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Wittgenstein: l’atmosfera della parola

Ludwig Wittgenstein rifiuta una definizione degli stati mentali, delle sensazioni, dei desideri nei termini di entità slegate dalla loro formulazione linguistica come se, da una parte, vi fosse la parola denotante e rappresentante e dall’altra l’oggetto (sensazione, desiderio, stato mentale) denotato o rappresentato.

Quando formulo linguisticamente un dolore, non sto mettendo in pratica una correlazione stabile tra parola e suo referente, ma sto semplicemente esprimendo e manifestando linguisticamente il dolore stesso; se fosse diversamente, allora il mio essere in uno stato di dolore dovrebbe essere soggetto alla legalità epistemica del verbo “sapere”: dovrei, in un certo senso, sapere di essere in uno stato di dolore , ma questo, per il filosofo austriaco, è assurdo visto che solo gli altri possono attribuirmi epistemicamente stati mentali.

Del resto, finché mi trovo nella sfera privata dell’introspezione, ogni criterio di identificazione o di differenziazione che connoti lo statuto normativo della nostra conoscenza non ha senso, visto che non abbiamo nessun metro oggettivo sulla base del quale “misurare” le nostre impressioni private:

Immaginiamo questo caso: mi propongo di tenere un diario in cui registrare il ricorrere di una determinata sensazione. A tal fine associo la sensazione alla lettera <<S>> e tutti i giorni in cui provo la sensazione scrivo questo segno in un calendario.----- Prima di tutto voglio osservare che non è possibile formulare una definizione di un segno siffatto.- Però posso darla a me stesso, come una specie di definizione ostensiva!- Come? Posso indicare la sensazione?- Non nel senso ordinario. Ma io parlo, o scrivo il segno, e così facendo concentro la mia attenzione sulla sensazione- come se la additassi interiormente. Ma che scopo ha questa cerimonia? Perché sembra trattarsi solo di una cerimonia! Però una definizione serve a fissare il significato di un segno.- Questo avviene, appunto, mediante una concentrazione dell’attenzione; in questo modo, infatti, m’imprimo nella mente la connessione tra il segno e la sensazione.- Ma <<Me la imprimo in mente>> può soltanto voler dire: questo procedimento fa sì che in futuro io ricordi correttamente questa connessione. Però nel nostro caso non ho alcun criterio di correttezza. Qui si vorrebbe dire: corretto è ciò che mi apparirà sempre tale. E questo vuol dire soltanto che qui non si può parlare di ‘corretto’.1

In questo brano, l’accostamento tra l’associazione segno-sensazione e la nozione di cerimoniale sta a significare non tanto che l’uso normale del segno o della parola manchi completamente del carattere arbitrario e convenzionale della cerimonia, ma, al contrario, che una cerimonia ha senso solo se se ne consolida l’uso all’interno di una tradizione: così come dunque è un non senso applicare una sola volta una regola, alla stessa stregua è insensato chiamare “cerimonia” qualcosa che può essere espletato solo privatamente e che come tale non può essere fissato intersoggettivamente.

Del resto, nel caso qui in questione, ci si chiede su cosa fondare la correttezza dell’accostamento segno-sensazione, se la vita privata della mente non offre alcun criterio esterno per poter essere misurata:

Le regole del linguaggio privato sono impressioni di regole?- La bilancia su cui si pesano le impressioni non è l’impressione di una bilancia2.

Ciò dunque che contribuisce a significare la nostra esperienza vissuta non è una presunta attività prelinguistica, perché una volta che si è eliminata la dicotomia tra linguaggio ed esperienza, tra interno ed esterno, si potrà benissimo riassorbire la nostra sfera privata in quella che Wittgenstein chiama l’ “atmosfera della parola”3.

L’uso del termine “atmosfera” tradisce molto bene lo spirito deontologizzante ed antimetafisico del pensiero wittgensteiniano: così come l’aria non presenta diversità se non di grado rispetto alla terra, allo stesso modo il significato di una parola non può essere collocato nel regno iperuranico e misterioso dell’idea, ma invece, più prosaicamente, nell’alveo stesso della sua espressione linguistica: un alveo certamente in cui esso non vive da solo, ma nel contesto4 di relazioni con altre espressioni e circostanze di vita e d’azione. Come acutamente osservato da Aldo Giorgio Gargani, i tratti che contribuiscono a formare l’atmosfera della parola sono la fisionomia, il ritmo, la familiarità e la gestualità5.

Così poi come nell’atmosfera non ci si muove senza difficoltà, l’attrito è sempre presente, anche nell’uso della parola ci si trova spesso nella necessità di disambiguare il senso della stessa, tanto più che ogni parola o concetto presenta sempre un certo grado od alone di indeterminatezza:

Solo nei casi normali l’uso della parola è tracciato chiaramente; noi sappiamo, non abbiamo alcun dubbio su ciò che dobbiamo dire in questo o quel caso. Più abnorme è il caso, tanto maggiore è il dubbio intorno a ciò che dobbiamo dire. E se le cose andassero in modo del tutto diverso da come effettivamente vanno--se non ci fosse, per esempio, nessun’espressione caratteristica del dolore, della paura, della gioia; se ciò che è regola diventasse eccezione e ciò che è eccezione diventasse regola; o se entrambe diventassero fenomenici frequenza pressappoco eguale--allora i nostri normali giuochi linguistici perderebbero ciò che è loro essenziale.- la procedura, consistente nel mettere un pezzo di formaggio sulla bilancia e nello stabilirne il prezzo secondo il peso indicato dalla bilancia, perderebbe ciò che ha di essenziale, se si desse spesso il caso che pezzi di formaggio aumentassero o diminuissero improvvisamente di volume e di peso senza alcuna causa evidente. Questa osservazione diventerà più chiara quando parleremo di cose come il rapporto dell’espressione col sentimento e simili6.

