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Félix Duque e Alain Badiou

Incontri/scontri dialettici a partire da Hegel. (*)

 

 

 

1. Duque, Badiou e la Logica hegeliana

Per cominciare, è opportuno partire dai passi hegeliani frequentati dai due autori, che danno luogo a due interpretazioni per molti aspetti divergenti ma anche, sotto taluni altri, sorprendentemente consonanti.

In un saggio del 1992, El desarrollo del derecho abstracto y su lógica, Félix Duque intraprende un’analisi del rapporto tra la Scienza della logica e la Filosofia del diritto che è di notevole interesse per chiarire il senso del parallelismo con Alain Badiou. Come chiarisce Duque,

il risultato dell’operatività delle funzioni logiche nel territorio reale fonda allo stesso tempo sia questo territorio che il proprio ambito della Scienza della logica, la quale è per questo intelligibile solo dopo aver compreso le parti reali del sistema, dalle quali procede geneticamente, sebbene le preceda ontologicamente. (Duque 1992: 64) 1

La Logica, in altre parole, serve per «anticipare», «presentire» ciò che è futuro; per Duque, la vera «logica» hegeliana sta nel mondo e serve perché lo spirito «legga nel mondo». Chi abbia una certa familiarità con l’opera di Badiou vedrà che, in fondo, ciò che l’autore francese dice della Scienza della logica hegeliana non è molto distante dall’analisi di Duque e coglie un punto problematico della riflessione hegeliana: il passaggio dalla Logica dell’essere a quella dell’essenza. Il punto di partenza della lettura di Badiou deve infatti essere ritrovato, a nostro avviso, nella sua Théorie du sujet (1982). E qui, a ben vedere, il parallelismo con la lettura di Duque è ancora più evidente che nelle opere successive – e più note – dell’autore.

Badiou ritrova, nella Logica hegeliana, un punto problematico: la concezione della dialettica come divisione:

Ci sono vari tipi di contorsione in Hegel per nascondere questo riconoscimento. Tutto passa – specialmente nell’edizione del 1812, la prima, la più idealista, poiché il vecchio Hegel, a differenza di quanto si dice a volte, assume maggiormente il filo conduttore di un principio di realtà – tutto accade, insomma, come se l’«altro» [autre chose] fosse la pos-posizione di «qualcosa», il suo divenire categoriale. Ma si tratta solo di una cortina di fumo. Di fatto, Hegel studierà la scissione del qualcosa in un movimento pre-strutturato da una scissione iniziale, in un certo modo nascosta, di natura ripetitiva: quella che itera il «qualcosa» nella posizione di se stesso come altro, come altra cosa. (Badiou 1982 : 23)

Il filosofo francese vede con chiarezza la «scissione» fondamentale nascosta nella «logica dell’essenza», che induce a leggere la filosofia hegeliana come una filosofia della scissione, più che della totalità. E poco oltre aggiunge:

Dico che «è la stessa cosa», affermata due volte, perché l’alterità non ha qui nessun supporto qualitativo. Ci troviamo, per così dire, all’alba del momento qualitativo, all’interno del suo telaio strutturale. Questo non differisce da quello, se non per l’enunciato della differenza, a causa dell’impianto letterale. Si potrebbe chiamare questa stasi infima della contraddizione «stasi indiziale». Vi è A, e A (p), (si legga: «A tale e quale ad A in un altro posto; il posto p che distribuisce lo spazio di posizionamento, ovvero P»). (Badiou 1982: 24).

L’effetto di scissione determina la singolarità dell’esistenza e si manifesta in A (p). Qui incontriamo la prima convergenza con Duque, nel leggere in Hegel l’aspetto della non-chiusura, la scissione nella totalità. Del resto, per Duque è fondamentale mostrare la parzialità di ogni sistema attraverso la sottolineatura delle sue scissioni e ferite interne: cosa che non è poi così lontana dalla lettura lacaniana che Badiou opera del sistema di Hegel.

In un saggio più recente, Duque insiste nel criticare l’«idealità» della filosofia hegeliana:

[…] In definitiva, la tanto decantata idealità, la realtà effettuale vera e libera, ab-soluta persino dalla sua naturalità più propria: insomma, l’Assoluto, esiste solo se aggettivato, ovvero mentre si mostra nelle congetture e differenze logiche, sostenendo e distruggendo gli strati e le combinazioni naturali, dirigendo l’evoluzione dello Spirito a partire dal proprio sfondo e assimilando retroattivamente attraverso di esso le sue produzioni. (Duque 2009: 3)

Il tema della «spettralità» è presente, sebbene in forma diversa, anche in Badiou laddove, nella seconda parte di Théorie du sujet, egli elabora una concezione del soggetto a partire da Hegel e Lacan che ne mostra la «rarità» e l’evanescenza, per quanto con una declinazione politica assente in Duque. Nella lezione intitolata «Diagonali dell’immaginario», il filosofo francese afferma:

Le diagonali producono «io» (dell’io), producono del sembiante-simile, che consiste nella finzione feconda dell’unione ψ-α, attraverso cui il soggetto dissimula la divisione che lo fa essere. (Badiou 1982: 314;315)

La scissione del soggetto si produce nella frattura tra mancanza ed eccesso, che poi dipende in buona sostanza da quella hegeliana tra concetto e realtà.

