essere fisso, cioè che l’uomo non ha una natura definita e vincolante; per esprimerci positivamente: la sua continua autoproduzione, la sua ininterrotta trasformazione storica rende impossibile determinare che cosa in lui vada considerato naturale e che cosa innaturale. Già l’alternativa è errata. Artificialità è la natura dell’uomo». UA I, p. 316. Interessante risulta osservare come la tecnica contemporanea -con l’intenzione di promuovere un definitivo adattamento- nelle sue estreme conseguenze arrivi proprio a minare queste naturali propensioni umane di trasformazione e cambiamento. Estragon e Vladimir risultano così rappresentativi di quell’uomo che sembra aver perduto la capacità plastica di trasformazione ed evoluzione.

22UA I, p. 233.

23Cfr: «L’esserci non ha genitori, perché è gettato; esso non si specifica in sessi; non continua a procreare; non ha corpo. Non è dominato e non domina; è apolitico; non conosce diritti né doveri; né natura né civiltà; non gioisce; non ama nulla e nessuno; non solidarizza con nessun gruppo; non ha amici; insomma è un essere amputato, senza speranza che non può rispondere alle domande effettive, ossia alle difficoltà reali della nostra esistenza per il semplice fatto che tali domande non se le pone neanche». G. Anders-Stern, Nichilismo ed esistenza, p.193.

24Occorre precisare che il titolo originale del saggio, in cui venne originariamente formulata questa tesi, è Sulla pesudo concretezza della filosofia di Heidegger e che il suo esser esteta dell’inazione emerge quindi come critica e postulato della pseudo-concretezza. Cfr: «[…]nonostante il suo pathos fortemente anti-estetico, esso si conclude in un fenomeno puramente estetico. Se la sua filosofia genera l’impressione di essere enormemente attivistica, se la filosofia sembra ritrasformata in vita attiva, questa non è che mera apparenza, giacché, attività filosofica a parte, non c’è nulla a cui l’esistenza sia legata e nulla a cui essa sia chiamata. La sua filosofia è attiva perchè tutta l’azione è diventata filosofia». G. Anders, Heidegger esteta dell’inazione, p. 46.

25G. Anders, Heidegger esteta dell’inazione, p. 45.

26ivi.

27Proprio a partire da questa prospettiva risulta comprensibile l’accanimento di Anders nei confronti delle scelte politiche di Heidegger, che aderì al nazionalsocialismo nel 1933. Questo fatto venne interpretato da Anders come l’inevitabile risultato di una filosofia che si limitò ad analizzare un soggetto concepito come autarchico e per nulla relazionato con alcun ambiente sociale, per questo motivo, dunque, del tutto a se stante anche da un punto di vista morale. Cfr: «Ed ecco come sono finiti i grandi ideali di libertà e di autonomia alla vigilia della distruzione delle libertà civili da parte di Hitler. Quello che era stato il soggetto attivo, rinuncia ora all’azione, al mondo nel quale potrebbe agire, al diritto delle genti, all’uguaglianza dei diritti delle persone; egli convoglia appassionatamente tutta la sua energia sull’interiorità e trasforma la sua forza nella forza di battezzare e giustificare se stesso». G. Anders-Stern, Nichilismo ed esistenza, p.197.

28G.Anders, Patologie della libertà. Saggio sulla non-identificazione, p. 95.

29UA I, p. 236.

30Cfr: «Astrarre dall’esistenza di una cosa significa esserne indipendenti, non farne parte integrante per quanto riguarda il proprio essere, esserne liberi. […] Se l’uomo è capace di separare nel pensiero l’esistenza dall’essenza cioè se è in grado di formarsi delle idee e delle astrazioni, lo si deve al fatto che la sua esistenza è indipendente e libera nei confronti dell’esistenza e della non esistenza di un oggetto determinato». G. Anders-Stern, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, pp. 46-47.

31G.Anders, Lieben Gestern. Notizen zur Geschichte des Fühlens, Beck, München 1986, trad. it. Amare ieri. Appunti sulla storia della sensibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 67.

32Cfr: «La ripetizione non ha luogo che per la vita che continua, essa si costituisce, quindi, come permanenza del suo arresto. Essa rappresenta sempre la negazione specifica della vita che si realizza nel tempo.[…] Come iterazione dell’identico, “movimento opposto al ricordo”, la ripetizione è, dunque, il principio della neutralizzazione del tempo storico all’interno di una vita che può, persino oltre la storicità, proseguire il suo corso ». G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, p. 79.

33Cfr: «L’uomo affonda in un presente onnivoro che tutto fagocita, generando incapacità di conservare il passato e di orientare il futuro. […] La mancanza di orientamento, il vuoto dell’ideologia, il divenire superfluo dell’uomo stesso hanno a che fare con la progressiva saturazione dello spazio, con il soffocamento che il passato esercita sulla vita presente e con la dissociazione del futuro». P.Portinaro, Il principio disperazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 85.

34UA I, p. 233.

35 UA II, p. 312.

36 UA II, p. 213.

37 UA I, p. 211.

38 UA I, p. 132.