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Morte mimetica

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Tony Soprano:
My father was in it. My uncle was in it.
Maybe I was too lazy to think for myself.


Pigrizia

Non sono uno specialista sulla malavita né ho mai fatto ricerche su tale argomento. La mia impostazione teorica ed empirica si basa sul metodo etnografico, che è nella sua immanenza basato sulla ricerca micrologica. A causa di questa assenza, il mio svolgimento sarà di tipo filosofico. O meglio, affermerà la connessione profonda di una certa filosofia sociale che si intreccia con un’antropologia teorica cui mi sento di appartenere. Entrambe, a mio avviso, rifiutano ogni ontologia e trovano la loro parziale quanto temporanea verità nella ricerca focalizzata e nella trasformazione dell’esistente. In genere rifiuto di scrivere su cose che non conosco direttamente. In questo caso ho accettato per diversi motivi: in primo luogo perché questa rivista di filosofia e la sua scelta monografica sulla malavita mi continuano a mantenere un legame con l’Italia, da cui mi sono auto-esiliato da qualche anno. E poi per la speranza che questo infelice paese si trasformi su criminalità e corruzione e continui a lottare contro ogni realismo. Ma soprattutto perché è una sfida cui è difficile rinunciare, che – mi sembra chiaro – rifiuto esplicitamente di leggere come metafora, nei limiti secondo cui ogni scrittura è sempre metaforica. La mia riflessione svolgerà e tenterà di applicare concetti di Bateson (doppio vincolo e schismogenesi), di Adorno (mimesi e morte), di Tony Soprano (valori e turpiloquio), autori vari (cinema e melodramma).

La malavita è ultra-territoriale. Questa determinazione si espande polisemicamente: il prefisso ultra si riferisce a un eccesso di presenza nel proprio spazio, quasi una impossibilità di esprimersi altrove; ma questo eccesso territoriale mette in discussione paradossalmente la nozione identitaria di territorio; esso si espande in altre aree geografiche, esportando il pezzo del proprio territorio attraverso cui definisce regole e valori. E assimiliazioni. Tale paradosso si basa su una massima internità nei propri micro-spazi simbolici, su cui malavita imposta o tenta di impostare una sorta di egemonia localista; e una massima esternità in interstizi urbani dove riesce a esportare macchie di gestione affaristica e valoriale. In questo senso, malavita è una variazione della globalizzazione che, anziché tentare di farsi glocal (intrecciando locale e globale, cfr. Robertson), governa un mix scomposto di in-local (o insider) e out-local (o outsider), dove il gruppo è sempre inclusivo e il luogo “estero” è un pezzo identico al proprio territorio di origine. La malavita dovunque vada rimane export-localista. Viaggia, esporta, fa affari, uccide rimanendo immobile. Quindi il primo problema malavitoso è un eccesso di identità non controllato.

Come dice Daniela Ranieri, commentando Tony Soprano, il problema suo sta nel «non potersi sottrarre alla propria nascita, alla propria famiglia, madre e padre. Lui a volte vuole scappare dalla sua vita (ha attacchi di panico e va in analisi), ma sa che deve compiere la dialettica» (comunicazione personale).

La citazione all’inizio conferma questa tesi. Il padre e la famiglia tutta stanno già nel giro; per uscirne fuori, significa uccidere simbolicamente non solo padre e madre, che su questo sono affiatatissimi, ma l’intera famiglia estesa. Ultra-Edipo. La malavita non vive ancora nella famiglia nucleare e quindi ancor meno in quella mutante sempre più diffusa negli spazi di un occidente esteso. La famiglia è una appiccicata famiglia estesa. È sangue versato nel suolo. Tutti sono incollati a tutti. Se un pezzo si perde, si dissocia o pensa ad altro, mette in discussione l’intero puzzle, l’immagine diventa sfigurata e quasi comica – cioè oggetto di derisione – allo sguardo altrui. E questo non è tollerabile. L’essere pigro, cioè accettare la subordinazione ai valori malavitosi in quanto estensione della famiglia, è un atto che richiede il suo contrario: l’estrema attivazione. Così, per pigrizia, il figlio diventa ancora più ferocemente attivo del padre. È pigrizia estrema.