D’altra parte, come sottolinea Duque,

In Hegel, invece, il tempo (che non è se non l’esistenza o Dasein del concetto, il suo proprio stare-fuori-di-sé) è rimasto cancellato (tilgt) nella Logica (e solo in questa!). Logicamente (o parlando in modo colloquiale: nella mente di Dio, prima della creazione del mondo e dello spirito finito), tutto è giudicato, tutto è già accaduto. La Logica espone l’intero passato del mondo. In essa il tempo dissipatore, estatico, si è girato, si è riflettuto fino a divenire verso di sé (werden zu sich).2 Ma, giustamente per lui – paradosso dei paradossi – è necessario che tutto cambi, si trasformi, subisca una metamorfosi per apprezzare questa connessione perenne di significatività: perché essa, das Logische, non è altro che la legge misurata e limitata, la connessione tra nascita, cambiamento e morte. (Duque 2009: 4).

Riprenderemo nel secondo paragrafo il rapporto di Hegel con la storia; tuttavia è interessante rilevare come sia Duque, sia Badiou, seppure a partire da presupposti diversi, colgano le contraddizioni della Logica hegeliana e vedano nella «rottura» del sistema la possibilità di un recupero della concettualità hegeliana. Vedono entrambi, d’altra parte, le difficoltà del sistema per pensare la natura e la materia a partire dalla Logica. C’è sempre un residuo che sfugge, e che Badiou cerca di pensare attraverso una «Logica dell’evento», accompagnata da una fenomenologia materiale degli enti, mentre Duque si occupa piuttosto di definire quei «residui» e quelle «perdite» che si sono prodotti nel corso della modernità.

In fondo anche in Badiou, soprattutto nella prima fase della sua riflessione, possiamo imbatterci in questi «residui» che, in qualche modo, costituiscono un intralcio al processo di emancipazione che ancora riguarda l’umanità. A tal proposito, Sam Gillespie rileva che:

Hegel sembra qui cercare di unire l’essere con il non-essere – a superare l’alterità in un’unità tra lo stesso e l’altro. In altre parole, la «dissomiglianza» menzionata in precedenza introduce apparentemente un’alterità positiva nel sistema hegeliano. L’essere non potrebbe essere uguale a se stesso finché non condividesse l’equivalenza con il suo altro.

La differenza, sembrerebbe non ancora eradicata dal sistema hegeliano. Ma Hegel insiste sul fatto che la dissomiglianza dell’essere con se stesso non deriva dall’immanenza dell’alterità, ma dalla mancanza di consistenza dell’essere dell’altro. Si potrebbe affermare questa logica in un altro modo: l’essere non è uguale a se stesso poiché è non non-uguale al suo altro – non può porre, o distinguere se stesso da questo altro.

Questa potrebbe essere la vera logica dell’insieme vuoto: se lo zero è uguale al nulla, questo non potrebbe funzionare come insieme vuoto, così che il nulla, in quanto uguale, dovrebbe pertanto essere indicato come qualcosa. Per essere veramente diseguale rispetto a sé, l’insieme vuoto non deve avere eguali.(Gillespie 1996: 62; 63)

È esattamente ciò che Badiou intende rilevare in Hegel per proporne una critica radicale, che non consista però in un rifiuto della filosofia hegeliana: definire l’inconsistenza per dare origine a una teoria del cambiamento che distingua tra ontologia e filosofia.

Peraltro, quando Duque afferma che la «terra» è la «totalità delle mancanze», sembra avvicinarsi per un’altra strada a una filosofia della sottrazione, che è propria della speculazione di Badiou. Ma è poi davvero così? Sembra, a dire il vero, che la vera differenza tra i due pensatori consista nella diversa fedeltà/infedeltà a Hegel. Se dovessimo cercare due termini per caratterizzare le rispettive letture hegeliane, forse potremmo indicare l’Abfall nel caso di Duque e la scissione nel caso di Badiou. Perché dunque l’Abfall? Lo stesso Duque chiarisce, crediamo, il senso della scelta:

Il brutto è che Hegel riconosce insieme (come non può non essere, se non vuole scindere il suo sistema in un dualismo peggiore di quello kantiano) che la natura è «l’Abfall dell’idea rispetto a se stessa». O, il che è lo stesso: che la natura è il residuo escrementizio dell’idea. Ma un escremento totale, poiché non vi è altra cosa se non natura-idea-spirito! E lo spirito, a sua volta, sarà l’incremento totale dell’idea (il guadagno di sé attraverso questa perdita «naturale»), o meglio ancora la sua concrezione, il suo ritorno. (Duque 2009: 9)

Affermazione dello spirito e degradazione vanno di pari passo, come nel caso della venuta di Cristo. Che, d’altra parte, è riconosciuto come figura centrale nel sistema di Hegel anche da Badiou, sebbene in una prospettiva diversa. Forse un altro punto comune tra i due autori potrebbe essere trovato anche in questo, nella necessità di pensare l’uno nella sua scissione, contro l’uno-tutto. Vediamo come Badiou interpreta la figura del Cristo secondo Hegel, punto che gli permette di ampliare il suo discorso teorico e politico:

