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Recalcati e il desiderio del padre. Una doppia recensione


 

 

Massimo Recalcati

Cosa resta del padre?
La paternità nell’epoca ipermoderna


Raffaello Cortina, Milano 2011
pp. 189
ISBN 9788860303844
euro 14,00

 

 



Massimo Recalcati

Ritratti del desiderio



Raffaello Cortina, Milano 2012
pp. 190
ISBN 9788860304445
euro 14,00

 





1. In un fortunato volume di qualche anno fa (L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina 2010, anch’esso da me recensito sul portale di Kainos) Massimo Recalcati ha chiamato ‘uomo senza inconscio’ il tipo psichico emergente dal tardo capitalismo, caratterizzato da una nuova incapacità di accesso al simbolico, che si traduce in una nuova incapacità di capire il senso della Legge, di qualsiasi legge, e anche di qualsiasi alterità (in primis quella paterna, incapace dunque di soggettivarsi attraverso l’interdizione simbolica, simbolicamente castrante, del Nome-del-Padre): un individuo cinico e narcisista, ma anche molto conformista, che tende a sostituire il desiderio con un godimento schiacciato sul consumo di oggetti, in quello che Recalcati definisce totalitarismo dell’oggetto.

Sul piano socioeconomico, questa nuova tipologia psichica sembra essere il prodotto di quello che Lacan all’inizio degli anni settanta abbozzò come ‘discorso del capitalista’, il quale andava ad innestarsi sull’eclissi del padre edipico tradizionale, autoritario e repressivo. Il capitalista infatti promette (e al tempo stesso impone, comanda) al consumatore il godimento dell’oggetto, il godimento assoluto, che però per Lacan è strutturalmente inaccessibile (perché barrato come il piccolo oggetto a), quindi impossibile da trovare negli oggetti metonimicamente desiderati. Il capitalista lo sa, ma spaccia per salvezza la sua ingiunzione compulsiva (cfr. Cosa resta del padre? p. 45), che coincide con un’esperienza maniacale dell’obsolescenza istantanea dell’oggetto e nasconde quindi una tendenza mortifera. In tal senso il godimento “postideologico” (cfr. Cosa resta del padre?, p. 53) veicolato dall’attuale consumismo mediatico, che dilaga travestito da desiderio, un godimento perverso e letteralmente assoluto, cioè slegato da ogni vincolo, è la faccia sociale della pulsione di morte; nei termini di Bernard Stiegler (cfr. il suo Reincantare il mondo, Orthotes, Napoli 2012), i media sono diventati pulsionali perché da diversi decenni le industrie culturali sfruttano il desiderio umano, ma quanto più lo sfruttano tanto più lo distruggono, ossia lo sostituiscono con la pulsione: per Stiegler oggi le persone hanno sempre meno desideri e sempre più pulsioni.

In Cosa resta del padre? Recalcati riprende questi temi in chiave quasi divulgativa, partendo dall’idea lacaniana secondo cui ci troviamo in un’epoca di evaporazione del padre, e, con la consapevolezza clinica del disagio (non solo familiare) che nasce da questo epocale indebolimento, propone diverse forme o esperienze di paternità (nonché di filialità) capaci di sopportarlo.

Egli muove dall’assunto secondo cui il padre ideale non esiste, anzi non è mai esistito, e “la nevrosi è un modo per fare esistere il padre ideale proprio perché si è visto bene che reale non lo è affatto” (Cosa resta del padre?, p. 35). Invece di ostinarsi a credere al padre ideale nonostante il padre reale e castrato (con un evidente meccanismo di Verleugnung, di disconoscimento), invece di avere nostalgia per il padre edipico e castrante che pretendeva di incarnare la Legge, o di assecondare il godimento distruttivo che dilaga in assenza del Padre, Recalcati intende mostrare una terza via: né ritorno al padre edipico repressivo, né abbandono della figura paterna in nome di un’esaltazione cinico-materialistica della pulsione di godimento, ma insistenza su un padre che testimonia il carattere particolare, ed esposto al fallimento, del proprio desiderio, un padre capace di capire il desiderio dei propri figli, un padre non necessariamente biologico (per Lacan chiunque può essere padre, svolgerne la funzione significante) che sia incarnazione singolare non tanto della Legge quanto appunto del desiderio – desiderio di divenire se stessi e desiderio dell’altro (non certo del Grande Altro, il quale non è mai un singolo ma il Dio senza nome, il padre come funzione significante vuota e tirannica). Pensare un padre reale nel mondo ipermoderno significa insomma pensarlo come altro minuscolo, che può mostrarsi debole e fragile (cfr. la splendida analisi del racconto di Philip Roth Patrimonio, in Cosa resta del padre?, pp. 119-153) ma sa anche garantire al figlio l’accesso al simbolico, senza passare per la follia dispotica (e psicotizzante, cfr. Cosa resta del padre?,p. 41) del Padre che ha caratterizzato i regimi totalitari, o senza cedere alla caricatura grottesca del Padre perverso che, anche secondo Žižek, ha preso forma nella politica contemporanea (cfr. il suo ormai classico Il godimento come fattore politico, Cortina, Milano 2001). Mentre “il padre che si pone come testimone esemplare di cosa deve essere una vita giusta è ancora una volta il padre terribile della psicosi” (Cosa resta del padre?, p. 83) dei figli, ma anche la sua prima vittima, proprio perché cerca di attuare in modo paranoico la vita giusta, il padre che ha in mente Recalcati non può essere delirante, onnipotente, onnisciente, ma neppure laido e osceno; non può avere una risposta su tutto, ma deve limitarsi a garantire, o a rendere possibile attraverso la sua testimonianza la trasmissione del desiderio, che implica un vuoto di conoscenza, un’assenza, un’insufficienza umana: “È solamente attorno a questo vuoto di sapere, a questo impossibile da sapere, che una trasmissione [del desiderio di sapere] può avvenire” (Cosa resta del padre?, p. 63), divenire consapevole o accadere senza garanzie, in senso freudiano e derridiano: werden, a-venir.

In altre parole, il padre non è Dio, ma vorrebbe molto umanamente esserlo agli occhi del figlio, il quale a sua volta, fin troppo umanamente, lo divinizza; il problema fondamentale di Recalcati (e non solo il suo) consiste, a mio avviso, nell’umanizzarlo senza sdivinizzarlo del tutto. Perciò è a partire da questo problema, o meglio da questa relazione problematica, che ho cercato di analizzare criticamente Cosa resta del padre?, ponendo infine al suo autore una domanda molto personale che, per così dire, rimbalza sull’altro recentissimo libro dello psicoanalista lacaniano, Ritratti del desiderio: chi è suo padre, e cosa resta di lui?


