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La differenza italiana

Introduzione a
La differenza italiana, di Mario Perniola

 

di Vincenzo Cuomo

Il breve ma denso saggio che segue fu pubblicato da Mario Perniola nel numero 27 del settembre-ottobre 1976 della rivista L’erba voglio – diretta da Elvio Fachinelli e Lea Melandri. Il periodico milanese, fondato nel 1971 e chiuso nel 1977, era allora una delle riviste più aperte alle istanze creative e (latamente) anti-edipiche che percorrevano la società e la cultura italiana (ed europea) degli anni Settanta, in aperta alternativa agli equilibrismi politici e alla grave arretratezza culturale del PCI, ma fortemente critica anche nei confronti dei tentativi teorici e politici di individuazione di nuovi Soggetti Rivoluzionari (l’operaio-massa, il proletariato giovanile ecc.). La rivista, proprio in quello scorcio di anni, tra il 1976 e il 1977, ospitando, tra l’altro, anche gli interventi critici di Franco Berardi, Nanni Balestrini, del Collettivo A/traverso – che era l’anima della radio-libera bolognese Radio Alice – esprime una partecipe vicinanza con l’area più creativa e anti-autoritaria del movimento del ’77.

Rispetto a questo contesto critico-politico, il saggio di Mario Perniola sulla “differenza italiana” appare distante sia per il tema svolto, apparentemente lontano dalle discussioni ospitate dalla rivista, sia, soprattutto, per le tesi sostenute. Rileggere queste analisi, a distanza a più di trent’anni, all’interno di una riflessione sulla cultura (e l’ignoranza) in Italia, è utile, specie perché elaborate da un intellettuale italiano che, negli ultimi anni, è ripetutamente intervenuto e ha preso posizione riguardo al problema della radicale (e forse irreversibile) crisi della cultura e della praxis in Occidente a causa dell’irrompere, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, di quello che egli ha definito il “regime della comunicazione”1. Forse la lettura di questo articolo, per quel che cercherò di mostrare, potrebbe farci comprendere l’importanza dell’apporto della cultura italiana circa le origini storiche del “regime della comunicazione”.

La tesi principale contenuta nel saggio del 1976 è che, se è possibile individuare un’identità culturale specificamente italiana – che esprima il carattere di un paese “giunto tardi e male all’unità nazionale, e in cui le classi subordinate non sono mai riuscite a dare un volto positivo alla loro rivolta” – questa deve essere rintracciata in una versione “popolare” di nichilismo: “l’identità popolare della vecchia Italia – scrive Perniola – è il nichilismo, cioè la negazione di tutte le identità culturali e l’affermazione della loro equivalenza, la negazione della possibilità di una rottura del processo storico e l’affermazione dell’eterno ritorno dello stesso”. Questo “nichilismo” è quel che “mette in luce la comicità sostanziale della vita culturale italiana e fa della commedia dell’arte la più profonda espressione nazional-popolare del nostro paese”, espressione che trova in Pulcinella – in quella maschera che già Goethe aveva definito “die eigentliche Nationalmaske2 e alla quale nel Novecento erano stati dedicati saggi da Benedetto Croce3 e da Anton Giulio Bragaglia4 e che, pochi anni prima, era stata studiata nella sua emblematicità da Alessandro Fontana, in uno dei saggi inseriti nel primo volume della Storia d’Italia einaudiana5 – “il simbolo dell’identità popolare della vecchia Italia […], la maschera, la cui identità consiste nella mancanza di identità”. Ebbene, questo carattere popolare italiano paradossalmente trova nel Barocco della prima metà del Seicento il suo pendant culturale “alto”. Perniola, che in quegli anni è dedito ad una radicale rivalutazione del Barocco e del pensiero dei gesuiti (Loyola, Bellarmino, Gracián) – rivalutazione che sarà la cifra delle sue posizioni filosofiche successive – qui non rivaluta affatto l’aspetto “contro-riformista” e “reattivo” del Barocco, ma, al contrario, due sue complementari (e, forse, disgiungibili) acquisizioni “originali”: il “nichilismo” (spesso inconsapevole e implicito), da un lato, e la teorizzazione e la pratica della cultura come “spettacolo”, dall’altro. Per quel che riguarda questo secondo aspetto, egli qui sostiene che il Barocco del primo Seicento è stato capace di promuovere una grande “formazione di compromesso, che [ha cercato] da un lato di ottenere il consenso della comunità invece di terrorizzarla, offrendole esperienze del meraviglioso e spettacoli seducenti […] dall’altro, a differenza dell’ascetismo intransigente che animava i riformatori protestanti e cattolici, [ha messo] la vanità e l’apparenza al servizio di un Dio, della cui morte si [era] inconsciamente certi”. Il Barocco è stata questa “formazione di compromesso sotto l’insegna del piacere, [è stata] il grande sogno italiano, la prima società dello spettacolo”.

Nell’articolo del 1976, per quel che concerne l’altra acquisizione del barocco gesuitico, quella etica e politica del “nichilismo”, c’è solo un importante accenno in un passaggio in cui Perniola critica gli intellettuali italiani contemporanei per aver dimenticato la lezione del Barocco e per aver perduto “quella lucidità, quella spregiudicatezza, quella buona coscienza di fronte alla menzogna che avevano i padri gesuiti creatori e ispiratori del Barocco”.