Così come tale, questa dualità contraddittoria non ha alcun senso dialettico, ovvero, nessun senso chiaro. Ciò che gli fornisce senso, e qui incontriamo il colpo geniale necessario del cristianesimo, consiste nello storicizzare questa scissione. Ovvero, far ex-sistere l’infinito nel finito. È per questo che Dio (A) è indicizzato (A (p)) come horlieu specifico dell’esplace dell’infinito: questo è il principio dell’Incarnazione. Dio si fa uomo. Dio si divide in se stesso (il Padre) e in un in-se-stesso-impiantato-nel-finito (il Figlio). A è il padre A (p), il Figlio, questo figlio storico mediante il quale Dio ex-siste, e Dio avviene così come scissione dell’horlieu A=AA (p), Dio=Padre-Figlio, scissione che il concilio di Nicea, il primo cronologicamente tra i grandi congressi politici-ideologici moderni, designerà come esistenza unica – come unità degli opposti – nell’assioma dialettico ben noto: «Il Figlio è consustanziale al padre». (Badiou 1982: 33, 34)

Badiou cita a questo proposito la Fenomenologia dello Spirito per mostrare che, sebbene di questo evento non rimanga che «la tomba vuota» sulla terra, Dio si è davvero incarnato, l’infinito è davvero passato a essere nel finito.

Se ora passiamo ad esaminare la prospettiva di Duque, vedremo che il tema della mediazione e dell’incarnazione sono allo stesso modo centrali:

Per dirla rapidamente […] il Cristo è venuto al mondo per morire insieme come essere astratto e interminato – Yahvé, il Padre, la sostanza spinoziana – e come individuo concreto – Gesù di Nazareth –, e per insegnare a morire agli altri uomini in nome dello Spirito; e perché possano essere davvero spirito, invece di autodegradarsi fino a considerarsi come parti di un tutto o come «casi» di un genere, così come si disintegrano le pietre, marciscono le piante o muoiono gli animali. […] Tuttavia, come non osservare che «spirito» vuol dire anche: spettro, apparizione? (Duque 2009: 10).

Qui viene senza dubbio mantenuto il tema della mediazione, unito a quello della riconciliazione nello spirito. In più, e qui sembrano particolarmente interessanti le convergenze e le divergenze con Badiou, ricorre il tema dello Spirito in quanto apparizione. In realtà anche in Badiou il soggetto ha a che fare con il problema della sua «evanescenza». Il soggetto è qualcosa che si manifesta raramente e che non ha nulla di sostanziale: «il soggetto è raro». Nella lettura hegeliana di Duque, tuttavia, l’accento è posto sulla «caducità» della componente umana.

L’identità della sua essenza consiste in questa contraddizione, e giustamente: tutte queste sono destinate a perire (vergehen), a entrare nel passato (Vergangenheit) dal quale tutte procedono. Condannate, insomma, ad andare a fondo (zu Grunde gehen): proprio in questo tutte le cose (e gli spiriti finiti, ossia noi) co-incidono (il termine tedesco è più esplicito: Zusammenfallen, ovvero «cadono insieme»). (Duque 2009: 17)

C’è indubbiamente una differenza tra il sottolineare la «sottrattività» della soggettività e la sua caducità. Tuttavia, nonostante le differenze tra i due pensatori, è possibile ravvisare un certo parallelismo nel sottolineare la necessità di rilevare la non-conclusività del pensiero hegeliano. Il sistema presenta torsioni che ne minano l’unitarietà. Questa osservazione di Duque ci sembra in questo senso decisiva:

[...] Hegel sembra a volte lasciare nel dimenticatoio l’origine delle determinazioni logiche, permettendo così interpretazioni dualistiche, e perfino manichee del suo pensiero. Sembra quasi che l’Idea logica e lo Spirito (a sua volta, negazione determinata degli spiriti finiti, ovvero di noi uomini) si incontrassero e riconciliassero sul cadavere di una natura inerme e inerte, docilmente predisposta a sopportare la duplice presa della determinazione ideale e della sua realizzazione pratica e tecnica. Solo che se la natura è il rifiuto o la caduta (Abfall) dell’Idea e il suo tratto essenziale è l’assenza di ragione, il frenetico «stare fuori-di-sé» allora questo tratto dovrà trovarsi in qualche modo proprio all’interno della purissima idea logica. (Duque 2002: 102-103)

Insomma, il pensiero hegeliano sembra non poter essere inteso se non si tiene conto del fatto che l’autore non ha chiarito l’origine delle determinazioni logiche. I due autori, da punti di vista diversi, sostengono la necessità di rivedere la lettura della logica hegeliana per sottolinearne le contraddizioni. Come rileva ancora il filosofo spagnolo, in una sua presentazione della Logica della sostanza hegeliana,

La relazione essenziale contiene già in sé «tutto»: l’esistenza come una cosa riflessa in sé (e, pertanto, autoconsistente, raccolta nel suo fondamento e «ragione») è posta come primo membro della relazione; nel secondo, invece, si trova il fondamento stesso però esposto, fuori di sé, come molteplici differenze immediate. Cosicché, nel primo membro abbiamo l’identità in forma semplice, ma ancora mediata (vale a dire: riconoscibile solo attraverso la riflessione di sé nell’altro, nel suo riflesso). E nel secondo si offre il contenuto in modo immediato, disperso. E, tuttavia, ciascuna di queste molteplicità ha in sé l’unità della sussistenza; allo stesso modo in cui la totalità riflessa nel primo membro ha in sé la pluralità (ciò che in sé si riflette, in forma di ritorno o «rimbalzo» è effettivamente questa molteplice rifrazione, ma negata formalmente nella sua molteplicità di contenuto, in modo tale che forma un’unità, anche se negativa. (Duque 1998: 667)

La chiusura della Scienza della logica è presupposta, ma passa attraverso una complessa articolazione dialettica.