La pertinenza dunque della nozione di atmosfera all’uso della parola non comunica a quest’ultima un senso di aleatorietà, di leggerezza, di arbitrarietà, nella misura in cui un gioco linguistico, per aver senso, deve avere un carattere di familiarità e di stabilità senza il quale non potrebbe funzionare7; a ciò si aggiunga che esso, per poter funzionare, non può rinchiudersi in una dimensione esclusivamente linguistica, in una regione nulla della semantica, visto che questo deve sempre, in un certo grado, conformarsi alle dinamiche effettive della realtà, ai comportamenti delle cose che presentano sempre un certo grado di regolarità.

L’uso effettivo del linguaggio non può essere misurato, per Wittgenstein, avendo come metro la “purezza cristallina” della logica: questa anzi, intesa come esigenza di chiarezza e distinzione, può essere un pericolo per l’impiego familiare e quotidiano delle parole, in quanto rischia di trasformarsi in qualcosa di così “vacuo” da rendere inconcludente ogni tentativo di ancorare la rigida struttura normativa della logica alla caleidoscopicità del linguaggio umano, così sensibile al contesto :

Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!8

La purezza cristallina della logica deve quindi essere riportata a quella concretezza, durezza, resistenza che solo le parole comuni come “tavolo”, “porta” hanno; non si tratta quindi di indagare su quel super-ordine tra super-concetti a cui, da sempre, l’immagine della logica è stata accostata:

Il pensiero è avvolto da un’aureola.--La sua essenza, la logica, rappresenta un ordine, e precisamente l’ordine a priori del mondo, vale a dire l’ordine delle possibilità che devono essere comuni al mondo e al pensiero. Ma quest’ordine dev’essere, pare, estremamentesemplice. E’ anteriore ad ogni esperienza; deve compenetrare tutta l’esperienza e, a sua volta, non deve venir contaminato da oscurità o incertezze di natura empirica.-- Dev’essere anzi di cristallo purissimo. Ma questo cristallo non si presenta come un’astrazione; ma come qualcosa di concreto, anzi come la cosa più concreta, per così dire, la più dura (Tractatus logico-philosophicus, 5.5563.)

C’illudiamo che ciò che è peculiare, profondo, per noi essenziale, nella nostra indagine, risieda nel fatto che essa tenta di afferrare l’essenza incomparabile del linguaggio. Cioè a dire, l’ordine che sussiste tra i concetti di proposizione, parola, deduzione, verità, esperienza, ecc. Quest’ordine è un super-ordine tra- potremmo dire- super-concetti. Mentre in realtà, se le parole <<linguaggio>>, <<esperienza>>, <<mondo>>, hanno un impiego, esso dev’essere terre terra, come quello delle parole <<tavolo>>, <<lampada>>, <<porta>>.9

Qui viene a galla l’atteggiamento pragmatico ed antimetafisico (contro ogni “concezione pneumatica” del linguaggio) di Wittgenstein che è costretto a rivedere le posizioni precedenti relative al linguaggio, quelle, per capirci, esposte nel Tractatus: non si tratta tanto di dissolvere il rigore della logica, quanto invece, molto di più, di considerarla in modo diverso, facendo ruotare la nostra attenzione dall’analisi formale della stessa alla sua inserzione nella dimensione costituita dal “nostro reale bisogno”. Il linguaggio, in questo modo, viene spogliato del suo carattere aulico ed ideale, del suo essere una “non-cosa” e viene colto, molto più umilmente, come fenomeno spazio-temporale:

Parliamo del fenomeno spazio-temporale del linguaggio; non di una non-cosa fuori dello spazio e del tempo. [Scolio: Soltanto che di un fenomeno ci si può interessare in modi differenti]. Ma ne parliamo come parliamo dei pezzi degli scacchi quando enunciamo le regole del giuoco, e non come quando descriviamo le loro proprietà fisiche.

La domanda <<Che cos’è, propriamente, una parola?>> è analoga alla domanda: <<Che cos’è un pezzo degli scacchi?>> 10.

La precisazione sul modo di considerare il linguaggio, non cioè dal punto vista fisico, ma da quello normativo-funzionale, è importante ai fini di un’interpretazione di questo importante fenomeno umano in termini non riduzionistici che eviti di costruire teorie e metta al bando ogni tipo di spiegazione riguardo al modo in cui il linguaggio funziona, attenendosi solo al compito della sua descrizione:

E questa descrizione riceve la sua luce, cioè il suo scopo, dai problemi filosofici. Questi non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto. La filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio11.

La chiusa finale di questo paragrafo, l’idea cioè che la filosofia ci aiuti a liberarci dall’incantamento del nostro intelletto “per mezzo del nostro linguaggio”, è interessante per l’uso che può esser fatto dell’espressione “per mezzo del nostro linguaggio”: da un lato, infatti, si dice che è il linguaggio stesso a produrre questo incantamento (si pensi, per esempio, a tutte le dicotomie tra “interno” ed “esterno”), dall’altro invece, si può voler dire che è solo all’interno della dimensione linguistica (contro la “concezione pneumatica” del pensiero) che gli enigmi (puzzles) dell’intelletto possono essere dissolti, più che risolti.

Wittgenstein ci ammonisce continuamente a chiederci se le nostre inquietudini e interrogazioni sul senso delle parole abbiano anche una loro controparte nell’uso effettivo che ne facciamo nel linguaggio in cui hanno la loro “patria”: si tratta di riportare così le parole “dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano”.

