Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Assenza/voci, La freccia e il cerchio n. 5


La freccia e il cerchio
 
Assenza/voci  2014 Cinque
 

La scuola di Pitagora editrice
ISSN 2037-5069, ISBN 978-88-6542-318-9
pp. 282, euro 30

Testi di  
G. Montesano, M. Palumbo, B. Moroncini,
L. Arcari, L. Faranda, C. Ghidini,
E. Rialti, M. Bettini, M. Miniello, Y. Naho,
M. Di Michele, R. Tempesta, R. Rondoni

 



Da un lato l’assenza di Dio, dall’altro le vociferazioni del mondo, di un mondo sempre più (almeno in apparenza) senza Dio. Al di là delle differenze e dell’eterogeneità delle scritture, questo numero de La freccia e il cerchio, appare percorso, in modo esplicito ed implicito, da questa opposizione.

Un’assenza, quella di Dio, che in alcuni testi (ad esempio in quello di Luca Arcari oppure nel dialogo introduttivo tra Giuseppe Montesano e Matteo Palumbo) è implicitamente usata come un (cripto-)paradigma dell’assenza, di quell’assenza che è una presenza: Dio non lo si può dire, ma il suo silenzio è la sua presenza. Ed è il suo “potere”, il suo tremendo potere. Al silenzio (presenza) di Dio si oppone il confuso chiasso della vita metropolitana e mediatica. Questa opposizione a volte appare come un semplice dato descrittivo: da un lato si constata che non c’è più Dio in questo mondo, quindi non c’è più il suo silenzio; dall’altro si descrive la confusione vociferante di questo stesso mondo. Tuttavia, è evidente che non si tratta di una semplice constatazione. Fino a che il silenzio, l’assenza saranno concepiti in questo modo, infatti, ne seguirà che tutte le volte che li invocheremo contro il confuso brusio delle voci di questo mondo “agglomerato” (per dirla con il migliore Nancy, quello di Corpus) staremo invocando Dio. Ma non la finiremo mai di invocarlo? Non la finiremo mai di invocare il giudizio di Dio? Domanda artaudiana, su cui si interroga, non a caso dato il tema, il saggio più filosofico della raccolta, quello di Bruno Moroncini.

La linea interpretativa che Moroncini segue per leggere Artaud è quella tracciata da Derrida, che di sicuro è stato in grado di avvicinarsi all’affaire Artaud più di qualsiasi altro pensatore, compreso Deleuze. A parere di Derrida, in Artaud è all’opera il mito dell’auto-creazione e della presunta pienezza del corpo, di un corpo che fino all’estremo combatte contro Dio, vale a dire contro la Società, la Famiglia, il Manicomio, il Capitale; Artaud combatte contro chi gli ha sottratto il corpo. Così facendo (sto semplificando) egli finisce per rigettare, con Dio, anche l’altro, il linguaggio, la scrittura, il principio stesso della differenza. Tuttavia, in questo parossistico rifiuto della differenza e della scrittura, Artaud produce iscrizioni vocali, glossolalie.

La strada che Artaud imbocca per sottrarsi al giudizio di Dio, vale a dire per sottrarsi al Nome di Dio, che è sempre in qualche modo all’opera dietro il Nome del Padre, per dirla con Lacan, è la strada psicotica della forclusione del simbolico. Solo allora accade che i vocalizzi, le glossolalie, la lalangue cui egli approda si sottraggano davvero a giudizio di Dio. Nelle voci c’è sempre un godimento in più, un godimento che si sottrae all’impero del senso e del simbolico.

Moroncini, tuttavia, indica anche un’altra strada di intreccio tra assenza e voci, anch’essa ispirata da Derrida, ma da quello della conferenza Feu la cendre (titolo che, nella traduzione italiana di Stefano Agosti, suona Ciò che resta del fuoco). È una strada che abbandona la vocalità, vale a dire la corporeità della voce, per avvicinare, potremmo dire, il fenomeno stesso della voce in quanto gesto responsivo alla pro-vocazione dell’altro. Questa pro-vocazione fatta “a voce” non può essere conservata se non come scrittura, egli argomenta, in particolare come scrittura drammaturgica e “dialogica” (per quanto in questo modo ci si allontani un po’ da Artaud), come scrittura in cui teatro e filosofia convergono verso un comune riferimento alla fiamma del discorso, ai discorsi infiammati attraverso i quali le singolarità delle voci si intrecciano, a volte si confondono, si perdono, si ritrovano. Il fuoco della voce, in quella vera e propria scrittura fono-grammatografica che è quella drammaturgica, si dà solo come afono (vedi p. 74). «In realtà – scrive Moroncini – lo scritto evoca una voce, o più precisamente rievoca un’a-voce che può giungere a noi solo come voce scritta. Mentre leggiamo, insomma, muti come pesci, ci raggiunge una comunicazione a voce alla quale al momento opportuno è mancata la voce per potersi dire» (ivi).

Insomma – sembra essere questa l’indicazione che è possibile trarre dal saggio di Moroncini – non è possibile sfuggire, come ha tentato di fare Artaud, al “giudizio di Dio”, sfuggendo ai nomi del Padre, a meno di non cercare una problematica salvezza “artistica” sulla strada della psicosi, come hanno fatto Joyce e lo stesso Artaud. Al “giudizio di Dio” è possibile sfuggire davvero solo “singolarmente” attingendo a quel fondo perduto (e conservato) delle voci di tutti quegli altri ai quali, come a noi, «al momento opportuno è mancata la voce per potersi dire».

Se l’assenza di Dio è una presenza che ci opprime e non ci fa vivere, l’assenza di quelle voci è uno scacco, una mancata iscrizione, una mancata presenza, che ci concede la possibilità di (tentare) di esistere.