Per concludere queste riflessioni, è interessante rimandare e commentare brevemente alcuni passi di Logique des mondes di Badiou e vedere come è interpretata la Logica hegeliana. Badiou afferma:

Certamente, la triplicità è anche un grande motivo hegeliano. Ma è ciò che noi potremmo chiamare il triplo del tutto, l’immediato, o cosa-secondo-il-suo-essere, la mediazione, o cosa-secondo-la-sua-essenza, il superare la mediazione, o cosa-secondo-il-suo-concetto.

O ancora: l’inizio (il Tutto come puro bordo del pensiero), la pazienza (il lavoro negativo dell’interiorizzare), il risultato (il Tutto in sé e per sé).

Il triplo del non-tutto, che è il nostro, si dirà come: molteplicità indifferenti, o slegamento ontologico; mondi dell’apparire, o legame logico; procedure di verità, o eternità soggettiva. (Badiou 2006: 157)

Qui Badiou sottolinea le differenze tra la sua Logica e quella di Hegel: nel sistema di Badiou, la triplicità è una triplicità del non-Tutto, di matrice chiaramente lacaniana: una matrice che tuttavia, attraverso l’interpretazione lacaniana di Hegel, ritorna in qualche modo alle sue fonti hegeliane. Per Badiou, è importante mostrare come l’Uno si divida in due, escludendo un carattere ontologico unificato.

Si vede qui che l’assioma del Tutto conduce a una figura di pensiero come saturazione delle determinazioni concettuali, dall’esterno verso l’interno, dall’esposizione verso la riflessione, dalla forma verso il contenuto, mentre, come dice Hegel, abbiamo «l’essere riempito» e «il concetto “mentre si comprende”».

Ciò si oppone in modo assoluto alle conseguenze assiomatiche ed egualitarie dell’assenza del tutto. Per noi è impossibile costruire una gerarchia dei mondi, o saturare la disseminazione degli essenti-multipli. Per Hegel, il Tutto è anche una norma, dà la misura di dove è arrivato il pensiero e configura la scienza come sistema.

Certo, condividiamo con Hegel la convinzione di un’identità dell’essere e del pensiero. Ma, per noi, questa universalità è un’occorenza locale e non un risultato totalizzante.

Noi condividiamo anche con Hegel la convinzione di un’universalità del vero. Ma per noi quest’universalità è assicurata dalla singolarità degli eventi-di-verità, e non dal fatto che il Tutto sia la storia della sua riflessione immanente. (Badiou 2006: 155)

Badiou dunque intende andare con Hegel «al di là di Hegel» e per questo continua a proclamarsi fondamentalmente hegeliano; il che non gli impedisce di leggere la Logica attraverso il rilevamento dei suoi limiti. I punti sensibili dell’argomentazione hegeliana vengono sottoposti all’esame del teorema dell’«inconsistenza» e della teoria dell’essere come molteplicità derivata da Georg Cantor. Si tratta di rompere con la posizione hegeliana che il tutto sia la norma e che il risultato della riflessione sia un sistema chiuso.

Detto questo, vediamo quali sono le divergenze più evidenti tra i due pensatori quando si tratta di procedere-oltre Hegel.


a) Duque: oltre Hegel, con Schelling

Duque esprime chiaramente la sua critica a Hegel in La fresca rovina della terra (2002):

Con il suo ideal-realismo, Schelling, l’amico-nemico dell’anima di Hegel, aveva visto più lontano. Difendendo quello che egli chiamava «panteismo in senso proprio», ovvero la All-Einheit («onniunità»), accusa i suoi critici di «essere ciclopi» (giacché vedono con un solo occhio, a metà), di vedere gli uni solo il tutto e non l’unità (si tratta di alcuni romantici, ubriachi di «natura primordiale» e ansiosi di dissiparsi in essa come «gocce nel mare immenso» di Machado); gli altri, invece, si rifugiano nell’unità, volendo ridurre tutto alla propria ragione, astratta e negativa (critica implicita a Hegel). (Duque 2002: 106)

Perdere la All-Einheit significa per Schelling non poter dar conto dell’Essere, o farlo, come nel caso di Hegel, soltanto in una forma astratta. Così per Duque il punto determinante è il pensiero schellinghiano del Grund, del fondo di ogni vita ed esistenza, che coincide col «tremendo» (Schrecklich). Il fondo, l’Ab-grund (come sarebbe forse meglio definirlo), presuppone uno shock che rompe con gli sforzi logici che cercano di imbrigliarlo. Come rileva ancora Duque,

«Il tutto è niente» solo per il ciclope incapace di mantenere l’equilibrio precario tra l’uno e l’infinito […]: un equilibrio che, come vedremo, è sostenuto in aria dal corpo umano, dalla traccia nella soglia (Duque 2002: 107)

Ciò che interessa a Duque è precisamente il «fondo» che resiste alla sistematizzazione e che rivela la mortalità e la caducità dell’uomo. E qual è la dimensione nella quale si rivela questa caducità? È quella della terra, appunto come s-fondo irriducibile. In un altro testo più recente, Duque propone di fare «di queste cose (non morte, ma, per così dire, «manipolate», ammaestrate o meglio: riciclate) la base o il fondo di ciò che provvede alla mia esistenza». E si tratta di «un fondo, certamente, mai del tutto dominabile: mai del tutto conoscibile né sfruttabile. La natura non si piega assolutamente alla nostra storia personale. E nemmeno a quella di Dio.» (Duque 2007: 20)