Il metodo da impiegare dunque nell’indagine proposta dal filosofo austriaco è quello di una Destruktion, operata a livello linguistico, di quegli “edifici di cartapesta” che occupano il terreno in cui il linguaggio vive e si produce.

Molto modestamente dunque, la filosofia si giustifica in un continuo lavoro di scoperta di non sensi e di “bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio”:

Un problema filosofico ha la forma: <<Non mi ci raccapezzo>>12.

La modestia così dell’intrapresa filosofica deriva dal fatto che ci si deve limitare soltanto a descrivere e non intaccare l’uso effettivo del linguaggio, lasciando tutto com’è.

Tra gli edifici di cartapesta da distruggere vi è certamente la nozione di “significato” (meaning) che non può essere intesa nel senso di un fenomeno di “accompagnamento” (accompaniment): quando facciamo esperienza del significato di una parola, noi sentiamo la parola come l’incorporamento (embodiment) di ciò cui essa si riferisce; per comprendere più a fondo cosa Wittgenstein intenda qui per “esperienza di un significato”, ci si può aiutare con la nozione di “immagine” (picture) e del tipo di relazione che noi intratteniamo con essa: che non è una attività di decodificazione, ma quasi di identificazione o di immedesimazione con l’oggetto da essa rappresentato.

Scrive infatti Paul Johnston:

Although a picture might be defined as a representation according to certain rules, that is not how we relate to them.

Rather than decoding a picture, we see it directly as the object it depicts. As we saw, this can be illustrated in terms of two types of possible reaction to the picture of a cavalry charge. On the one hand, the individual may simply recognize what such a picture depicts and deduce various things from it, e.g. how many cavalrymen charged, how compact their line was, etc. On the other hand, she may respond directly to the picture, so that it is as if she actually experiences the massed onslaught of the cavalrymen. For this type of person, the picture does not simply represent a state of affairs; rather, as the fine shades of her reaction show, the picture conjures up the event itself13.

Quando usiamo le parole non le intendiamo come simboli artificiali che veicolano un certo contenuto informativo: più spesso scegliamo le parole e le valutiamo così come confrontiamo diverse sfumature di colore o diverse essenze di profumo; molto più spesso le adottiamo senza una apparente spiegazione, perché così vanno bene.

Se le parole fossero semplicemente simboli da applicare, sempre allo stesso modo, a situazioni eguali, allora non vi sarebbe nessuna differenza tra un utente normale del linguaggio e quello che Wittgenstein chiama un “meaning-blind”, cioè un utente che tratta le parole così come si trattano i simboli di progetti tecnici; ma è evidente che se questa differenza deve essere mantenuta, allora vi è qualcosa nell’uso ordinario delle parole che sfugge ad una connotazione meramente notazionale o informazionale:

This suggests, first, that there are differences of meaning which cannot be explained in the normal way, and second, that there is a level of grasping a sentence which goes beyond recognizing its informational content. Both of these ideas are captured in Wittgenstein’s claim that understanding a sentence is like understanding a piece of music…14

 

Musicalità della proposizione

La filosofia dunque per comprendere appieno l’uso del linguaggio deve evitare di lasciarsi trasportare da quei pregiudizi teorici sintetizzabili nell’idea di “profondità” e di “essenza”, come se la comprensione linguistica di una proposizione richiedesse sempre il ricorso a qualcosa di estraneo al contenuto immanente della proposizione stessa.

Da questo punto di vista la comprensione di un enunciato presenta una forte affinità con la comprensione di un tema musicale15: l’afferramento cioè del contenuto della proposizione è già immanente e inerente alla proposizione stessa.

Scrive Wittgenstein nel Libro marrone:

Ciò che chiamiamo “comprender un enunciato” è, in molti casi, molto più simile al comprendere un tema musicale di quanto penseremmo . Ma non voglio dire che il comprender un tema musicale corrisponda all’immagine che noi tendiamo a farci della comprensione di un enunciato; ciò che voglio dire è, piuttosto, che quest’immagine della comprensione di un enunciato è errata e che il comprendere un enunciato è molto più simile di quanto sembri a prima vista a ciò che nella realtà accade quando noi comprendiamo una melodia. Infatti, comprendere un enunciato, noi diciamo, indica una realtà fuori dell’enunciato. Mentre invece si potrebbe dire: “Comprender un enunciato significa afferrare il suo contenuto; e il contenuto di un enunciato è nell’enunciato”16.

Quando ascolto un brano musicale, di norma, non collego ogni sua nota alla sua rappresentazione su un pentagramma ; la comprensione di un enunciato non è il frutto di una decodificazione dei suoi costituenti che colleghi due domini distinti: l’esterno (il suono prodotto) e l’interno (il significato delle parole presente nella mente). La comprensione è un fenomeno unitario ed immediato; essa è il risultato del riconoscimento di quell’atmosfera di familiarità da cui le nostre parole sembrano essere avvolte, analogo al riconoscimento di volti noti.

Le parole dunque, in questa interpretazione, si presentano con “facce” ed una stessa parola può avere anche facce separate che noi sappiamo distinguere in contesti differenti: per esempio le parole “stato” e “Stato” hanno impieghi differenti, pur pronunciandosi allo stesso modo.