2. Per capire l’attuale eclissi della figura paterna e dell’ordine simbolico da essa rappresentato, bisogna partire dalla struttura relazionale in cui questa figura agisce ormai per difetto. Il teatro sociale dell’evaporazione del padre è la famiglia in quanto forma culturale, dunque non naturale e non eterna, dei legami esistenti tra gli individui. Da questo punto di vista, non esiste alcun istinto puro di paternità (o di maternità: cfr. Cosa resta del padre?, p. 88), nessuna naturalità dell’amore filiale: se, per usare i termini di Pierre Bourdieu (cfr. Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 2009), lo spirito di famiglia è un habitus prodotto dallo Stato moderno, in termini hegeliani molto poco ortodossi le famiglie dovrebbero lavorare per togliersi, cioè per esser superate da un soggetto che, invece di aderire all’universalità dello Stato, afferma il desiderio di riconoscimento della propria soggettività: “Il legame familiare dovrebbe essere quel legame che rende possibile l’allontanamento perché dovrebbe saper accogliere il rivelarsi della differenza singolare” (Cosa resta del padre?, p. 93). L’esigenza, nonché l’urgenza di desiderare il proprio desiderio (di renderlo autocosciente, per restare ad Hegel) è insomma una forza che allontana dal nucleo familiare, è antifamilismo, sradicamento o uscita; ma, allo stesso tempo, il soggetto deve fare esperienza dell’ostacolo nel legame o del legame come ostacolo, perché se non vi è barriera o interdizione espressa dall’alterità, se in termini sempre hegeliani non si attraversa il dolore della scissione, non vi può essere formazione, trasmissione, desiderio (cfr. Cosa resta del padre?, p. 95): non si innesca il processo di soggettivazione.

Nell’affermare la necessità del conflitto e della sua articolazione simbolica per giungere a una forma più avanzata di legame, Recalcati va dritto al cuore del familismo contemporaneo. In una prospettiva sociologica, oggi ci troviamo infatti di fronte a due dinamiche solo apparentemente opposte, in realtà complementari: da un lato le microcomunità religiose, politiche o territoriali funzionano come surrogati di famiglie nucleari psichicamente deboli, precarie e al tempo stesso consumiste (quindi spesso indebitate), allargate o addirittura distrutte, in cui il padre non ha più alcun potere economico e/o simbolico; dall’altro lato, però, la famiglia nucleare funziona come surrogato psichico delle microcomunità erose dall’atomismo tardo-capitalistico, come monade ‘naturalmente’ chiusa in un atteggiamento protettivo e difensivo al limite della paranoia, quindi potenzialmente psicotica. Stretta in questa sorta di doppio legame (che viene sentito come tanto più sacro quanto più risulta indebolito, banalizzato), la famiglia ipermoderna presenta una omogeneità solo apparentemente pacificata e priva di scontri: uno scenario superficialmente dialogico in cui i bambini sembrano equivalenti ai genitori, le madri alle figlie, i padri ai figli (cfr. Cosa resta del padre?, p. 98), ma in cui i conflitti latenti, non simbolizzati, sono pronti ad esplodere.

Com’è ormai ampiamente documentato dalla clinica, nelle famiglie ipermoderne l’affermazione del dio-bambino e della sua volontà assoluta riflette l’esigenza da parte dei genitori di sentirsi amati dai loro figli1. Si tratta di un ribaltamento davvero epocale del legame familiare moderno, borghese, su cui Freud aveva costruito l’Edipo: non sono più i figli a chiedere l’amore, ma i genitori ad elemosinarlo; essi dicono sempre di sì per risultare amabili, e soprattutto perché non riescono a reggere il conflitto, né con loro né con i partner. D’altra parte lo scacco, il fallimento, l’insuccesso dei figli sono sempre meno tollerati (cfr. Cosa resta del padre?, p. 110), e spesso scoppiano nella vita familiare come bombe a orologeria, poiché infrangono sulle rocce del reale le attese e le angosce narcisistiche dei genitori.

La diagnosi psicosociale è piuttosto facile, ma al tempo stesso assai allarmante: grazie al dilagare intergenerazionale di un ottuso godimento dell’oggetto promosso dal discorso del capitalista, siamo ormai in assenza di adulti, dunque nell’impossibilità di percepire la differenza tra adulti e adolescenti/bambini. In questa situazione di mancata soggettivazione parentale (e, di riflesso, filiale), in cui da un lato i legami divengono estremamente labili o estremamente soffocanti, dall’altro i conflitti diventano pericolosi perché non elaborati né linguisticamente attraversati, il discorso di Recalcati sulla paternità si inserisce con una non consolatoria funzione di counseling: per essere genitori, oggi, bisogna istillare nei propri figli il senso del limite, ma anche il desiderio come potenza progettuale e come fede nell’avvenire – come speranza (cfr. Ritratti del desiderio, p. 17). In termini freudiani, non si può aggirare (simbolicamente) la castrazione, come fa invece il discorso sociale dominante, così come non si può aggirare la conflittualità nei rapporti interpersonali (non solo quelli tra genitori e figli).

 

3. Un primo elemento di riflessione intorno a questa proposta analitica, riguarda il rapporto tra paternità e sapere. Secondo Recalcati nella ipermodernità (che sembra coincidere con un fallimento della modernità o, in termini hegeliani, della sua oggettività storico-culturale) il potere dell’interdizione, la simbolicità della Legge, non possono più essere affidati a istituzioni forti come la scuola, la famiglia, lo stato, i partiti o la chiesa, ma devono essere affidati ai singoli, con tutti i rischi che questo comporta2. Recalcati non pensa a un padre totalmente (o politicamente) permissivo, ma a un padre che sia in grado di compensare la rinuncia (in termini goethiani: Entsagung) al godimento immediato con l’offerta di una identificazione idealizzante, che sia quindi capace di legittimare il diritto al proprio desiderio, e così di unire il desiderio alla Legge. Ora, ammesso che ciò sia possibile, che sia cioè possibile scavalcare il carattere quasi sempre tragico della rinuncia e dello scontro tra Legge e desiderio, bisogna riconoscere che la maggior parte dei padri reali, biologici, è oggi incapace di svolgere o incarnare questa funzione. Forse solo un maestro può assumere questa funzione, ma secondo Recalcati un padre umanizzato non può essere anche un educatore (cfr. Cosa resta del padre?, p. 77, dove si dà per scontato che l’educazione debba essere per forza repressiva e disciplinare); egli insiste molto sull’eccentricictà del suo padre minuscolo rispetto alla retorica pedagogico-educativa, ma esiste anche una pedagogia non retorica. Ad esempio i singoli insegnanti, i singoli educatori, potrebbero oggi finalmente insegnare che cos’è l’interdizione, che cos’è la Legge, senza per questo intronizzarla, anzi: potrebbero addirittura insegnare a ridicolizzare l’interdizione. Per Recalcati invece l’analista (esattamente come il padre) non deve né educare né insegnare (ma solo in senso tecnico, ché anzi l’insegnamento come vocazione costituisce, come vedremo, il cuore della sua relazione a Lacan), ma solo far sorgere nel soggetto l’evento del desiderio come evento di una differenza assoluta (cfr. Ritratti del desiderio, p. 160). Il padre dovrebbe saper dire al figlio, come nel Genesi Dio ad Abramo: Vai verso te stesso! (sorta di parafrasi biblica del controtransfert analitico o di versione retroattivamente religiosa del nietzscheano: diventa ciò che sei!), saper innescare in lui, anche con il silenzio, un processo di soggettivazione – ma è proprio ciò che oggi non si riesce più a fare. L’analista (come il padre) dovrebbe portare il soggetto a riconoscere la sua parola, il suo desiderio, e ad averne la responsabilità, cioè a rispondere a se stesso – ma è proprio questa capacità che il paziente, in quanto vuoto, non possiede più (cfr. Ritratti, p. 156), così come non vuole o non riesce a parlare delle ‘cose d’amore’, cioè non sa reggere il rapporto erotico-conflittuale con l’altro reale, con l’altro minuscolo.