L’identità gioca un ruolo fondamentale. In genere negli studi culturali, la questione dell’identità plurale, moltiplicata, ibrida è un dato decisivo per interpretare i nuovi soggetti trans-culturali. Per malavita, invece, l’identità è quella. Una radice oscura e inamovibile. Può assumere alcuni stili esogeni, ma sempre digeriti nel proprio locale (stili di capelli, gergo o tecnologie). Una striscia di quartiere, un angolo paesano, un corridoio abitativo divengono l’identità da indossare con una fedeltà assoluta. Identità di valori, amicizie, codici, sguardi, modelli. L’identità fissa – fissata, incollata – diventa fisiognomica. Non nel senso lombrosiano, bensì nel senso di una corporalità gestita, plasmata da una subcultura fissa, e offerta in tal modo a un pubblico altrettanto locale. La regressione all’identità conclamata una e immobile è il primo codice della malavita. Un simbolo pesantissimo.

 

Gergo

Il linguaggio-malavita ha una sintassi determinata, che è parte dell’identità e crea legami. Non solo. Tale linguaggio gergale, fatto di un tono di voce, di accompagnamenti fortemente espressivi di linguaggi corporali, gesti, espressioni facciali, creme, salivazioni, rielaborazione inventiva del dialetto – una sua esagerazione che diventa quasi incomprensibile per un estraneo specie quando resa in forma di onomatopea, quasi un rap. Infatti, i diversi linguaggi-malavita hanno influenzato i mass media tanto quanto i prodotti (film, musiche, melodrammi) hanno re-influenzato e quasi legittimato il malavitoso. Il cinema non esisterebbe senza i gangster. E il noir, genere per eccellenza del cinema Usa, a volte del momento migliore, ha come centro la malavita. E ora non elenco i serial-TV su tale fenomeno; sembra quasi che l’intero serial sia basato su malavita. Ora non posso narrare il gioco astuto di affinità e differenze tra Ratinho della brasiliana SBT e le varie criminal mind. Perchè? Il primo film su questo tema fu un successo mondiale, diretto da un regista di sinistra, Mervyn LeRoy col grande Edward G. Robinson nei panni di “Little Caesar” (1930), titolo perfetto di un personaggio che appassiona (con cui ci si identifica) proprio perché piccolo. La grandezza a volte persino tragica e sempre mimetica della malavita sta nella sua piccolezza. Lo stesso pubblico che, in quanto cittadino, detesta il crimine, in quanto spettatore, adora il piccolo perché è più facile che una scheggia della sua personalità si possa identificare col piccolo che col grande Cesare. Per lo spettatore, il piccolo è un tipo comune, quello che abita lì vicino, è quello che potrebbe essere stato lui se il caso della vita non lo avesse fatto nascere nella strada seguente. Il riso del pubblico (audience) è tratto caratteristico della funzione mimetica attraverso cui sentire e vedere il gergo malavita è adorabile. Quanto più è illetterato e volgare, tanto più è adorato tale gergo. Il circolo è vizioso: il gergo-malavita è imitato nel cinema e i malavitosi, inorgogliti del successo, a loro volta lo re-imitano, mentre il pubblico lo ripete identificandosi. E tutti ridono.

Dopo 80 anni da quel primo successo, la TV ha creato un Dostoevski minore, un sottosuolo che da tempo è emerso e che parla nella figura di Tony Soprano e &. Riporto qui alcune sue citazioni, in quanto paesaggio sonoro, anche se qui solo in lettura, ma è uno spartito musicale che accompagna il ritmo estetico quasi planetario:

Tony Soprano: “Up your ass. Respect? What the fuck do you know about respect? I put you back in business, you cocksucker”.

Le parolacce, ormai prive del senso denigrativo, sono uno strumento – più che linguistico – sonoro. Soundscape anale-fallico. Le differenze di stadio freudiane sono assenti e impensabili nel gergo; se il linguaggio, secondo alcuni, è fallico, qui le differenze tra fallico e anale sono superate o mai esistite. Fallanalità gergale.