Da ogni espressione linguistica possono dunque essere derivati aspetti o significati secondari, perché il linguaggio non è un insieme prefissato di regole, bensì una costellazione dinamica di forme che hanno una loro vita e che sono in grado di produrre altre forme derivate in base a nessi che non sono consequenziali, cioè che non sono coordinati da alcun criterio di coerenza. Se quest’ultimo infatti fosse l’unico criterio inappellabile cui affidarci nella comprensione del linguaggio, non si capirebbe, per esempio, per quale motivo avvertiamo come “freddi” certi sistemi linguistici inventati: il gioco del linguaggio è un giocoserio, una forma di vita (Lebensform), e non un esercizio futile e arbitrario17.

L’idea di “gioco” dunque, associata al funzionamento del linguaggio, non può essere intesa in senso superficiale; qui infatti non regna il caso, l’arbitrio, la convenzionalità più spinta, perché il terreno di radicamento del linguaggio è la vita con le sue durezze, resistenze; le associazioni tra parole non si formano per consequenzialità logica, ma obbediscono a logiche per le quali le nozioni di “appropriatezza” o “inappropriatezza” non hanno vigore:

Il problema è che “appropriato” non è ciò che si potrebbe esprimere con il verbo “passen zu”, ossia con termini quali “convenire”, “adattarsi” e simili, denotanti un nesso intrinseco ed essenziale tra parole e concetti18.

La relazione tra il nome e il suo portatore (Traeger)- investita dalla tradizione filosofica di connotati metafisici ed essenzialistici- diviene per il Nostro una “illusione” (Taeuschung) ed un “miraggio” (Spiegelung)19 a cui sostituire, invece, l’idea che oltre all’uso ordinario di una parola, il suo significato, ve ne è anche uno non convenzionale, per così dire figurato, una sorta di reverie che non contraddice in alcun modo il significato ordinario della parola. Questo senso figurato è quell’intreccio che la parola, nella nostra esperienza vissuta, intesse con altre significazioni del nostro contesto culturale e come tale esprime l’individuo che la pronuncia, imprimendo alla parola una impronta personale, una nuova atmosfera.

Viene fuori così tutta una problematica culturale, tutta una dimensione storica che però viene affrontata da Wittgenstein evitando ogni sostegno filosofico di tipo sostanzialistico; le parole acquistano cioè una profondità, uno spessore personale che tuttavia, paradossalmente, rimane sempre sulla superficie dell’utenza linguistica.

L’acquisto poi da parte delle parole di uno spessore personale, di una fisionomia individuale è dovuto al fatto che queste, intese organicamente, confluiscono in uno “stile” che marca la differenza tra individui differenti; lo stile è per Wittgenstein non solo la carta di identità di un utente linguistico, ma, in modo più generale, esso è anche il portato di una determinata epoca, cultura: qui si colgono per esempio alcuni paralleli tra Wittgenstein e Spengler20.

Il rimanere sulla superficie è il risultato di una riflessione sul linguaggio che non deve retrocedere fino alle condizioni trascendentali (in senso kantiano) del suo uso: semplicemente perché la base del linguaggio può essere espressa solo nel linguaggio; in quanto base poi, essa non può essere sottoposta ai criteri argomentativi ed inferenziali cui attingono le strutture che su questa si erigono: per questo motivo essa paradossalmente non può essere fondata e non può essere espressa in forma proposizionale; da qui l’attenzione estetica dell’ultimo Wittgenstein nei confronti del linguaggio.

Scrive infatti Andrea Birk:

he does not show the conditions of the experience Kant and others easily speak about, but he tries to demonstrate the base of language- expressing it in language. In other words, the language he uses is limited by the conditions he wants to illustrate… His main aim is to bring back to ordinary language and practice the philosopher who wants to make an assertion about the conditions of language and life which cannot be expressed in truth-claims…Clearly, to reach his aim Wittgenstein cannot write an assertive text consisting in arguments expressed by sentences with the logical form of a proposition, but he must find a non-propositional way of speaking21.

La ricerca d’altronde di un fondamento per il linguaggio ha prodotto, secondo Wittgenstein, solo fraintendimenti e confusioni, riportabili tutti all’idea che paradigmi e forme linguistiche differenti potessero essere assimilati a un unico modello grammaticale; da qui quella che Stephen Mulhall chiama la allucinazione di senso dovuta appunto all’assimilazione di pratiche e usi differenti che non possono rientrare in un modello univoco, come quando si vuole applicare in tutti i casi quel modello primitivo di grammatica secondo il quale il significato di un parola consisterebbe nel portatore di un nome, secondo la correlazione stretta (metafisica per Wittgenstein) oggetto-designazione (Gegenstand-Bezeichnung): un tale modello può andar bene per oggetti come mele, palle, matite, ma non, per esempio, per i colori22.

E poi come potrebbe mai tale modello adattarsi ad espressioni inaudite o ad espressioni che “si colorano” di una tinta differente da quella di cui sono rivestite in contesti ordinari?

Qui più che la correlazione “oggetto-designazione” entra in campo la ben più importante e significativa relazione tra la parola e le connessioni che il gioco linguistico in cui essa è usata intesse con l’intera cultura di una forma di vita.

Come forma di vita, il linguaggio non è qualcosa che abbiamo potuto scegliere; esso, al contrario, in quanto “immagine del mondo”, è qualcosa di ereditario, ovvero come dice Wittgenstein: “E’ lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso”23.

Le osservazioni fin qui fatte possono servire per delucidare il fenomeno del leggere che interessa molto il filosofo austriaco: l’elemento distintivo qui, non è rappresentato dal nesso causale che interverrebbe tra forma delle parole e proferimento delle stesse, ma piuttosto dalla ricerca di una ragione (Grund) del perché proferiamo le parole in quel modo, quando le leggiamo. Si è già visto come Wittgenstein ricorra, nell’analisi di questo fenomeno, più che a cause alla familiarità che abbiamo con alcune classi di espressioni, con lettere alfabetiche a noi note che, sembra, esercitino un vero e proprio influsso su di noi.