In altri termini, non si tratta solo di un’incapacità paterna o di una difficoltà analitica, ma di una indifferenza e di una inettitudine filiale, afasica e giovanile nei confronti della soggettivazione. Il che rende il problema della trasmissione del desiderio, in particolare del desiderio di sapere e del desiderio di diventare soggetti, di carattere molto più pedagogico-politico che analitico-esistenziale: oltre che di genitori meno adoranti, oggi avremmo bisogno di adulti capaci di costruire i soggetti attraverso nuovi desideri, di far nascere negli individui un nuovo desiderio di soggettivarsi, capaci insomma di innescare processi di soggettivazione post-ideologici, ma anche post-familiari e post-edipici.

 

4. Il secondo punto rilevante riguarda il riferimento al padre morto: “dove c’è il Nome-del-Padre, il padre reale è sempre morto” (Cosa resta del padre?, p. 21). Paradossalmente, solo se il padre reale è morto, se si fa il lutto del padre, si entra con lui in una relazione che può essere feconda, e che non è tanto quella dell’eredità simbolica (cfr. Cosa resta del padre?, p. 103), quanto quella della comunicazione, o comunità nell’assenza3. Dove non è in gioco solo il rapporto con il padre morto, ma la nostra capacità di trasformare la morte, di lavorare sulla morte (che certo è, innanzitutto e per lo più, quella del padre) e sulla sua apparente inassimilabilità alla vita. Se infatti la morte è l’unico Altro maiuscolo cui siamo tutti realmente assoggettati, è soltanto nella dimensione dell’assenza, che però è anche una relazione, cioè in una paradossale comunità senza comunità, che noi possiamo ri-soggettivare l’oggettivo già-stato che ereditiamo non dall’Altro maiuscolo (cfr. Cosa resta del padre?, p. 17), ma dagli altri minuscoli, tra i quali c’è stato anche un padre. In questo modo restituiamo simbolicamente ciò che da loro abbiamo preso: diventando ad esempio ciò che essi non furono, comprendendo ciò che essi non compresero, li redimiamo ineffettualmente, e ormai irreligiosamente, nell’orizzonte della modernità4. È nel nostro diventare autonomi, indipendenti, adulti, che soggettiviamo la nostra inferiorità di partenza, la nostra umana filialità: è la nostra autosufficienza non delirante, ma faticosamente costruita, cioè, appunto, soggettivata, ad essere la meta della nostra insufficienza non tanto infantile, quanto relazionale. In questa prospettiva, che valorizza il possibile legame al di là della morte che si afferma dopo l’attraversamento (non solo dialettico) del conflitto, della differenza dolorosa, è profondamente vero ciò che scrive Recalcati: “Per servirsi del padre bisogna poterne fare a meno” (Cosa resta del padre?, p. 18), senza cancellare il debito simbolico che ci lega ai nostri padri (e madri) spirituali e/o biologici. Il debito non deve tuttavia rimanere debito o eredità (categoria economica, creditizia, di cui Nietzsche e Deleuze hanno giustamente diffidato), ma deve piuttosto trasformarsi in qualcos’altro (per Recalcati in dono: cfr. Cosa resta del padre?, p. 73), e così perdere la sua inferiorizzante obbligatorietà.

Come ben sapevano i Greci, il mistero della vita e della morte resta tale anche se non ci riteniamo debitori verso l’Altro, come invece talvolta tende a fare il ‘cristiano’ Lacan. Ciò significa valorizzare la tendenza dell’essere umano a rigettare ogni forma di dipendenza economico-psichica nei confronti dell’Altro (cfr. invece Recalcati in Cosa resta del padre?, p. 62 e un po’ in tutto il libro), non perché ci si possa illudere di essere tutto, dominare tutto, sapere tutto, godere di tutto, ma perché bisogna guardare bene in faccia l’alterità minuscola del creditore, che è a sua volta debitore verso altri. In buona sostanza, ciò significa non costruire il Grande Altro o il suo simulacro strutturale, ma rimanere fedeli al nome dell’altro minuscolo.5

 

5. Tutto ciò ci consente di giungere al terzo e decisivo punto di questa disamina critica, ovvero al rapporto tra il soggetto e il desiderio dell’Altro, che rinvia al problema dell’Io nella teoria analitica.

Rispetto a Freud e al suo illuministico motto Wo Es war, soll Ich werden, Lacan ha sostituito l’Io con il soggetto, che deve “accogliere ciò che lo trascende” (Ritratti del desiderio, p. 31) e lo sovrasta, cioè il desiderio dell’Altro, il quale si esprime, heideggerianamente, nel linguaggio. In quanto la parola del desiderio (genitivo soggettivo che rinvia all’Altro come Essere) appare come l’unica in grado di umanizzare autenticamente la vita dell’esserci, l’edificio teorico lacaniano, in cui Recalcati è insediato, conduce ad una sorta di divinizzazione laica del desiderio inconscio, ad un’amplificazione quasi religiosa (cristiana, non greca) del desiderio, il quale, come ‘nuda fede’, custodisce persino il mistero della vita e della morte (cfr. Cosa resta del padre?, p. 23), e la cui esperienza viene descritta come spossessamento, forza che supera e oltrepassa l’Io e che dunque non è una proprietà del soggetto (cfr. Ritratti, pp. 27-29), così come non lo è il godimento: il soggetto non può godere se non abdicando alla sua sovranità, che poi è l’identità o padronanza dell’Io, e rischiando di sprofondare in una “palude indifferenziata” (cfr. Cosa resta del padre?, p. 27).

Questo deficit di sovranità o mancanza-ad-essere (manque, desêtre) attraversa tutto il pensiero di Lacan e sembra imporre al soggetto un’inferiorità logico-destinale nei confronti del desiderio dell’Altro e della sua minacciosa invadenza simbolica – quand’anche l’Altro sia dichiarato onto-teologicamente inesistente; per Lacan infatti la soggettivazione passa per l’assunzione della mancanza e del desiderio come ferita inguaribile dell’Io, a cui egli attribuisce una mera funzione sintomatica e di malafede, un carattere difensivo rispetto all’esperienza simbolica della castrazione: “il godimento che anima la vita è quello raggiunto attraverso la castrazione simbolica” (Ritratti, p. 18), cioè attraverso un limite invalicabile che rende la madre, come il bambino (e in definitiva l’uomo, poiché la relazione madre-figlio viene ipostatizzata dalla psicoanalisi come relazione archetipica per la soggettivazione umana), esistenze abitate da una “mancanza fondamentale” (cfr. Cosa resta del padre?, p. 68).