A questo punto è bene ricordare che il filosofo madrileno distingue nettamente tra fondo e fondamento (in senso logico): il fondo è il luogo di cui non è possibile «dar ragione». E nella «separazione» tra Dio e natura, si dà quella che Schelling – e Duque con lui – denomina libertà, il taglio che apre, nella decisione, lo spazio «tra la vita e la morte». A questo livello si produce la divergenza più forte tra le due letture di Hegel presentate da Duque e da Badiou: esaminiamo ora la soluzione del filosofo francese.


b) Badiou: oltre Hegel, con Lacan

Badiou, fin da Théorie du sujet, cerca di andare con Hegel oltre Hegel. Il referente critico è qui, ma lo sarà anche altrove, Lacan. Il punto determinante della critica a Hegel via Lacan riguarda proprio la possibilità di pensare il soggetto in una forma nuova. Come segnala Badiou, infatti,

Bisogna anticipare il fatto che vi sono in Lacan, e sono adeguati alla divisione dell’Uno, due concetti del reale: il reale del dissolversi, che si trova in una posizione di causa rispetto all’algebra del soggetto; il reale del nodo, che si trova in una posizione di consistenza per la sua topologia. (Badiou 2009: 250)

Per Lacan, lo spazio della teoria del soggetto è il problema supremo del materialismo; nella topologia lacaniana, il soggetto è sempre un soggetto-barrato. Per questo, se il soggetto esiste, esiste in quanto effetto e in quanto effetto materiale. In questo, già a partire da Théorie du sujet, Badiou interpreta Hegel a partire da Lacan – e da Althusser. Vi è però una precisazione apportata dal filosofo francese che chiarisce ancor meglio il senso dei suoi continui riferimenti a Lacan:

La consistenza – forma topologica dell’Uno – è insieme «ciò che vi è in comune fra i tre» e il figurabile dell’uno dei tre, l’immaginario, chiave storica di ogni totalità e di ogni similitudine. In modo che l’uno-del-nodo avrebbe così una garanzia di consistenza nell’immaginario più che nel reale, se non fosse che il reale fa ex-sistere la consistenza immaginaria, per cui provoca la scissione dell’essere in oggetto-causa (oggetto-nodo) e in ex-sistenza della consistenza stessa. (Badiou 1982: 265)

Rispetto alla posizione hegeliana, qui affiora in primo piano la mancanza propria del soggetto in quanto soggetto-bucato [sujet-troué]: la mancanza è insomma «costitutiva del soggetto». In un altro testo, Badiou spiega che «il reale può essere definito come un senso che è un non-senso. Il reale è ab-senso e pertanto un assenza di senso, ma tale assenza ovviamente implica che il senso deve esistere». (Badiou 2006 : 82-83) Per Badiou, se il senso deve esistere, lo può solo attraverso una nuova teoria del soggetto come «inconsistenza»: il soggetto è precario e non può essere pensato all’interno di una filosofia totalizzante. In un’altra occasione, nel 1990, Badiou aveva detto che l’antifilosofia di Lacan è una delle condizioni necessarie per la rinascita della filosofia.

Il tema qui appena abbozzato meriterebbe più ampi sviluppi. Basti per ora aver segnalato la divergenza tra le soluzioni presentate da Duque e da Badiou per superare (nel senso dell’auf-heben) i limiti della riflessione hegeliana.

 

2. Due modi di criticare la «chiusura» postmoderna ( anche a partire da Hegel).

L’altra questione da trattare, di centrale importanza per la riflessione di Duque e di Badiou è il loro rapporto col postmoderno. Entrambi si propongono infatti di oltrepassare criticamente la «chiusura» postmoderna: si tratta di vedere come e attraverso quali strategie concettuali. Sullo sfondo, minaccioso, si mostra il nichilismo.

Potremmo dire che la strategia di Duque è, fondamentalmente, di carattere estetico e che quella di Badiou è di carattere politico, pur ammettendo che forse si tratta di una distinzione troppo riduttiva.

Nel suo Apocalypse neither now nor ever, Duque ci mostra le ragioni per cui l’apocalisse, tante volte annunciata, non può e in un certo senso non deve mai avvenire perché il postmoderno è qualcosa che annuncia una fine che non verrà mai: il postmoderno è, in un certo senso, uno stato “stagnante”. Altrove, Duque spiega:

L’Apocalisse è una narrazione che contraddice se stessa e tutta la dottrina che pretende compiere, ma che, allo stesso tempo, e per questo, si sostiene – e sostiene fede e dottrina – nella sua ripetizione incessante. (Duque 2002: 86).