Come acutamente osservato da Gargani24 però, l’atmosfera determinata in cui le parole sono avvolte fa sorgere in noi la sensazione ingannevole che queste siano come provviste di un “alone speciale” che le accompagnerebbe il cui pendant, a parte subiecti, sarebbe l’altrettanto ingannevole sensazione che saremmo guidati da un misterioso processo psicologico. Wittgenstein è riduttivista nei confronti di questi “accompagnamenti”: il leggere deve essere riconducibile solo all’esperienza della familiarità degli interlocutori con alcune classi di simboli; questo alone misterioso che ricoprirebbe le parole sarebbe riconducibile cioè alla ripetizione ed all’aderenza immediata ai simboli del nostro linguaggio; esso sarebbe così, in ultima analisi, il risultato di una prassi linguistica inscritta in una particolare forma di vita.

Scrive Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche:

Allora, che cosa c’è nella proposizione: il leggere è ‘un processo del tutto particolare’? Essa vuol certamente dire che nel leggere ha sempre luogo un determinato processo, che noi riconosciamo. – Ma se una volta leggo una proposizione stampata e un’altra volta la scrivo in alfabeto Morse,- ha effettivamente luogo lo stesso processo mentale?----- Al contrario, c’è sicuramente uniformità nell’esperienza vissuta del leggere una pagina stampata. Infatti il processo è senz’altro uniforme. Ed è facilmente comprensibile come questo processo si differenzi da quello, poniamo, del farsi venire in mente parole dando un’occhiata a segni qualsiasi.- Infatti già la semplice vista di una riga stampata è straordinariamente caratteristica, è, cioè, un’immagine del tutto speciale; le lettere, tutte all’incirca della stessa grandezza, affini anche nella forma, e sempre ricorrenti; le parole, che in gran parte si ripetono continuamente e ci sonoestremamente familiari, proprio come volti ben noti.- Pensa al disagio che proviamo quando l’ortografia di una parola subisce un cambiamento. (E ai sentimenti ancor più profondi che le questioni di ortografia hanno suscitato.) Naturalmente, non tutte le forme dei segni si sono impresse in noi profondamente. Per esempio, un segno dell’algebra della logica può venir sostituito da un altro qualsiasi senza che ciò susciti in noi sentimenti profondi.-

Poni mente la fatto che l’aspetto di una parola ci è familiare in grado analogo a quello in cui ci è familiare il suo suono25.

Nel leggere una parola, l’unica cosa in gioco sembra dunque essere il riconoscimento, per così dire, della sua grammatica superficiale, del suo aspetto allo sguardo: un riconoscimento che è già predelineato dall’aspettativa che le parole di un testo stampato siano, si direbbe oggi, tutte formattate in un certo modo, seguano tutte una certa regola di scritturazione.

Quando il mio sguardo scorre su una riga di parole che ho già letto in precedenza o è formattata in un modo a me consueto, allora esso sembra non incontrare resistenza:

Inoltre, lo sguardo scorre su una riga di parole stampate diversamente da come scorre su una fila di uncini e svolazzi qualsiasi … Lo sguardo scorre- si vorrebbe dire- senza incontrare resistenze particolari, senza incepparsi: e ciò nonostante non sdrucciola 26

L’esperienza che si avrebbe tuttavia, nel leggere, di un influsso delle parole su di noi o di un nesso causale che collega il guardare le lettere con il parlare, è per così dire autoindotta nella misura in cui essa è intenzionalmente e deliberatamente intrapresa: in un caso del genere allora, si immagina di percepire una sorta di meccanismo che dovrebbe fungere da collegamento tra l’immagine della parola e il suono che emettiamo, il movimento cioè di “una leva che collega il guardare le lettere con il parlare”. Quando tuttavia leggiamo in modo abituale, non pensando alla nozione di “leggere”, i fenomeni di cui sopra, ci dice Wittgenstein, non si fanno avanti:

Ma adesso leggi un paio di proposizioni stampate, come fai abitualmente quando non pensi al concetto di leggere; e domandati se leggendo ha avuto quelle tali esperienze vissute di unità, d’influsso, e così via.- Non dirmi che le hai avute inconsciamente! E non lasciamoci neppur sedurre dall’immagine secondo cui questi fenomeni si sono rivelati ‘guardando più da vicino’! Se devo descrivere un oggetto come appare in lontananza, questa descrizione non diventa più esatta per il fatto che dico che cosa si può notare guardandolo da vicino27.

Le obiezioni dunque fatte valere da Wittgenstein nei confronti di un approccio metafisico a nozioni come “leggere” ( o “causalità”) sono le dirette conseguenze del suo esternalismo che rifiuta la “coesione analitica”28 tra un elemento dell’espressione (immagine, lettera alfabetica, nome) e l’altro (il suono corrispondente) come se queste componenti fossero fuse l’una con l’altra. Questi bernoccoli metafisici si verificano quando invece, per esempio, di leggere, speculiamo filosoficamente sulla nozione di leggere o su quella di “seguire una regola”; atteggiamento metafisico che deriverebbe anche da quello che Wittgenstein chiama “l’uso intransitivo” di una espressione: ovvero dal ripiegamento dell’espressione su se stessa, fuori da ogni contesto.