Tony Soprano: You know what? Fuck you! I don't wanna hear about your fuckin' back anymore! Who's your fucking boss, huh? Who's your fucking boss? Who gets the explanation? What am I, supposed to trust you? You fuckin' off the reservation cocksucker!

E ancora:

Tony Soprano: I had a dream I fucked your brains out. Right on that desk, and you loved it.

Ricordo che Brett-Ellis scriveva qualcosa di simile. Il mancato successo in Italia è apparso strano e invece dovrebbe essere chiarissimo. A mio avviso, il flop è dipeso non tanto dal fatto che «i panni sporchi si lavano in casa» o da «basta con questa storia della mafia-italia» ecc., ma dalla decisiva connotazione sonora e linguistica: un serial così si può adorare solo in originale, è impossibile doppiarlo pena la perdita irrevocabile dello Sprechgesang, per così dire. Sarebbe come doppiare il “Ring” di Wagner in italiano. Se qualcuno vuole provare a tradurre questa frase in italiano diventa o incomprensibile o strana. Il suono parlato di Gandolfini – Pierrot Lunaire mai andato sulla luna – è inimitabile e intraducibile. Sviluppando e tradendo Benjamin, la sua voce ha una aura irriproducibile grazie alla riproducibilità dei media (Canevacci, 2012).

 

Schismogenesi

Gregory Bateson mi ha influenzato molto, tra l’altro, anche per le sue connessioni sperimentali e iniziatiche tra etnografia e cultura digitale: la sua partecipazione alla nascita della cibernetica con Wiener fu importante. Da qui si legittima la mia ricerca sui sincretismi digitali (sincretiKa), in quanto la cultura digitale ha una storia da sempre legata all’antropologia. In una intervista realizzata da Steward Brand, pubblicata in Per l’amor di Dio, Margaret!, Bateson rivela la scelta di collaborare con il fondatore della cibernetica, Nobert Wiener, nell’anno 1946, quando abbandonò l’antropologia come “disciplina” accademica per includere la cibernetica nella sua area “indisciplinata”.

Bateson aveva già elaborato negli anni’30 il concetto di schismogenesi (dal greco: schisma = divisione + genesis = nascita) durante le sue prime ricerche etnografiche in Nuova Guinea; secondo lui, i processi comportamentali e interattivi all’interno di un gruppo in relazione all’ethos (ovvero come una cultura affronta e risolve le proprie emozioni) possono favorire sia competizione o rivalità, sia inibizione o sottomissione. Entrambe possono essere sia auto-distruttive per le fazioni interne al gruppo o risolversi in una divisione più o meno drammatica: per questo si creano meccanismi di autocorrezione che tentano di frenare le relazioni di tipo conflittuale – ovvero le scissioni. Vorrei sottolineare l’importanza non solo concettuale ma anche pragmatica della relazione tra schismogenesi e autocorrezione per il motivo in parte anticipato: dieci anni dopo e per altri itinerari epistemologici, Norbert Wiener elabora il modello di retroazione – o feedback – come affine al modello di autocorrezioneschismogenetica.

Tutto questo significa una alleanza profonda (connessioni complesse storico-psico-culturali) tra feedback e schismogenesi per verificare come le tecnologie possono essere applicate nella creazione progettuale della prima intelligenza artificiale. Di conseguenza, la cibernetica nasce dall’incontro tra un riceratore etnografico isolato (Bateson) e una equipe di ricercatori informatici (Wiener). Tale alleanza tra le cosiddette due culture (e non opposizione, come secondo Charles Snow) diventa ancor più significativa, in quanto Bateson e Wiener criticano gli scienziati che isolano input-output senza reatroazione, analizzando l’“oggetto” rimanendone fuori. Wiener e Bateson utilizzano la metafora del box: lo scienziato deve stare dentro la scatola, cioè, fuor di metafora, all’interno del fieldwork etnografico. E questo fieldwork presenta affinità (non identità!), tra l'ethos Iatmul nella Nuova Guinea, e l'intelligenza artificiale nella cibernetica, basata sella autocorrezione. E forse anche con i continui movimenti scissionisti della malavita ovunque sia ramificata.