Si tratta di una violenta detronizzazione, che condusse Lacan a sostenere che la vera malattia mentale consiste nel credersi un Io (cfr. Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, vol. I, p. 165, cit. anche in Ritratti, p. 29), e che va ben oltre l’indebolimento analitico della credenza narcisistica dell’Io: sembra quasi un’avversione per ogni forma di costruzione soggettiva, in cui l’Io possa convivere con la propria debolezza facendovi entrare consapevolmente il proprio desiderio, invece di lasciarlo all’inconscio e/o al fantasma del desiderio materno. Per tale motivo alla trascendenza del desiderio dell’Altro, così come all’angoscia derivante dalla sensazione di essere in balìa di tale desiderio6, Recalcati tende ad affiancare una versione molto più ragionevole del lacanismo, secondo la quale il desiderio deve appoggiarsi su una decisione soggettiva (cfr. Ritratti, p. 119) e rafforzarsi come “spinta assolutamente singolare alla propria realizzazione che non dipende dall’Altro” (Ritratti del desiderio, p. 64). Bisogna in altri termini ‘soggettivare’ il proprio desiderio: l’Altro non può essere la garanzia ultima del senso del mio essere e del mio desiderio – anche perché questa garanzia, in termini etici e ontologici, non esiste.

Se, rispetto a Freud, Lacan assoggetta il singolo al desiderio dell’Altro, e se all’estremo opposto sta l’esperienza nietzscheana del desiderio come volontà di potenza, soggettivazione superomistica ante litteram della pulsione; se dal canto suo la psicanalisi novecentesca ha mostrato la tendenza ad adattare il desiderio alla realtà, normalizzandolo (si pensi alla psicologia dell’Io), mentre il pensiero filosofico ha rischiato di mitizzarlo in forma vitalistico-energetica (si pensi a Deleuze)7, Recalcati sembra suggerire anche qui una terza via, che consiste, per così dire, nel singolarizzare il desiderio nel suo rapporto, pur sempre strutturale, con la Legge, restituendo così al padre una funzione simbolica, seppur indebolita e ‘castrata’: minuscola.

La Legge viene infatti definita come dono della facoltà del desiderio da parte del padre (o di chi ne fa le veci: cfr. Cosa resta del padre?, p. 56). Ciò presuppone il carattere inaggirabile del desiderio, ma anche la necessità di soggettivare in nuove forme il desiderio di avere e di essere un padre. Il padre deve realizzare il riconoscimento simbolico del desiderio dell’altro, del figlio, di quel figlio. La sua parola deve saper nominare quel soggetto (cfr. Ritratti, p. 46), offrendo una soddisfazione simbolica del desiderio di riconoscimento espresso dal singolo in quanto singolo. Questa declinazione affettiva, quasi sentimentale del rapporto tra linguaggio e desiderio implica da un lato, come sopra accennato, la problematica esistenza di un desiderio di riconoscimento filiale, dall’altro l’atteggiamento analitico dell’ascolto (per cui il padre, in fondo, è sempre assimilabile all’analista), con cui Recalcati sembra voler esorcizzare, o quanto meno bilanciare, la valenza inferiorizzante che il desiderio dell’Altro può assumere nella teoria lacaniana. Attraverso l’emozione della singolarità che caratterizza sia la funzione paterna che la posizione filiale, Recalcati vuole insomma preservare il desiderio e la Legge, e perciò lavora proprio sul sentimento della mancanza, dell’assenza, del vuoto da cui entrambi sono minacciati nel mondo ipermoderno.

In questo mondo, che poi è il mondo del capitalismo, il mondo in cui il capitalista diffonde il suo discorso di godimento, il desiderio singolare è ridotto a desiderio afasico e invidioso dell’altro (cfr. Ritratti, p. 37), della sua minuscola singolarità, o a desiderio di essere desiderato, come oggetto, dall’altro minuscolo (nei miei termini, a una forma patologica di comparazione8), senza passare per la domanda di riconoscimento né per il conflitto che essa articola tra i soggetti e le generazioni. Recalcati, sulla scia di Lacan, disgiunge quindi con forza desiderio e godimento: “La condizione strutturale per accedere al desiderio implica un divieto di accedere al godimento assoluto della Cosa” (Cosa resta del padre?, p. 55). Ma è proprio questo fantasma del godimento incestuoso e illimitato della Cosa-madre, teorizzato da Lacan in virtù del carattere strutturale e destinale della mancanza, a vanificare la Legge e ad alimentare il discorso del capitalista: integralmente e ottusamente materno, esso presuppone e insieme forclude la castrazione, enfatizza e insieme rigetta la mancanza, sfrutta e al tempo stesso tempo elimina la rimozione (cfr. il rilievo ancora parziale di questa doppiezza in Cosa resta del padre?, p. 47, mentre in Ritratti il problema è perfettamente centrato), facendo precipitare l’individuo in un consumismo maniacale e metonimico dell’oggetto, cioè in una condizione in cui non riesce più a distinguere tra desiderio e godimento.9

 

6. Possiamo ora tornare alla detronizzazione lacaniana dell’Io, per storicizzarla in modo radicale. Infatti il principio di prestazione ipermoderno, che Recalcati vede all’opera nella società contemporanea, non è affatto un principio di affermazione dell’Io (cfr. invece Cosa resta del padre?, p. 111), perché ormai l’Io della seconda topica freudiana non esiste più (nella lapidaria sintesi adorniana: perché ormai l’Io è l’Es). Non si può dunque sostenere che il godimento attuale sia al servizio dell’Io autonomo (cfr. Ritratti, p. 13); la nostra è piuttosto un’epoca di indebolimento dell’Io, che dovremmo correttamente scrivere con la ‘i’ minuscola. Nei termini sociologici di Bourdieu, se l’io è un habitus, se cioè viene socialmente acquisito attraverso l’incorporazione di disposizioni inconsce, oggi esso è divenuto l’habitus del consumo, ed è per questo che viene superficialmente accompagnato dalla credenza narcisistica nella sua realtà – una credenza che funziona come disconoscimento della sua totale eteronomia socioeconomica.

Per valorizzare il desiderio del soggetto, Lacan si è scagliato contro i ‘falsi prestigi’ dell’Io; ma bisognerebbe chiedersi in che senso questi prestigi siano ‘falsi’: nella società ipermoderna, essi sono il risultato dell’imposizione di forme identitarie, di ideali e soprattutto di desideri, da parte di ciò che Foucault definiva potere pastorale – potere acefalo di soggettivare gli individui assoggettandoli fin nei loro corpi a una qualsiasi autorità, rendendoli dipendenti da una qualunque alterità minuscola ma falsamente trascendente (sia essa Dio, il sovrano, lo Stato, il denaro, o, in ultima analisi, il vuoto centrale dell’apparato psichico eretto a Grande Altro: la pulsione di morte come ottusa dépense10). Le nuove forme mediatiche assunte dal pastorato producono oggi tanti piccoli io, per i quali la credenza nel proprio Io (maiuscolo) è soltanto un sintomo, un sintomo di difesa o narcisistico. Se, come suggerisce Recalcati, il desiderio turba le convinzioni consolidate di questo ‘falso’ Io (cfr. Ritratti, p. 27), ciò significa semplicemente che esso è il frutto di una costruzione pastorale, che è fatto male, che è debole, ecc. – non fa necessariamente segno verso una potenza soggettivante del desiderio, il quale può essere piuttosto prodotto dal pastorato insieme con l’io, con la singolarità minuscola.