Viene fuori qui anche l’eliminazione compiuta da Wittgenstein di tutta la mitologia che accompagna la nozione di significato intesa o come entità annessa alle parole in virtù di una relazione di corrispondenza esistente tra simboli e realtà (realismo), oppure come presunta relazione tra simboli da una parte e processi misteriosi e nascosti che avvengono nella mente dall’altra: la connessione tra linguaggio e realtà è fondata all’interno dello stesso linguaggio dove non vi è né un primo piano né un secondo piano; è questo il motivo che spinge il filosofo austriaco a far emergere l’importanza di casi concreti ed esemplari di fronte alle generalizzazioni offerte dalla tradizione filosofica:

Il luogo grammaticale della parola “gioco”, “regola”, ecc. si dà per mezzo di esempi, così come, poniamo, il luogo di un abboccamento si dà dicendo che esso avverrà presso quest’albero così e così29.

Messa in crisi l’idea di corrispondenza tra linguaggio e realtà, viene a cadere un altro assunto metafisico, quello cioè che fa perno sulla possibilità di rappresentare o raffigurare in qualche modo la pratica linguistica; per Wittgenstein infatti, questa è opaca, cioè refrattaria a rappresentazioni o immagini che emergono solo ex post e non durante lo svolgimento del processo linguistico: da questo punto di vista allora, il “seguire una regola” non presuppone un processo parallelo e nascosto che preadombri (foreshadow), in un dominio precedente a quello linguistico, ciò che in questo deve avvenire in un secondo momento.

Accettare questa versione della prassi linguistica significa in qualche modo accogliere l’idea che questa proceda alla stessa guisa in cui procede un giocatore di scacchi che faccia le sue mosse sulla scacchiera senza giustificazioni o spiegazioni; ciò denota l’attenzione del filosofo austriaco nei confronti nontanto dell’interpretazione delle regole, soggetta come è a quella logica del doppio che l’uso intransitivo della parola ci ha mostrato, bensì alla loro applicazione:

Il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d’agire, poiché qualsiasi modo d’agire può essere messo d’accordo con la regola. La risposta è stata: Se può essere messo d’accordo con la regola potrà anche essere messo in contraddizione con essa. Qui non esistono, pertanto, né concordanza, né contraddizione.

Che si tratti di un fraintendimento si può già vedere dal fatto che in questa argomentazione avanziamo un’interpretazione dopo l’altra; come se ogni singola interpretazione ci tranquillizzasse almeno per un momento, finché non pensiamo a un’interpretazione che a sua volta sta dietro la prima. Vale a dire: con ciò facciamo vedere che esiste un modo di concepire un a regola che non è un’interpretazione, ma che si manifesta, per ogni singolo caso d’applicazione, in ciò che chiamiamo <<seguire la regola>> e >>contravvenire ad essa>>.

Per questa ragione esiste una tendenza a dire che ogni agire secondo una regola è un’interpretazione. Invece si dovrebbe chiamare <<interpretazione>> soltanto la sostituzione di un’espressione della regola a un’altra30.

In questo senso si capisce anche perché Wittgenstein ricorra alla caratterizzazione del linguaggio nei termini della fisionomia: quando questo infatti è spogliato di ogni alone mentalistico o metafisico ciò che rimane è il linguaggio stesso, la sua autonomia da ogni processo di accompagnamento raffigurativo:

La fisionomia familiare di una parola, la sensazione che essa abbia assorbito in sé il suo significato, che sia il ritratto del suo significato:-potrebbero esistere uomini a i quali tutto ciò è estraneo. (A costoro mancherebbe l’attaccamento alle loro parole.)- E come si manifestano, tra noi, queste sensazioni?- nel fatto che scegliamo e valutiamo le parole31.

Se dunque il linguaggio è caratterizzato in termini fisiognomici, allora la sua analisi non può prescindere dalla considerazione che valori e interessi hanno nella prassi linguistica32; a ciò si aggiunga che un tale approccio mina alle basi la differenza sostantiva tra grammatica superficiale (Oberflaechengrammatik) e grammatica profonda (Tiefengrammatik), visto che la prima non è più vista in opposizione alla seconda.

Al contrario, la proposizione d’ora in poi è riconosciuta solo sulla base della sua morfologia e non più, come nel Tractatus, nei termini di una conformità o meno al vero; ciò che conta quindi, ai fini della comprensione della proposizione, è solo un fatto esterno, come quello che ci consente di riconoscere il suono proposizionale e di distinguere proposizioni reali e significanti da proposizioni che non lo sono:

Tra i fattori esterni che Wittgenstein assume ha una funzione rilevante il paradigma di qualcosa “che suona come una proposizione”. La grammatica superficiale mediante la prassi dell’afferrare qualcosa con l’orecchio e mediante il riconoscimento del suono proposizionale consente di distinguere quali sono le proposizioni reali e significanti entro le possibilità combinatorie di enunciati quali “Oggi è piovoso”, “Oggi è freddo” da un lato e dall’altro “π si è comportato coraggiosamente”, “Il do di mezzo del pianoforte suona putrido”33.

L’idea che la distinzione tra proposizioni reali e significanti e proposizioni che non lo sono possa essere, per così dire, letteralmente afferrata con l’orecchio consolida ancora di più l’accostamento qui indagato tra musica e proposizione: se infatti per la comprensione di un pezzo musicale non valgono regole di correttezza estetica, alla stessa stregua, la comprensione di una proposizione non dipende dall’applicazione di una qualche regola che accompagni l’ascolto della stessa. Comprendiamo un pezzo musicale solo perché siamo stati educati in una cultura, ragion per cui la nostra sensibilità musicale è solo in parte una caratteristica individuale:

Infatti come si fa a spiegare che cos’è il ‘suonare con espressione’? Certo non attraverso qualcosa che accompagni l’esecuzione.- Allora che cos’altro ci vuole per spiegarlo? Una cultura, si vorrebbe dire.- A chi è stato educato in una determinata cultura, e che quindi ha nei confronti della musica queste e queste reazioni, si potrà insegnare l’uso delle parole <<suonare con espressione>>34.