Se dovessi fare una ricerca empirica sulla malavita, metterei in tensione questo concetto di schismogenesi con un altro sempre elaborato da Bateson nella sua celebre ricerca a Bali (insieme a M. Mead): il doppio vincolo.

 

Doppio vincolo

La malavita ha regole che diffondono un groviglio di doppi vincoli e, insieme, di schismogenesi. Di legami da cui è impossibile sfuggire («Maybe I was too lazy to think for myself»: sono troppo pigro o impotente) oppure da cui penso di essere diventato così potente da osare lo scisma. La genesi della scissione malavitosa. Una ipotesi da seguire non è continuare a commentare questa perdente guerriglia simbolica tra malavita dominante e società legale, quanto spezzare le condizioni per cui il dominio si ripresenta come indistruttibile, che si riproduce attraverso doppi legami, che rafforzano sempre l’impotenza anomica dei dominati. Vi è una area di persone non malavitose (ma anche di alcune personalità tutta-malavita) incerte se possono continuare a seguire la loro visione del mondo inserendosi dentro i processi di mutamento culturale, oppure se sono obbligati a continuare ad accettare – con pigrizia attiva - i modelli di impostazione malavitosa.

I malavitosi marginali rischiano di perdere, sia se scelgono di entrare dentro la logica statuale e produttiva della società “normale” (pentirsi), sia se scelgono di essere difesi dai cartelli vincenti che li sottomettono ai loro valori di scambio. Questo doppio vincolo tra norme formali opposte si diffonde in molti angoli del mondo e produce effetti nefasti spesso perversi: la sensazione disperata per chi sta dentro questi doppi lacci è che, come scegli, sbagli. Se ti penti, ti uccidono il figlio; se non ti penti, prima o poi sarai morto.

Un singolo individuo “per bene”, l’intera famiglia estesa, un clan o un intero quartiere si trovano in questa situazione a doppio vincolo: se essi decidono di vivere il mutamento, rischiano di perdersi in quanto l’abbandono delle tradizioni è vissuto con un senso di colpa, ansia, sconfitta. Ma una frustrazione analoga di perdita si manifesta se rimangono isolati, in quanto il legame inverso coi modelli innovativi è seduttivo e la rinuncia – vissuta con dispiacere, emarginazione, risentimento – favorisce il percepirsi come residui marginali. Questo modello acculturativo – che si diffonde irresistibilmente nelle “periferie” – può produrre un doppio vincolo di natura antropologica, in quanto coinvolge l’intera gamma delle espressioni esplicite e implicite, di valori strumentali ed espressivi, di comportamenti razionali ed emotivi, di linguaggi verbali e corporali di ognuno. La transizione verso la ”legalità” è avvertita come obbligata e, insieme, percepita come uno smarrimento per la propria identità. Il vecchio modello di vita è inservibile; quello nuovo inutilizzabile. Molte cadute dell’autostima da parte di persone semi-pentite sono determinate dalla difficoltà di tagliare questo doppio vincolo tra una seduttiva modernità, cui si accede perdendosi o da cui ci si ritira frustrandosi.

 

Melodramma

Se si osservano anche superficialmente le foto di Edward G. Robinson nei panni di “Little Caesar” e quelle di John Gotti, nei vestiti di un immaginario un “Big Caesar”, sono incredibili le somiglianze. Il cinema inventa un tipo di stile di eleganza grossolana, di una mala-vita che cerca la dolce-vita, cui il gangster si adegua con gioia mimetico-narcisista. Il potere comunicazionale e simbolico sta in una zona oscura dove riemerge e fruttifica il melodramma. In un altro celebre film di Billy Wilder, le ghette immacolate di George Raft – attore noto per essere stato colluso con la mafia – si dirigono verso la sala dove un grande striscione dà il benvenuto agli italo-americani appassionati del melodramma. Nella fantasia di Scorsese, il Robert De Niro-Al Capone si commuove ascoltando l’opera. È molto probabile che tutto questo sia falso nel senso di fake, una invenzione narrativa che mescola falso e vero, fake-fiction. L’opera esplicita la passione del melodramma che è costitutivo di una emozione estetica socialmente condivisa (e quindi non localistica) – ovvero di un ethos cantato che dirige ed esalta le emozioni erotiche – che deve essere l’ethos di malavita1. Il suo successo non è solo insulare. Devo dire che questa è una fantasia mediatica dei registi, per accarezzare un pubblico “esigente”: a me risulta che malavita ascolta ben altra musica.