Muovendo da un’esaltazione sentimentale della singolarità, della particolarità “bizzarra e scabrosa” dell’individuo desiderante (Ritratti, p. 32), Recalcati considera la depersonalizzazione o l’eclissi dell’Io come l’unica possibilità di irruzione del desiderio. Ma è proprio in quanto singolare e personale (cioè come emozione del mio desiderio), che il desiderio si presenta come il cavallo di Troia, come la cifra dell’Io falsamente maiuscolo, in realtà narcisistico e debole, della società contemporanea. Da questo punto di vista, il ridimensionamento teorico del desiderio (che lo stesso Lacan ha suggerito quando, nel Seminario X, ha stigmatizzato il carattere talvolta difensivo, dunque sintomatico del desiderio) dovrebbe coincidere con una sorta di decostruzione anti-pastorale dell’io ipermoderno, còlto proprio nella sua dipendenza dall’Altro – ad esempio dal desiderio dell’Altro inscritto nell’oggetto di consumo come forma sociale assunta dalla pulsione di morte11. Se insomma il godimento compulsivo dell’oggetto è figlio dell’intronizzazione consumistica del desiderio, se è una metamorfosi ottusa e coattiva del desiderio, la padronanza dell’io minuscolo dovrebbe essere energicamente disgiunta dal desiderio, e quindi anche da tutto il plesso teorico ‘paterno’ e ‘materno’ dell’Edipo: Legge-desiderio-castrazione.12

Per non essere soltanto un ruolo sociale, una maschera, una credenza narcisistica, un sintomo, il minuscolo io post-edipico deve saper assumere la sua finitezza ma anche costruire la sua autonomia nella relazione all’altro, anch’esso minuscolo; ciò significa saper governare il proprio desiderio, usarlo come ingrediente (seppur tavolta tragico, poiché il desiderio di un altro è esposto al fallimento) nella soggettivazione. Se dipendere completamente dal desiderio dell’Altro (che non è altro che un altro minuscolo ingannevolmente ingrandito, ad esempio una madre fallica e ottusa, un capo impotente e castrato) equivale a farsi assoggettare, se cioè la debolezza singolare, differenziale dell’io apre la strada alla perversione del pastorato, il desiderio deve fungere da elemento autonomo nella costruzione di un io (o di un habitus) anti-pastorale, che non può che essere post-edipico e insieme slegato da ogni residuo fantasma materno: dev’essere la capacità e la forza, oltre che “il desiderio di avere un proprio desiderio” (Ritratti, p. 6313). La psicoanalisi lacaniana non intende con ciò definire il desiderio come una proprietà dell’Io, ma la padronanza di sé, in senso greco e foucaultiano, non implica necessariamente megalomania, delirio di controllo, rimozione o malafede come correlati della castrazione: l’io minuscolo non è sempre e soltanto un sintomo nevrotico, ma implica più semplicemente autoscopia e consapevolezza critica di ciò che si è e di ciò che non si è – vale a dire: la mappa kantiana dei limiti della soggettività può farla soltanto il soggetto.

In questa prospettiva, il ridimensionamento teorico del desiderio fa tutt’uno col ridimensionamento della castrazione, del fantasma del godimento e della funzione simbolica dell’Altro, in particolare del padre, concepito da Recalcati come colui che ‘dona’ la facoltà di desiderare, quindi il senso del desiderio: perché mai qualcun altro, sia pure mio padre, dovrebbe donarmi la capacità di desiderare? Nell’esperienza del conflitto tra padri e figli, il desiderio sorge piuttosto contro ogni elargizione paterna (e materna), come una forza differenziale che dice ‘no’ al desiderio dell’altro/Altro. Questo ribaltamento della struttura lacaniana del desiderio (per la quale invece il mio desiderio, esattamente come il mio godimento, è sempre inscritto in un genitivo soggettivo, dipendente: il desiderio appartiene all’Altro, è desiderio di essere desiderato dall’Altro, riconosciuto dall’Altro, ecc.) non è sempre e soltanto un gesto isterico o nevrotico di negazione, ma anche, sebbene raramente, un gesto sovrano di autoaffermazione che si pone al di là del paradigma dell’insufficienza (che, è bene ricordarlo, nell’universo freudo-lacaniano è in primis insufficienza anatomica e psichica, destinale, del femminile). In altri termini, il desiderio è un elemento prezioso nel processo di soggettivazione meta-sessuato (umano) solo quando funziona come sorgente di autonomia e si mostra in grado di riconoscere il limite dell’altro reale, minuscolo; allo stesso modo, l’io smette di essere una credenza e diventa una ‘minuscola’ forza, quando funziona come istanza di relazione orizzontale con gli altri, con la loro realtà limitata e limitante.

Se dunque volessimo correggere in chiave sociologica, e implicitamente politica, il lato ‘heideggeriano’ di Lacan, non dovremmo certo opporre alla nostra finitudine una pienezza psicotica o una terroristica irruzione del reale (à la Žižek), ma nemmeno lasciarci inferiorizzare dalla mancanza: l’io, come versione minuscola dell’Io freudiano, è pur sempre tutto ciò che abbiamo per autogovernarci senza cadere nelle lusinghe pastorali del discorso del capitalista.

 

7. Ma perché la psicoanalisi è così avversa alla padronanza dell’Io fittiziamente maiuscolo? Se per Lacan, come sopra accennato, la vera malattia mentale è credersi un Io, lo è anche, e in forma molto più grave, sottomettersi a un altro Io fittiziamente maiuscolo, quello dell’analista, il quale appunto fa credere al soggetto, al/alla paziente reale, che il suo Io/io (il rapporto tra i due sembra analogo, per molti versi, a quello tra significante e significato) sia una credenza inutile, una fede cieca in se stessi alimentata da un desiderio inconscio. In termini più brutali, e senza voler demonizzare la psicoanalisi con la stessa violenza con cui essa talvolta demonizza l’oggetto di consumo, potremmo dire che l’avversione lacaniana per i falsi prestigi dell’Io dissimula, o disconosce, il carattere pastorale della psicoanalisi; non a caso, i suoi detrattori la accusano di recuperare surrettiziamente, attraverso l’enfatizzazione del Padre edipico, il carattere teologico della Legge (cfr. Cosa resta del padre?, p. 53), mentre il tentativo teorico di Recalcati consiste nel mantenere aperto, seppure con un linguaggio laico, il lato heideggeriano, nonché cristiano di Lacan (la cui epitome resta il Nome-del-Padre), senza più rifarsi al Padre edipico.