La nostra relazione dunque nei confronti della musica è diretta e non abbisogna di un sistema di regole che coordini o correli la musica con la nostra comprensione della stessa; la musica, come la proposizione, non si estende oltre se stessa: è la nostra reazione alla musica che connette questa con il dominio non musicale della realtà35.

L’ascolto dunque di un pezzo musicale, la sua comprensione non è dettato o predelineato da alcuna regola, se a questa si vuole ascrivere il significato metaforico di una corda in grado di legare i diversi passaggi applicativi della stessa. La razionalità, così come intesa dal filosofo austriaco, non è uno stato di costrizionesotto regole e queste non sono concepite per sottoporre l’uso del linguaggio ad una forma di razionalità coattiva, bensì per dissolvere crampi mentali.

Scrive Johnston:

What is important here is the directness of our relation to the music, for we do not have to learn a system of correlations between the music and our lives, rather our response takes that form immediately. We listen and make connections even though there is no system of rules to justify those connections36.

Rifiutare alla comprensione di un enunciato , sulla base del modello dell’ascolto di una melodia, il suo accompagnamento mentale, significa per Wittgenstein, ancora una volta, rifiutare quella logica doppia dell’uso intransitivo delle parole, fondata su una strategia di duplicazione in grado di creare continuamente metalinguaggi , aggiornando così la lunga tradizione del rappresentazionalismo.

Scrive su questo punto Gargani:

The enduring difficulty with the notion of truth as correspondence with reality, facts, sense-data and the like depends on a philosophical move centered on a strategy of duplication, on a logic of the double. Wittgenstein’s getting rid of representationalism and of what I referred to above as the ‘logic of the double’ leads him to discard any metalinguistic stance37.

L’uso di argomenti scettici, da parte di Wittgenstein, finalizzati a scardinare le pseudo-spiegazioni scientifiche non affetta in alcun modo le nostre pratiche quotidiane di commercio con il mondo, mostrandole precarie o infondate: esso, piuttosto, mira a liberarci, terapeuticamente, dal bisogno patologico, radicato nella cultura occidentale, di trovare dovunque spiegazioni e giustificazioni.

Scrive su questo punto Antony Rudd:

But skepticism about metaphysical explanations need not translate into skepticism about the everyday practices that those explanations were supposed to explain38.

E’ proprio un paradosso scettico alla fine che ci fa desistere dal bisogno di interpretare una regola piuttosto che di obbedire semplicemente alla stessa, oppure dall’illusione che ci porta a duplicare le nostre esperienze secondo lo schema interno-esterno.

 

Abbreviazioni delle opere di Wittgenstein

CE Causa ed effetto, Einaudi, Torino 2006.

DC Della certezza, Einaudi, Torino 1978.

LB Libro blu e libro marrone, Einaudi, Torino 1983.

GF Grammatica filosofica, La Nuova Italia, Firenze 1990.

OC Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino 1981.

PD Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980.

RF Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1996.

TLPTractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964.

US Ultimi scritti, 1948-1951. La filosofia della psicologia, Laterza, Roma-Bari 1998.

Z Zettel, Einaudi, Torino 1986.

 

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Note con rimando automatico al testo

1 RF,§258.

2 RF, §259.

3 Cfr. US, §726;si veda anche RF, §117 in cui Wittgenstein afferma: “Mi si dice: << Tu comprendi, vero, quest’espressione? Ebbene,- anch’io la uso nel significato che tu conosci>>.- Come se il significato fosse un’atmosfera che la parola ha con sé e che si porta dietro in ogni sorta d’impiego … Se, ad esempio, uno dicesse che la proposizione <<Questo è qui>> (pronunciata indicando un oggetto davanti a sé) ha senso per lui, allora dovrebbe chiedersi in quali circostanze si impieghi effettivamente questa proposizione. In queste circostanze essa ha senso”.

4 Cfr. DC, §225, §229

5 Cfr. A. G. Gargani , Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Cortina, Milano 2008, p.3.

6 RF, §142.

7 Cfr. DC, 210, §232, §248; cfr. anche CE,24.

8 RF, §107.

9 RF, § 97. Il riferimento alla proposizione 5.5563 del Tractatus è il seguente: “Tutte le proposizioni del nostro linguaggio comune sono di fatto, così come esse sono, in perfetto ordine logico.- Quel quid semplicissimo che noi qui dobbiamo indicare è non una similitudine della verità, ma la verità stessa nella sua pienezza. (I nostri problemi non sono astratti, ma forse i più concreti che vi siano)” (TLP, 5.5563).

10 RF, §108.

11 RF, §109.

12 RF, §123.

13 P. Johnston, Wittgenstein: Rethinking the Inner, Routledge, London 1993, pp.102-103.

14 Ivi, p.104.

15 L’affinità tra comprensione di una proposizione e comprensione di un tema musicale è resa evidente da Wittgenstein nel §527 delle Ricerche filosofiche: “Il comprendere una proposizione del linguaggio è molto più affine al comprendere un tema musicale di quanto forse non si creda. Ma io la intendo così: che il comprendere la proposizione del linguaggio è più vicino di quanto non si pensi a ciò che di solito si chiama comprendere il tema musicale. Perché il colorito e il tempo devono muoversi proprio secondo questa linea? Si vorrebbe dire:<<Perché io so che cosa voglia dire tutto questo>>. Ma che cosa vuol dire? Non saprei dirlo. Per darne una ‘spiegazione’ potrei paragonare il tema con qualcos’altro che ha lo stesso ritmo (voglio dire, la stessa linea). (Si dice <<Non vedi? Qui è come se si fosse tratta una conclusione>> oppure: <<Questo è come una parentesi>>, ecc. Come si giustificano questi paragoni?- Qui ci sono giustificazioni di generi molto diversi)”.