Il melodramma diventa una cifra che il cinema usa strumentalmente per “acchiappare” un pubblico legalista e competente, mentre per la malavita tale genere è pre-opera. Non si ascolta Puccini, bensì si vive nella fisiognomica dei padrini vari un dramma da cui non si può sfuggire, un destino la cui forza commuove e non certo identificandosi col pagliaccio. Malavita è melodramma senza opera. Malavita è la canzoncina fissamente ripetuta. Il malavitoso esprime e attira il desiderio irregolare, quasi pulsionale: quello di potere infrangere le regole socialmente condivise e accettate, direi spesso subite. Vorrei sottolineare le sfaccettature erotiche che legano malavita/spettatore: entrambi preferiscono correre rischi continui ed esaltanti del fuori-legge, piuttosto che l’ordinata quanto noiosa vita dell’impiegato. La malavita è neo-realista, ha corpo-viso rosselliniano; lo spettatore è fantasmatico, regredisce nelle fantasie proibite onnipotenti. È impiegato in senso non sociologico, bensì letterale: colui che di dedica (“si impiega”) al lavoro retribuito secondo i parametri vigenti. E tale extra-legalità è una pulsione erotica che batte, batte nel suo corpo e seduce uomini e donne a lui d’intorno.

Si veda questo montaggio di citazioni da me realizzato con il tema metaforico del sesso, che potrebbero essere una catena sintagmatica infinita:

Tony Soprano: Well I'm sorry, I'm under a little bit of pressure here. I don't have time to suck your dick.

E a partire da tale linguaggio post-metaforico, alle cui battute sonore evidentemente la psicoanalista cui Tony è costretto a ricorrere crede poco e si diverte molto (ma qui – come per l’Opera alla Scorsese – ancora una volta l’autore del testo strizza l’occhio allo spettatore addestrato dalle battute sulla psicoanalisi alla Woody Allen), lei domanda:

Dr. Jennifer Melfi: You personally, how do you feel about homosexuality?

Tony Soprano: I find it disgusting. Men kissin' men, holdin' hands in the street. Every fuckin' TV show now, they rub your nose in it. Although, that, the lesbian thing with the, uh, Jennifer Beals, it's not bad. She a dyke in real life? I don't give too much of a shit, what people do behind closed doors with the consentin' adults. Although, don't forget, I'm a strict Catholic. I agree with that Senator Sanitorium, says if we let this stuff go too far, pretty soon we'll be fuckin' dogs.

I malavitosi (almeno di origine italiana) sono cattolici osservanti e vicini alla chiesa di Roma, che non allontana le pecorelle smarrite, e vicinissimi al Parlamento, i cui senatori/sanitorium sono eletti regolarmente dal cartello, difensore del voto organizzato. Il pubblico diventa femminilizzato, come fin dalle prime analisi di Adorno sul potere dei media sulle masse era chiaro: il pubblico/audience è sessualmente polimorfo. L’attrazione che si esplicita sul tema orale “to suck your dick” coinvolge l’intera audience in un riso di impostazione assoggettata, un riso schiacciato nell’accettare le regole del potere anche quando si traveste da gangster. Desideri rimossi tornano nel gergo-tv. I nessi malavitosi del potere, a volte di ogni potere politico, sono chiari e favoriscono la connessione morale alla critica successiva, che è interpretabile solo in quanto si è passarti per l’enfer del desiderio inconfessato a carattere omosessuale:

Tony Soprano: (to Dr. Jennifer Melfi) Don't start talkin' ta me about legitimate business. What about chemical companies? Dumpin' all that shit into the rivers and they get all these deformed babies poppin' all over the place.