Se questo è vero, è altrettanto vero che nel postmoderno «non c’è futuro chiaro» e che tutto va avanti per inerzia. Certe forme artistiche lo dimostrano con precisione. Così Duque può affermare:

Grazie a questa dispersione, a questa «tonalità eccessiva», l’epoca sa di morte ma insieme fa come se la morte non esistesse. Esorcizza la fine mediante la caricatura e il sarcasmo (si ricordi «l’altra faccia» di Apocalypse now: il film di Stanley Kubrick, Doctor Strangelove […]), mediante la serialità del minimal e della pop art o attraverso l’anticipazione simulata, in architettura, delle conseguenze dell’olocausto nucleare. La astuta postmodernità ha compreso il messaggio anche meglio dei medievali, e per questo si affanna incessantemente a presentare molteplici e distorti modi della fine, scongiurando la sua schiva presenza per prolungare la sua assenza. (Duque 2002: 90)

I riferimenti all’Estetica hegeliana – rielaborata da Duque per interpretare criticamente il postmoderno – sono sufficientemente evidenti per non insistere su questo punto. L’epoca postmoderna, insieme, sa di morte e la rinnega. Nell’ambito della creazione artistica, ciò dà luogo all’affermarsi della parodia e dell’ironia – se si vuole, in una re-visione delle sue forme romantiche. Il problema è come uscire da questa stagnazione, o per lo meno come considerarla criticamente. Il pericolo allora, come acutamente nota l’autore, è quello di una sorta di «anestesia globale» generata anche da sottili – o meno sottili – strategie tranquillizzanti. In un saggio recente, El cofre de la nada (2006), Duque suggerisce quale potrebbe essere un’attitudine efficace di fronte alla palude postmoderna: una ri-considerazione profonda del nichilismo.

È possibile mantenere la propria morte come un essere-disposto a lasciarsi morire e addirittura a farsi uccidere, essere-disposto a dare la propria vita per evitare la morte dell’altro, perché questi, a sua volta, possa conservare la sua propria morte in quest’offerta reciproca nella quale si tesse l’essenza dell’uomo? In questo modo il fatto di «essere-disposto, di stare in guardia» per lasciar essere l’imminente avvento dell’essere o, il che è lo stesso, la morte che verrà, implicherebbe una dura ma bella condizione. (Duque 2006: 115)

Di fronte al «rifiuto della morte e della sofferenza» propri della postmodernità, Duque riprende la disposizione d’animo di Paul Celan ad accettare la possibilità di morire. Come dice Celan, di accettare «la maestà dell’assurdo». Qui senz’altro, nel citare il poeta, la posizione di Duque è (anche) politica. E di nuovo, dove Duque e Badiou sembrano allontanarsi, si ripresentano le convergenze, anche a partire dalla considerazione della figura di Celan.

In un recente saggio dedicato alla poesia di Celan (Duque; Vitiello: 2011), il filosofo spagnolo insiste sulla particolare concezione della storia e del nulla propria del poeta : per Celan il nulla non è «né fondamento né non-fondamento, né ragione né s-ragione», ma piuttosto abisso, Ab-grund: così il nulla, nella sua ritrazione permette che «fioriscano le cose», in fondo non troppo diversamente dall’essere-sottratto di Badiou, anch’esso critico delle filosofie della presenza.

Ma torniamo per un momento alla questione della postmodernità da un punto di vista estetico. In una situazione di orrore mediatico generalizzato, il terrore primigenio appare relegato in secondo piano, ma spesso può comunque affiorare e costituire un’esperienza autentica di quell’«irruzione che non trova né caratterizzazione estetica né un incasellamento logico». In realtà, gli avversari di Duque e di Badiou, in fondo, sono gli stessi: la globalizzazione capitalistica e il pensiero unico che la sostiene. L’estetica residuale di Duque si può quindi incontrare con l’inestetica di Badiou? O addirittura con la sua politica dell’evento? Si tratterebbe, com’è ovvio, di un incontro dialettico (hegeliano) e probabilmente fugace, ma che mette comunque in luce la tristezza dell’epoca attuale e dei suoi delirii (desvaríos)?

Ma rimaniamo ancora a Duque. La terra è qualcosa che sta nell’origine (Grund). Anzi, è l’uomo stesso a essere caratterizzato per il suo essere-terra. Questo essere-terra deve essere riconsiderato, per uscire dalla chiusura postmoderna e dal nichilismo reattivo. Analizzando l’opera di Kazuo Shiraga, Challenging Mud, Duque spiega:

La lotta, il «conflitto amoroso» (come tra l’aorgico e l’organico in Hölderlin) tra il fango di una terra in germinazione e il corpo umano portano a una fusione orgiastica, rappresentata con ancor maggior brio dalla traccia del corpo nudo di Ana Mendieta nella terra, secondo una delle sue Vulcano Series (1979). Quest’impronta, scultura a rovescio, svuotamento di carne [earth-body sculpture] è riempita poi con foglie, semi e terra; sopra all’insieme si versa poi della polvere che si infiamma come per stabilire la strettissima affinità tra la terra madre e la donna; il massimo degli arcana naturae: il fuoco vischioso della terra di fronte al freddo azzurro del cielo. (Duque 2002: 194)

La terra appare anche qui come il non-riducibile alle fredde leggi della ragione, il fondo che resiste al potere del lógos e che ci ricorda la nostra caducità. Di contro, il modo di affrontare la chiusura postmoderna di Badiou è diverso. In questo caso il punto di partenza è filosofico-politico: si tratta in primo luogo di caratterizzare il mondo del capital-parlamentarismo postmoderno come mondo atono.