Ora, ciò significa comunque proporre una forma morbida di pastorato: chiunque parli (e curi) in nome di Lacan non può congedarsi definitivamente dalla trascendenza dell’Altro, perché la psicoanalisi, così come viene praticata nella relazione pseudoconfessionale tra paziente e analista, è intrinsecamente, strutturalmente ‘religiosa’. Allo stesso modo, chiunque parli in nome di Lacan non può nascondere né sottovalutare il carattere mortale del desiderio, che trapassa facilmente nell’ottusa, e altrettanto mortifera béance del godimento – ciò che, nel Seminario VII sull’etica della psicoanalisi, Lacan illustrò attraverso la famosa storiella kantiana dell’uomo che sceglie stupidamente di godere dell’oggetto pur sapendo che gli sarà fatale. In altri, sempre più brutali termini, desiderio e godimento possono valere più della vita, di una vita, perché in sé – cioè se non soggettivata – la vita non vale nulla; analogamente, il desiderio che dice ‘no’ fino alla follia o alla morte è soltanto e sempre desiderio di un particolare altro minuscolo (Hegel avrebbe detto: dell’accidentale, dell’irrelativo), ma non per questo meno potente del desiderio dell’Altro.

Recalcati sa che nella morale politically correct, cioè nell’etica pastorale del bene, tutto questo è molto difficile da sopportare; sa che è difficile accettare che “l’ideale del Bene non è ciò che orienta la vita umana” (Ritratti, p. 98), così com’è difficile comprendere il senso della pulsione di morte incarnato dalla figura dell’Antigone sofoclea, reggere di fronte alla solitudine assoluta (persino rispetto all’Altro) del suo desiderio (a cui Lacan dedicò una parte del Seminario VII14). Egli compie allora una virata teorica condivisibile, ma un po’ forzata rispetto alla durezza del pensiero di Lacan (e del Freud di Al di là del principio di piacere) e, pur con tutte le cautele ermeneutiche, si allontana dall’insensatezza paralizzante del desiderio (“Non può essere questo il modello etico del desiderio!” Ritratti, p. 152); allarga a tal punto la nozione di desiderio da includervi anche la rassicurante dimensione della progettualità (che talvolta sfuma in quella della costruzione sociale dell’Io: cfr. Ritratti del desiderio, p. 16), trascurando, o meglio edulcorando l’aspetto tragico, destinale e oscuro del desiderio che Lacan e prima di lui Freud hanno invece riconosciuto. Nella sua pur affascinante galleria di desideri più o meno patologici, Recalcati fa insomma emergere un desiderio inconscio implicitamente ‘sano’, che, come concetto passepartout, diventa impercettibilmente sinonimo di futuro, di attesa, di novità, di soggettivazione15 – persino di speranza, nel senso paolino del termine.

 

8. Riassumendo, Recalcati sembra voler utilizzare il pensiero di Lacan per curare la miseria, la castrazione psichica dell’umanità ipermoderna, e al tempo stesso confermarla di fronte ad un Altro problematicamente superiore (perché esso stesso castrato).

Com’è noto, ne L’avvenire di un’illusione (1927) Freud sostiene che la religione è una forma di paranoia collettiva o di nevrosi edipica universale, che trae la sua origine dalla relazione paterna. Nella sua anamnesi clinica della civiltà, egli considera la religione un ‘complesso del padre’, poiché l’uomo, nel divenire dolorosamente consapevole della sua mortalità e della sua debolezza nella lotta contro le forze della natura, si rivolge a Dio come un bambino desideroso del padre, a cui chiede di allontanare la paura e lenire la sofferenza.

Nel suo coerente illuminismo, una volta (almeno apparentemente) dominate le forze della natura, Freud ritiene che si dovrebbe provare ad eliminare questo tratto nevrotico e nevrotizzante dall’educazione dei bambini reali (per i quali spesso la religione funge a sua volta da elemento terrifico, anche perché si tratta di un interesse artificialmente, pastoralmente imposto), in attesa che l’umanità, nel suo complesso, superi la fase nevrotica infantile e divenga, anche kantianamente, adulta – che si pervenga cioè ad una maggiore consistenza del soggetto, della soggettivazione e dell’Io. Con argomenti poco diversi da quelli adoperati da Hume nella sua Storia naturale della religione (1757) per spiegare l’origine cultuale e la dinamica psichica del monoteismo, Freud illustra l’opportunità sociale e politica, oltre che scientifica, di una pedagogia irreligiosa, nella quale il linguaggio non sia più chiamato a dissimulare la verità extramorale (la morte, il sesso, l’aggressività, ecc.) attraverso la menzogna morale dei simboli trascendenti (ai quali ci si rivolge nella preghiera), e conclude il suo ragionamento con queste parole: “Da tale schiavitù io sono, noi siamo, liberi… Essendo pronti a rinunciare a parte notevole dei nostri desideri infantili, possiamo tollerare che certune delle nostre aspettative si palesino illusorie”.16

Lo scopo della terapia freudiana consiste nel portare il paziente a riconoscere il carattere illusorio del contenuto di molti dei suoi desideri – non di tutti. Esistono infatti desideri la cui realizzazione non dipende dalla (anch’essa illusoria) benevolenza della divinità paterna, ma dalla forza con cui il soggetto li persegue, e che Freud ascrive, in parte, alla sua capacità di sublimazione. In quanto diverso dalla pulsione, il desiderio sublimato e sublimante non è mai desiderio di un oggetto, ma desiderio di avere, e affermare socialmente, il proprio desiderio; non è tanto una preghiera, quanto una vocazione del soggetto. Lo stesso Lacan proponeva di tradurre il termine tedesco usato da Freud, Wunsch, col termine francese Voeu, ‘voto’, ‘augurio’ – poiché questo termine conserva tutta l’ambiguità teorica ch’egli attribuiva al desiderio: esso è sia la chiamata inesorabile dell’Altro (desiderio dell’Altro), sia la decisione irrevocabile, e altrettanto inesorabile, con cui l’individuo invoca e persegue la propria soggettivazione (cfr. Ritratti, p. 119).

Ora, è chiaro che anche Recalcati cerca di tenere insieme questi due significati, benché il primo sia assolutamente incompatibile con l’illuminismo freudiano ‘adulto’ e con quella che potremmo definire psicoanalisi progressista, mentre il secondo flirta pericolosamente con la pulsione di morte (si pensi ad Antigone). Per evitare quest’ultimo rischio, egli opta per una declinazione laica (ipermoderna) della religione, e con un certo ritegno confessa che, da padre, insegna ai suoi figli a pregare.