La produzione industriale è corrotta o almeno non diversamente immorale dalla riproduzione malavitosa. Tale logica connette tutte le citazioni precedentemente montate: inquinamento naturale e culturale del business legittimo appartiene alla stessa famiglia di Tony. Anzi, la sua è migliore perché esclude l’ipocrisia: tutto è chiaramente come deve essere. Questa morale ecologica strizza l’occhio all’innocenza impossibile. Lui sa bene come vanno le cose. In questo senso malavita è la fantasia perfetta di un dramma cosmico, originario, rispetto al quale solo vivere fino in fondo il dramma, riprodurlo come melodramma-senza-Opera costituisce il senso della vita. Una vita che è ontologicamente mala. Il malavitoso è il più efficace riproduttore di stereotipi che esista. Per questo vince e si espande anche grazie alla sua alleata perfetta: l’industria culturale.

Malavita è fantasia esatta.

 

Mimesi

Innovative letture adeguate alla ricerca attuale su Adorno (cui si deve il concetto precedente), e non alle banali ripetizioni all’italiana, stanno crescendo esponenzialmente nei paesi di lingua anglosassone. L’egemonia nazionale Heidegger/Agamben impedisce sul nascere qualsiasi accenno a tale bibliografia. L’esilio è la condizione per mettere in moto la critica. In un saggio critico sulle relazioni tra Kracauer, Benjamin e Adorno rispetto al cinema e ai media nascenti, Miriam Bratu sviluppa «the nexus between reification and mimesis. Once in the cinema, however, the viewers obey and assimilate to what is dead. Adorno and Horkheimer account for such self-reifying behavior with one of the key concepts of the book—mimesis» (2012).

La mia ipotesti speculativa, ripeto, senza alcun supporto etnografico come dovrebbe, è che la svolta nella malavita avviene sia con l’ingresso nel mercato di eroina, cocaina e droghe varie, e sia con la riproduzione di successo nelle rappresentazioni – mimetiche – filmiche e televisive. Mimesi e mercato. Pulsione e storia. Malavita è immagine dialettica che lega desideri arcaici con futuri presenti. L’esperienza di malavita è narrabile, fin troppo, a differenza del post-guerra benjaminiano. Non è un caso che – qui ed ora tra “competenti” – si è giunti a classificare “Il Padrino” di Coppola come uno dei più bei film della storia del cinema. Auto-reificazione è un concetto critico del giovane Marx. Accelerato dalle sconnessione in relazione alla seconda natura, sempre più connessa con le tecnologie riproducibili, tale concetto si espande nell’adeguamento cosciente con la propria consapevole accettazione e persino desiderio di malanorma.

In tale processo espanso, agisce la malavita con una forza di convincimento irresistibile in quanto esportata con compiacente attesa nei territori altri de l’arte. La malavita esprime l’auto-reificazione in quanto valore esportabile. Tale valore ha nella mimesi, in un certo tipo di attività mimetica, l’alleato funzionale, docile, produttivo e riproduttivo. Malavita connette l’attività mimetica territoriale fissa, mono-identitaria, la pigrizia familistica estesa come audience, alla fantasia esatta dei mass media e della morte. Morte mimetica. Assimilarsi al morto per sopravvivere.

La malavita scorre tra media e morte attraverso la mimesi. I doppi vincoli che si diffondono su tali connessioni e generano continua schismogenesi hanno una solo definitiva determinazione: Morte.

Ci si scinde per morire e far morire, tutti lo sanno bene...

«Mimesis explains the mysteriously empty ecstasy of the fans of mass culture»