16 LB, 213.

17 Scrive Wittgenstein: “Esperanto. Il senso di ribrezzo, quando pronunciamo una parola inventata con derivazioni inventate. La parola è fredda, non ha associazioni e gioca però al ‘linguaggio’. Un sistema di segni che venisse soltanto scritto non ci farebbe altrettanto ribrezzo” (PD, 100).

18 A.G. Gargani, cit., p.5.

19 Scrive infatti Wittgenstein: “Un’aggiunta sarebbe però un’estensione; e qui non c’è proprio nessuna estensione. Infatti, non si chiama un “accordarsi” ciò che propriamente non è un accordarsi. Come se si estendesse semplicemente questo concetto. Al contrario, qui ci troviamo di fronte a un’illusione (Taeuschung), a un miraggio (Spiegelung). Noi crediamo di vedere ciò che non c’è. Ma è soltanto pressappoco così. - Sappiamo bene che il nome ‘Schubert’ non si trova in alcuna relazione con il suo portatore e con le opere di Schubert; e non di meno noi siamo sotto una coazione (Zwang) a esprimerci in questo modo” (US I, §69).

20 Cfr. J. Schulte, Coro e legge. Wittgenstein e il suo contesto, Pensa Multimedia, Lecce 2007, pp.61-67.

21 A. Birk, “The Later Wittgenstein and His Readers”, in A. Coliva, E. Picardi (EDITORS), Wittgenstein Today, Il Poligrafo, Padova 2004.

22 La logica infatti cui obbediscono i nomi dei colori è completamente differente da quella che invece inerisce a nomi ci oggetti comuni: se nel primo caso infatti le proposizioni che esprime hanno una natura atemporale, trattando di relazioni interne, nel secondo caso invece si ha a che fare con relazioni esterne e temporali. Scrive Wittgenstein:“Ecco un giuoco linguistico: riferire se un determinato corpo è più chiaro o più scuro di un altro.- ma ora eccone un altro affine: Enunciare qualcosa sulla relazione tra la chiarezza di due determinate tonalità di colore. (Si può paragonare con questo: Determinare la relazione tra la lunghezza di due sbarre- e la relazione tra due numeri).- Nei due giuochi linguistici la forma delle proposizioni è la medesima: <<X è più chiaro di Y>>. Ma nel primo caso si tratta di una relazione esterna e la proposizione è temporale, nel secondo caso si tratta di una relazione interna e la proposizione è atemporale” (OC, 3).

23 DC, §94.

24 Cfr. A.G. Gargani, cit., p.78.

25 RF, § 92.

26 RF, § 168.

27 RF, § 171.

28 A.G. Gargani, cit., p.81.

29 GF I, § 74. Si veda anche OC, 40 in cui, fra l’altro, scrive Wittgenstein: “In filosofia non è soltanto necessario imparare caso per caso che cosa si debba dire su un certo oggetto; è anche necessario imparare come se ne debba parlare. Si deve imparare, sempre di nuovo, il metodo per affrontarlo”.

30 RF, §201.

31A.G. Gargani, cit., p.91.

32 L’apprendimento del linguaggio si configura quindi come la condivisione di interessi, di sentimenti, di modi di risposta che, per usare lo slogan di Putnam, non sono nella nostra mente e non abitano neanche in un mondo platonico. Scrive su questo punto Stanley Cavell: “We learn and teach words in certain contexts, and then we are expected, and expect others, to be able to project them into further contexts. Nothing insures that the projection will take place (in particular, not the grasping of universals, nor the grasping of books of rules) just as nothing insures that we will make, and understand, the same projections. That on the whole we do is a matter of our sharing routes of interest and feeling, modes of response, sense of humor and of significance and of fulfillment, of what is outrageous, of what is similar to what else, what a rebuke, what forgiveness, of when an utterance is an assertion, when an appeal, when an explanation- all the whirl of organism Wittgenstein calls ‘forms of life’. Human speech and activity, sanity and community, rest upon nothing more but nothing less than this. It is a vision as simple as it is difficult, and as difficult as it is (and because it is) terrifying” (S. Cavell, “The Availability of Wittgenstein’s Later Philosophy” in Id., Must We Mean What We Say?, Cambridge University Press, Cambridge 1969, p.52).

33A.G. Gargani, cit., p.93.

34 L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano 1990, p.449. Su questo punto scrive Paul Johnston: “Understanding music involves responding to it in a certain way, but the basis of that response cannot beexplicitly or systematically learnt. We are not taught rules for understanding music; rather we come to respond to it and in a way which, although spontaneous, is still often shared” (Johnston, cit., p.106).

35 Cfr. Z, §175.

36 P. Johnston, cit., p.107.

37 A.G.Gargani, “Thematic continuities in Wittgenstein’s work”, in A. Coliva, E. Picardi, “Wittgenstein today”, cit., pp.435-436.

38 A. Rudd, Expressing the World. Skepticism, Wittgenstein, and Heidegger, Open Court, Chicago, Illinois 2003, p.78; cfr. su questo punto anche G. Baker, P. Hacker, Skepticism, Rules and Language, Blackwell, Oxford, 1984.