Il senso di questo paradossale insegnamento paterno (paradossale sia per quello che abbiamo osservato sopra, sia perché ricorda l’abitudine pascaliana ad andare in chiesa e farsi il segno della croce, che, nell’economia della scommessa, dovrebbe sostituire la fede) starebbe nel fornire ai figli una forma linguistica in cui sia possibile rispettare il mistero, l’inassimilabilità dell’Altro (cfr. Cosa resta del padre?, p. 12), e così evitare l’onnipotenza infantile, narcisistica ed oggi alquanto cinica dell’egoità. In effetti, egli rispetta ancora il dettato freudiano quando considera ineludibile l’esperienza simbolica della castrazione, ma aggira il monito rivoluzionario del padre della psicoanalisi, relativo al carattere altrettanto infantile della religione: il testo di Freud viene evocato a p. 13 per essere immediatamente scavalcato da una domanda retorica: perché rinunciare all’illusione del mistero? perché non riconoscere che l’esperienza della castrazione è centrale in ogni preghiera? (cfr. Cosa resta del padre?, p. 14). In questo modo la castrazione, invece di essere ridotta a senso del limite, assurge a discutibile paradigma esplicativo dell’esperienza del sacro, o meglio il sacro viene ridotto ad esperienza di castrazione: di inferiorità. Non a caso, tutte le esperienze del desiderio illustrate da Recalcati (la preghiera, la veglia, l’attesa, la noia, la claustrazione, il panico, persino la rivolta: cfr. Ritratti, p. 123) significano l’inferiorità, anche inconscia, di chi le attraversa: “Per gli esseri umani, gli esseri che abitano il linguaggio, non c’è possibilità di autosufficienza, non c’è verso di sfuggire alla dipendenza strutturale dall’Altro […] Proveniamo sempre da un orizzonte che ci costituisce e ci trascende” (Cosa resta del padre?, pp. 15-16). Tuttavia quest’orizzonte è pur sempre fatto da altri a loro volta trascesi e costituiti: è un orizzonte radicalmente orizzontale, non verticale. Come possiamo, si chiede Recalcati, essere responsabili di ciò che ci oltrepassa, come possiamo assumere, soggettivare ciò che a nostra insaputa ci guida e ci orienta? (cfr. Ritratti del desiderio, p. 177). Infatti non possiamo, perché questo Altro non esiste (nemmeno a nostra o a sua insaputa, come Dio Padre morto17).

L’inferiorità davanti all’Altro, che pure nasconde l’inesistenza dell’Altro come Dio (cfr. Cosa resta del padre?, p. 124, ma anche Ritratti, p. 67: “L’inesistenza strutturale dell’Altro non cancella affatto la mia dipendenza dalla sua esistenza”), è inferiorità davanti al primo altro minuscolo che ne fa le veci. Malgrado il tono heideggeriano delle succitate affermazioni, insufficienza non vuol dire necessariamente dipendenza: “il ‘mio’ desiderio’ non dipende mai integralmente dall’Altro” (Ritratti, p. 67), e se ogni bambino dipende dai suoi genitori, il loro obiettivo dovrebbe essere appunto quello di renderlo indipendente; è vero che ognuno di noi è insufficiente a se stesso, ma perché ha bisogno degli altri, di alcuni altri particolari, e ciò non implica nessuna dipendenza strutturale dall’Altro maiuscolo, paterno o materno che sia. In tale prospettiva, l’evaporazione del padre non è affatto una iattura, ma la semplice conseguenza del tramonto storico (ed economico-politico) di una determinata struttura psicosociale produttrice di habitus, un determinato modello di soggettivazione che ormai ha fatto il suo tempo; il problema è che non sappiamo con cosa sostituirlo, con quale processo di soggettivazione sostituire il percorso edipico, e intanto rischiamo di non avere più una soggettivazione.

 

9. Consapevole di quest’impasse della civiltà ipermoderna, Recalcati esprime un desiderio del Padre che, nonostante tutto, rinvia al verticalismo metafisico (cristiano) della psicoanalisi. Egli comprende perfettamente che l’incarnazione reale del padre è quella di un altro minuscolo, che la testimonianza e la tragica frammentazione del padre reale ci impongono di abbandonare definitivamente il Nome-del-Padre come Dio, vuole cioè “ripensare la funzione del padre nell’epoca del suo massimo declino” (Cosa resta del padre?, p. 20), della sua massima castrazione; ma poiché, appunto, non intende abbandonare la Legge della castrazione e l’edifico teorico lacaniano, cerca di valorizzare ciò che resta del Padre (e forse anche di Dio) come “scarto da ogni ideale universale, versione singolare della Legge nel tempo della dissoluzione di ogni suo valore trascendentale, riduzione della legge alla dimensione etica della responsabilità” (ibidem), e soprattutto come “eccedenza del desiderio rispetto [alla] sua versione nichilistica” (Ritratti, p. 188).

Ora, il primo di questi movimenti è stato già compiuto da due autori non a caso evocati nei testi in oggetto: Lévinas (in una dimensione ancora religiosa) e Derrida (in una sfera problematicamente etico-politica): la filosofia è già arrivata trent’anni fa dove la psicoanalisi oggi getta l’ancora per trovare stabilità nel mare in tempesta della de-soggettivazione contemporanea. Ma, ci chiediamo, perché conservare ancora la necessità dell’Altro (che ricorda quella del Terzo levinassiano)? perché non rendere finalmente orizzontale la psicoanalisi, e la stessa filosofia?

Innanzitutto per paura, paura di un padre per il futuro dei suoi figli: è Recalcati stesso il padre post-edipico che con la sua testimonianza, cioè con la sua parola e la sua scrittura, cerca di offrire un’eredità simbolica e così di porre un freno a quella “spogliazione mentale e sociale dell’esistenza” (Ritratti del desiderio, p. 15) che sta investendo tutto l’Occidente e sconvolgendo completamente la visione psicoanalitica dell’uomo. In seconda battuta, per amore: se per Recalcati “il padre severo dell’interdizione simbolica non è l’unico volto del padre” (Cosa resta del padre?, p. 73), è perché vi è stato per lui un padre – un padre non biologico, ma spirituale, assente e al tempo stesso magistrale – che ha teorizzato l’interdizione simbolica, e che risponde al nome di Jacques Lacan. Recalcati fa di tutto per salvare questo padre, per salvare Lacan dalla sua evaporazione. In termini freudiani, egli fa un uso post-teologico ma ancora religioso, filiale di Lacan: Lacan come teorico di un Altro inesistente come Dio, Lacan come Padre morto che unisce la Legge e il desiderio.

Come riconosce nelle bellissime ed oneste pagine che chiudono il libro sul desiderio (I paradossi del desiderio, pp. 171 e sg.), Recalcati è stato, in gioventù, un nevrotico, uno studente di filosofia che forse legava il desiderio al peccato e ad altre simili cattolicerie (cfr. Ritratti del desiderio, p. 175), e che dunque per guarire dalla sua nevrosi, ma allo stesso tempo per seguire il proprio desiderio (il desiderio del Padre: qui il genitivo è oggettivo), è diventato uno psicoanalista lacaniano – un uomo disposto a ‘tacere’ l’amore per i suoi pazienti, per la loro differenza singolare, ma non quello per il maestro, il cui insegnamento “irresistibile” (Ritratti, p. 174) lo ha svegliato dal sonno universitario.

Si potrebbe malignamente insinuare che la nevrosi ha un posto d’onore nel discorso universitario, e che l’inferiorità nevrotica costituisca la precondizione necessaria di accesso al lacanismo, laddove il Maître, pur esortando alla non-imitazione del suo verbo, in quanto macchina teorica risparmia ai suoi allievi ogni ideale di padronanza: cosa c’è di meglio di Lacan per un nevrotico? quale complicato sollievo, quale liberazione nell’alveo possente del pastorato analitico! …Ma Lacan è stato anche per Recalcati una sfida, un’autentica vocazione: il soggetto supposto sapere di cui il giovane filosofo non capisce gli scritti ma che lo guarisce dalla nevrosi, e lo guarisce con l’amore: Lacan, mon a-mour – è la dedica che il figlio-allievo dona al maestro assente e con cui celebra il muro dell’incomprensibilità del suo testo, il quale come per miracolo (il miracolo dell’amore, appunto), si è trasformato in linguaggio dell’inconscio.