In tale stato estatico, la malavita coinvolge, governa o travolge i fans diventati sudditi o, meglio, elettori furbi. E può ottenere tale risultato attraverso l’auto-reificazione mimetica che connette droghe e media. Famiglia estesa, fans, clienti, compiacenti, corrotti e via di seguito, inizialmente minoritari nei propri ambiti di riferimento, in tempi brevi (spazi/tempi mediatici) riescono a coinvolgere la maggioranza dei soggetti affini, attraverso una mimesi definibile «deadly reification compulsion». Una compulsione iterativa, trasmessa mimeticamente per imitazione, di una esperienza ancor più radicale delle precedenti. Essa è caratterizzata dal confondere e mescolare l’avvicinarsi di una morte presunta come esperienza naturale alla ingenua sottomissione della stessa morte determinata dalla reificazione. Insomma, natura e cultura post-strutturalista. Ketamina è (stata) Malavita: essa presentava il viaggio andata e ritorno verso la Morte come una sfida alla natura, una sfida al memento mori; ma in realtà questa Morte – percepita dal consumatore quasi come una entità mitica o sacra – era totalmente incorporata dentro un processo di reificazione incontrollato, eccitato e inconsapevole. Tale meccanismo invertito è attivato dalla mimesi, l’assunzione replicata, imitata, della sostanza che imponeva la resa (surrender) del soggetto pigro all’oggettività esaltata dalla reificazione. Il rovesciamento del proprio corpo psichico in cosa è eccitazione mimetica e reificata. Il corpo in quanto body-corpse (Canevacci, 2008) è sussunto dalla merce. Merce psichica.

La mercificazione – mescolando elementi mercificati e cosificati – penetra indisturbata anzi desiderata nei territori material/immateriali del corpo vivo (body) e corpo morto (corpse). La compulsione a ripetere è classica della subordinazione del soggetto alla reificazione alleata alla mimesi: la malavita è una variazione sul tema della auto-reificazione alleata alla pulsione mimetica. L’alleanza tra entrambe avvolge quel che resta del soggetto in una morte mercificata: una Morte estesa e costruita con l’allegoria del proprio corpo abbandonato, perso, nel suolo nudo e ketaminizzato della propria impotenza. Se le culture giovanili coinvolte in tale processo (quelle che ho definito “eXtreme”) non volevano cambiare più la società, bensì mutare il proprio sé temporaneamente e moltiplicare le proprie identità, l’assunzione della Ketamina indirizzò verso un altro modello imprevedibile: la sottomissione mimetica alla compulsione di una morte reificata.

Malavita - Morte - Media – Mimetica.

 

The End

La conclusione non può che essere mediatica, dopo tutto quello che è stato presentato. Di un medium che rivitalizza il melodramma-senza-Opera dentro la direzione estetica della Malavita. Tony ha un grappolo di nevrosi e di conseguenza da cittadino mediatico normale si adegua come in un film di Woody Allen: va dalla psicanalista per parlare e per esporre i suoi desideri ben poco inconsci, col progetto di portarsela a letto. Ma il contro-transfer qui pare che non funzioni e allora i temi (pulsionali) affrontati continuano ad esplodere con intelligenza artistica alla E. G. Robinson, quella che spiega il successo eterno e pigro di malavita:

Psychiatrist: I watch the news like everyone else. I know who you are, and I saw "Analyze This". I don't need the ramifications that could arise from treating someone like yourself.
Tony Soprano: "Analyze This"? Come on, it's a fucking comedy.

Titoli di coda. Tutti sanno bene chi sono i malavitosi: una fottuta commedia.



 
Nota al testo

1) James Gandolfini/Tony Soprano: «This is the best drama has been in some time» (Doug Elfman, Chicago Sun-Times). «David Chase riesce a guardare dritto negli occhi il male, per descriverlo nella sua agghiacciante normalità» (Diego Del Pozzo, 2002). Lo Scàrpia di Puccini, cantato da un baritono, rivive nel Soprano di Chase parlato da Gandolfini.


 

Bibliografia

Brand, S. (a cura di)
Per l’amor di Dio, Margaret! Intervista a Bateson e Mead, in Studi Culturali, n.1, 2004

Bratu, M.
2012
Cinema and Experience. S. Krakauer, W.Benjamin, T.W.Adorno, University of California Press, Berkeley, LA, London

Canevacci, M.
2012
Digital Auratic Reproducibility: Ubiquitous Ethnographies and Communicational Metropolis, in “An Ethnography of Global Landscapes and Corridors” (edited by Loshini Naidoo), InTech Publisher
2007
Una stupita fatticità. Feticismi visuali tra corpi e metropoli, Milano, Costa&Nolan

Chase, D.
1999-2007
The Sopranos, HBO

Jenemann, D.
2007
Adorno in America, University of Minnesota Press

Robertson, R.
1992
Globalisation: Social Theory and Global Culture, London, Sage Publication