Nel mondo atono, nessun cambiamento è possibile, poiché nessun formalismo soggettivo «fedele» può essere «l’agente di una verità», per mancanza di «punti» su cui si possa misura l’efficacia di un corpo. Nulla più succederà, e per questo non possiamo decidere nulla. Per dirla in altre parole: nel mondo atono non può ac-cadere nessun evento. Per Badiou, nelle società postmoderne, dove tutto comunica all’infinito, non sembra poter esistere alcun punto (nella terminologia di Badiou ciò vuol dire: nessuna forma di rapporto decisionale con il mondo nella corrispondenza a un evento; cfr. Badiou 2006 : 442).

Verrà qui evitato di proposito ogni riferimento alle formalizzazioni tipiche di Badiou; ma è importante rilevare che i mondi atoni sono mondi destinati al’imputridimento, alla marcescenza – e qui Duque e Badiou, nelle differenze, si avvicinano – al bordo del nichilismo contemporaneo. Solo che la via seguita da Badiou, alla fine, è essenzialmente politica e non estetica o metafisica: attraverso la militanza, è possibile essere preparati a rompere l’atonicità del mondo. Come ci ricorda lo stesso Badiou, «è meglio un disastro che un dis-essere»; in altre parole, è meglio fallire che essere portatori di una mancanza d’essere. E qui Badiou ripropone il coraggio come virtù determinante, moderna, se si vuole, ma non nel senso di una mera ri-proposizione delle figure dominanti del XX secolo.

In una conferenza pronunciata presso l’Università della California, Badiou ha citato un poema di Wallace Stevens come esempio efficace per definire la figura del soldato (o del militante, se si vuole):

Nei due casi, il risultato non può essere se non il triste successo di colui che Nietzsche chiamava «l’ultimo uomo». L’«ultimo uomo» è la figura esangue dell’uomo sprovvisto ormai di una ogni figura. È l’immagine nichilista della natura fissata una volta per tutte dell’animale umano, alla quale manca ogni possibilità di oltrepassamento. Il nostro compito è quello di inventare una nuova figura eroica, che non sia il ritorno dell’antica figura del sacrifico religioso o nazionale, né la figura nichilista dell’ultimo uomo. C’è spazio, in un mondo disorientato, per un nuovo stile di eroismo? (Badiou 2011: 52;53)

Per il filosofo francese, è insomma opportuno rompere la chiusura postmoderna che si esprime soprattutto nella formula dei mondi atoni in cui non è possibile il cambiamento. La fedeltà all’evento, il corrispondere alle nuove possibilità nell’arte e nella politica intese come procedure di verità possono permettere di dare-corpo al cambiamento.

In Duque, invece, la chiusura della postmodernità si nota soprattutto nel tono apocalittico delle sue proposte. Ma si tratta di un’apocalisse molto particolare:

Nella postmodernità si è compreso il messaggio, cioè lo si è compreso come tale, come messaggio, e pertanto come un invio in cui si attarda e al tempo stesso si dispiega il tempo, e con esso e in esso si disperdono le differenze tra il mittente e il destinatario, tra parola scrittura e lettura. Ma, essendo un messaggio il cui contenuto enuncia la negazione definitiva del tempo, rinnega la propria condizione di messaggio. Letteralmente, si mette in evidenza. Al riguardo, forse non è esagerata la proposta di Derrida: considerare il tono apocalittico come la condizione di possibilità di ogni scrittura. (Duque 2002: 89)

Si tratta di un messaggio dai toni apocalittici, ma che rinnega se stesso: l’apocalisse non avrà mai luogo:

E così il tono apocalittico si disperde e sparge, insidiosamente, per tutto il tessuto della postmodernità. Come un macchia o un profumo. A volte, di elegante fragranza; altre volte, di vistosa pacchianeria. Grazie a questa dispersione, a questo «tono scomposto», l’epoca odora di morte e, al tempo stesso, fa come se la morte non esistesse. (Duque 2002: 90)

Il tema della rimozione della morte è presente anche in Badiou, come si è visto, al momento di affrontare il tema dell’eroismo: i mondi «atoni» non prevedono eroi, né sacrificio. Sia che si parta dal tema dell’Abfall (nel caso di Duque), sia che si muova da quello di una riconsiderazione dell’evento, il problema rimane quello di come fare fronte all’ordine capitalistico mondiale con la fatica del pensiero—del concetto (hegeliananmente inteso). Si tratta di due letture convergenti/divergenti della filosofia hegeliana che partono dalla Scienza della logica per arrivare a una considerazione più ampia della dialettica di Hegel che ne mostri l’utilità per capire meglio l’epoca attuale.

È importante sottolineare a questo punto come il tema del rapporto tra la morte e il nulla, certamente centrale nel pensiero di Duque, si presenti, anche se in un certo senso rovesciato, in Badiou: l’obiettivo di Badiou è piuttosto quello di «combattere le tendenze mortifere della postmodernità» attraverso il pensiero – ma la morte e il nichilismo sono ben presenti tra le righe delle sue opere – avversari, certamente.