 

 

1 Cfr. M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e pensiero, Milano 2010 (citato da Recalcati a p. 99). Secondo Gauchet, se il Novecento ha scoperto e analizzato scientificamente il bambino reale, il nostro secolo appare caratterizzato dalla sacralizzazione del bambino immaginario. Paradossalmente per Gauchet la mitizzazione (che in realtà è una mistificazione) dell’infanzia è stata resa possibile dal controllo delle nascite: potendo essere pianificato, il bambino è diventato un ‘figlio del desiderio’, investito dalle aspettative irrealistiche dei suoi genitori; a ciò si accompagna l’infantilizzazione degli adulti, il desiderio ossessivo di ‘restare giovani’ e l’incapacità di progettare il futuro. Questa dinamica, secondo Gauchet, può avere ricadute drammatiche sull’educazione, sul modo di concepire la famiglia e sui meccanismi di definizione della personalità.

2 In questa etica della responsabilità singolare si scorge la vicinanza di Recalcati a pensatori come Jacques Derrida ed Emmanuel Lévinas. Motivi derridiani e levinassiani sono sparsi anche in Ritratti del desiderio, ad esempio: “come può esistere una responsabilità senza padronanza?” (p. 33).

3 Sul tema assolutamente non religioso della comunità dei vivi e dei morti rinvio al testo di un altro studioso di Lacan: cfr. B. Moroncini, La comunità e l’invenzione, Cronopio, Napoli 2002.

4 Su ciò mi permetto di rinviare al mio La redenzione ineffettuale. Walter Benjamin e il messianismo moderno, La Città del Sole, Napoli 2001.

5 Qui si misura la distanza tra Benjamin e Lacan: se il primo concepisce la lingua di puri nomi come perfetta adesione della parola alla cosa (minuscola, non maiuscola: è il termine ebraico dabar), Lacan ha decretato, direi da cattolico perverso, la sua impossibilità, inserendo tra la parola e la Cosa (maiuscolo: das Ding) il reale, ovvero uno scarto che equivale sia al peccato (nella relazione impossibile con la madre-Cosa) sia alla confusione babelica. Tuttavia, come lo stesso Recalcati non manca di riconoscere quando si sofferma sul desiderio amoroso per l’altro minuscolo (cfr. Ritratti del desiderio p. 142, ma con una curvatura quasi evangelica), il nome può anche designare il particolare inassumibile nell’ordine simbolico del Nome-del-Padre, perché al di qua e allo stesso tempo al di là dell’oggetto-cosa, dunque paradossalmente al di fuori della forclusione del reale, della stessa teoria dei tre registri e della relazione impossibile alla Cosa lacaniana.

6 E, poiché il desiderio non ha oggetto, ‘Che vuoi?’ è la domanda che secondo il Lacan del Seminario X il soggetto angosciato rivolge all’Altro, di cui desidera e che a sua volta desidera il suo riconoscimento, in un infinito gioco a rimpiattino che avrebbe la sua forma ironica nell’inesistenza del rapporto sessuale.

7 Recalcati non manca di criticare questa indebita mitizzazione anti-edipica: cfr. Cosa resta del padre?, p. 54; su ciò mi si permetta anche il rinvio al mio Al di là del Sessantotto. Baudrillard, Foucault e il mito del desiderio, in Lavoro, merce, desiderio, a cura di G. Brindisi e E. de Conciliis, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 107-132.

8 Cfr. E. de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico, Mimesis, Milano-Udine 2012.

9 Partendo dall’associazione che, sulla scia de I complessi familiari di Lacan, Recalcati elabora tra l’Imago materna e il corpo della comunità nel culto totalitario del Padre primordiale, visto come esorcismo dell’indebolimento della famiglia patriarcale nella prima metà del ‘900 (cfr. Cosa resta del padre?, pp. 38-41), mi sembra qui opportuno distinguere tra Cosa e madre, poiché nel Seminario VII esse non coincidono, anche se Recalcati sembra a volte sovrapporle (ad esempio in Cosa resta del padre?, p. 28); non si può inoltre generalizzare sull’ottuso carattere fallico del desiderio della madre come sorgente di terrore (cfr. Cosa resta del padre?, p. 69, nota, e Ritratti del desiderio, pp. 74-75 e p. 125; come lo stesso Recalcati sottolinea, allontanandosi dalla mostruosità della Cosa lacaniana, “il materno non si esprime solo come un cannibalismo avido o come una spinta indifferenziata a fare Uno con in proprio figlio”, Ritratti, p. 56), né omettere di notare come, nel dichiarare il reale sbarrato dal linguaggio (S/s), Lacan abbia affermato l’impossibilità di attingere direttamente alla Cosa del godimento da parte dell’essere parlante, dell’uomo come animale simbolico, ma abbia allo stesso tempo introdotto nella sua teoria, a livello dell’immaginario, la possibilità che il miraggio di tale godimento venga colonizzato, e con ciò sfruttato, dal discorso del capitalista, in quanto capace di tradurlo in desiderio coattivo – in desiderio di niente (cfr. Ritratti, pp. 75 e sg. e p. 116).

10 Il godimento viene anche definito da Recalcati come dépense, ovvero come dimensione maledetta, come perversione del desiderio che lo conduce alla consumazione di sé (cfr. Ritratti, p. 188).

11 In quest’ottica l’ideologia del benessere, del fitness, non riesce affatto a proteggere l’uomo dal godimento mortale (cfr. Ritratti, p. 112), perché è soltanto una declinazione soft, o un meccanismo dilatorio di tale godimento. D’altra parte non si può demonizzare istericamente l’oggetto di consumo che si appoggia al corpo o coincide con il corpo, perché in taluni casi esso può fungere addirittura da barriera contro il dilagare mortifero del godimento.

12 Sulla ineludibile dipendenza di questo plesso dal desiderio del Padre cfr. proprio Il Seminario X. L’angoscia (1962-63), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, pp. 115-116.

13 Il riferimento di Recalcati è al Seminario V. Le formazioni dell’inconscio (1957-58), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2004, p. 441.

14 Su Antigone cfr. Ritratti, pp. 151-52. Per una lettura approfondita del seminario sull’etica della psicoanalisi rimando a B. Moroncini – R. Petrillo, L’etica del desiderio, Cronopio, Napoli 2007; per un’analisi della figura di Antigone cfr. anche B. Moroncini, Il sorriso di Antigone, Filema, Napoli 2004.

15 Cfr. l’idea dell’inconscio come evento inatteso, ripresa dal Lacan dei Seminari XI e VII, in Ritratti del desiderio, pp. 178-80.

16 S. Freud, L’avvenire di un’illusione. L’illusione di un avvenire, Bollati-Boringhieri, Torino 1990, p. 99.

17 Su ciò cfr. J. Lacan, Dei Nomi-del-Padre. Il trionfo della religione, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2006.