Conclusioni

Vale la pena, in conclusione, riprendere il tema delle convergenze e delle divergenze tra i due autori. Lo sfondo comune è rappresentato dalla filosofia di Hegel – soprattutto da alcuni luoghi della Scienza della logica, ma anche, in buona misura, da quell’ospite molesto rappresentato dal nichilismo reattivo della postmodernità. Come si è visto, Duque assume pienamente l’orizzonte nichilistico della postmodernità e, approfondendo il vincolo esistente tra il nulla e la morte, cerca una via d’uscita teorica rispetto all’«orrore vischioso» che vi domina. Badiou, dal canto suo, vede nella «fedeltà all’evento» e in una distinzione netta tra ontologia e filosofia la possibilità di ridare dignità al pensiero e di non tradire l’eredità moderna rappresentata da Hegel – uno Hegel letto attraverso Lacan. Ma entrambe le posizioni approdano a un netto anti-umanismo che fa emergere un altro interlocutore fondamentale: Martin Heidegger, citato con dovizia da Duque, molto meno da Badiou (ma si può senz’altro affermare che il confronto con la filosofia heideggeriana e con il concetto di Ereignis sia fondamentale in tutta la sua opera, soprattutto a partire da L’essere e l’evento (1995)).

Lasciando quindi Heidegger sullo sfondo – uno sfondo senza dubbio inquietante – occorre ribadire che entrambi intendono andare oltre la «palude» postmoderna e le sue molte menzogne. Per entrambi, in Hegel si trovano gli snodi fondamentali della modernità e le sue principali contraddizioni. Scrive tuttavia Duque:

Contro le conclusioni nichiliste di Fichte e Schelling, di Jacobi e (avant la lettre) di Schopenhauer, questa via d’uscita non rappresenta se non il lato negativo dell’operazione conoscitiva. Giacché l’infinito, l’Assoluto, non è qualcosa che si situi oltre l’operazione stessa della negatività, e neppure che si disfaccia ovviamente in quest’operazione. Il fatto è che l’infinito è questa stessa autodissoluzione del carattere astratto, unilaterale della ragione umana e delle cose del mondo (Duque 2006: 31).

Questa caratteristica dell’infinito hegeliano è ciò che gli impedisce di «scivolare» nel nichilismo. Ma naturalmente vi è un altro aspetto dell’Assoluto che, per così dire, allude alla caducità:

Vi è forse una Notte più profonda e più antica della notte stessa dell’io, una notte chiusa che impedisce la cercata chiusura del sistema? Se è vero, nel salto «quantistico» che l’Idea compie verso e come la natura, quest’ultima è solo come «residuo e caduta»: Abfall dell’Idea stessa, residuo paradossalmente totale del tutto, del soggetto. (Duque 2007: 41)

Se la chiusura del sistema qui è impedita dalla notte – dall’Abgrund, potremmo dire, forzando un po’ il testo – in Badiou essa è impedita dallo s-fondo lacaniano della sua interpretazione, dal suo pensare il soggetto come «sbarrato», «s-vuotato».

Come si è visto, per Badiou «il soggetto è raro» e non è nulla di sostanziale o di sostantivo. Il soggetto è ricostruito da Badiou secondo la via deduttiva. La tesi meta-ontologica in se stessa mostra il carattere sottrattivo dell’essere in quanto essere (il cui nome è il vuoto). Di qui si può definire una verità come «avvicinamento all’essere che non si dimostra» (Badiou: 1988:285), ovvero come un indiscernibile. Ma l’occorrenza di questo avvicinamento è un «incontro» che Badiou chiama «evento » e che si rivela indecidibile. Il soggetto è invece una «pura quantità evanescente di verità», che «occupa il tra-due dell’indecidibilità e dell’evento e l’indiscernibilità della verità». Badiou fa notare che la traduzione lacaniana dell’evento non è altro che l’«incontro» amoroso. Un tale incontro localizza un vuoto, e più precisamente lo prova nel non-rapporto sessuale, mentre la matematica lo prova a livello letterale. […] Nel fondo Badiou ha fatto subire uno spostamento al soggetto lacaniano: ma io credo che alla fine si tratti di un ri-centramento filosofico. Dove il soggetto lacaniano si manteneva nel puro vuoto della sua sottrazione, Badiou ricolloca l’essere in quanto essere il cui nome è allora l’insieme vuoto. Quanto al soggetto, esso resta sospeso all’evento, alla sua rarità, e si colloca di conseguenza dalla parte di ciò che Badiou chiama «oltre-uno». Meno-uno (Lacan) o più-uno (Badiou): queste, a seconda dei casi, sono le cifre del soggetto. Il soggetto lacaniano era ancora legato, cartesianamente, a una forma di sostanzialità o di presenza. Per Badiou, invece,così come accade alla verità che esso sostiene, non può non esservi soggetto; ma il soggetto è, essenzialmente, «raro».

Questo bordo, situato tra psicanalisi e filosofia, permette a Badiou di «spostare» il soggetto lacaniano, nel senso di una sua valorizzazione filosofica. Il soggetto è qui sospeso all’evento, è un sorta di «supplemento» rispetto all’uno e sospeso ai margini del vuoto. È in questo sfiorare il nulla che i due pensieri si incontrano e insieme si allontanano nella loro rilettura critica della postmodernità.

 

Bibliografia

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Note al testo

* Il saggio è una rielaborazione della relazione presentata al Convegno “Arte e terrore. Incontro con Félix Duque”, tenutosi a Torino i giorni 22 e 23 febbraio 2011 e organizzato da Federico Vercellone e Alberto Martinengo.

1) Le traduzioni dei testi di Badiou, di Gillespie e di Duque sono mie.

2) Mi antengo qui fedel alla la traduzione di F. Duque, sebbene sembri più ragionevole tradurre l’espressione tedesca soltanto come “ divenire” ( N. dell’autore).