Per chiarire meglio questo giudizio, conviene riportarsi ad un saggio che Perniola pubblica nel 1978 in un (allora) famoso numero della rivista Nuova corrente, dedicato ad Heidegger6, in cui analizza criticamente la nozione heideggeriana di “essere-per-la-morte” a partire da quello che egli definisce “la simulazione (gesuitica) della morte”. Proprio in questo saggio egli cerca di chiarire il senso etico-politico del “nichilismo” del barocco. Si potrebbe dire che quella gesuitica è un’etica (e una politica) dell’occasione, in quanto si fonda su di “un nichilismo fondamentale”, che consiste nella “perfetta equivalenza di tutte le possibilità”. La determinazione della scelta etica e politica allora “può avvenire solo sulla base della situazione concreta, fenomenica, cioè storica. […] La disponibilità ad essere gettati in qualsiasi futuro non è la rassegnazione ad accettare qualsiasi futuro in cui si sia gettati, ma la premessa per scegliere e fare propria qualsiasi situazione in cui si sia gettati”7. Per i gesuiti, egli aggiunge, “non dipende dall’uomo la scelta delle carte che gli vengono assegnate, ma sta a lui stabilire con quale ordine giocarle; indubbiamente egli non può scegliere la sua parte, ma può recitarla in tanti modi. Questa ammissione non è però una ricaduta nell’umanesimo e nel libero arbitrio; essa non implica che ci siano infinite possibilità di vittoria, ma che ce ne sia una in qualsiasi situazione”8. Il gesuita aderisce perfettamente alle occasioni e alle situazioni, perché, per dirla con Baltasar Gracián “sa adattarsi a tutti” ed è capace di fare come Proteo: “esser dotto con il dotto e santo con il santo” 9. È capace si sentire in modo impartecipe e indifferente, pronto a giocare le partite della vita, perché non c’è occasione che non contenga un elemento positivo da sfruttare per la propria gloria, strumento della gloria di Dio. Insomma, il gesuita è un politico senza ideologia (mondana), pronto a far proprie le altrui ideologie pur di vincere il gioco, per la gloria di Dio (di un Dio che forse non c’è, sembra sottolineare Perniola). Il nichilismo implicito nella cultura barocca indica che, nel mondo, non c’è alcun senso, perché tutto è solo un gioco di simulacri: “la struttura comunicativa barocca dissolve ogni referente perché si svolge tra un emittente che si avvale del codice dell’ostentazione e un ricevente il cui codice è quello del compiacimento”10. Il nichilismo gesuitico-barocco include e implica un’etica del dispendio e della gloria e non un’etica del lavoro. E, proprio per tale ragione, include sempre la possibilità di distinguere tra l’azione che vale, in base alla gloria, da quella effimera, perché bassa o meramente utilitaristica.

Prima ho affermato che della cultura gesuitico-barocca Perniola rivaluta, in quell’epoca ma anche dopo – di sicuro fino al saggio Contro la comunicazione (2004) – sia l’etica occasionalistica e nichilista – con l’abbandono di ogni prospettiva utopica ed escatologica – sia la positiva (e spesso strumentale) concezione dello spettacolo simulacrale e della comunicazione spettacolare, parte del grande “gioco del mondo”, di un mondo da cui il senso è assente. Ad un certo punto, tuttavia, mi sembra che, di fronte alla crisi radicale della cultura (specie) occidentale, egli abbia voluto fare in conti almeno con l’aspetto del Barocco più vicino alla contemporanea società della comunicazione, vale a dire con il suo aspetto finzional-spettacolare. In una pagina del libro Miracoli e traumi della comunicazione, cerca di spiegar(si) le ragioni storiche, tecnologiche ed economiche, per le quali il “mondo della comunicazione” ha inglobato definitivamente “il mondo della cultura”: “Una vita – egli scrive – che vale la pena di esser vissuta è quella che lotta per qualcosa che va al di là della nostra esistenza singola, come l’antichità classica non meno che la modernità occidentale hanno insegnato. Dal Sessantotto a oggi molti hanno dedicato tutto il loro tempo e le loro energie per mantenere l’esistenza di un mondo comune, che comprende – come dice Hannah Arendt – coloro che sono vissuti prima di noi e coloro che verranno dopo di noi. Dall’esistenza di un mondo comune emerge la possibilità di una valutazione, la quale è ovviamente relativa e sempre soggetta a mutamenti, ma che tuttavia presuppone la condivisione di un metodo a cui tutti devono attenersi […]. Costoro ovviamente hanno combattuto il mondo della comunicazione, non solo perché effimero e istantaneo, ma anche perché irremovibilmente risoluto a confondere tutto con tutto, sommergendo ogni cosa in un pout-pourri, in una “notte in cui tutte le vacche sono nere” (secondo la famosa espressione di Hegel), nonché annullando, in nome di una concezione aberrante della democrazia e dell’uguaglianza, la possibilità di ogni eccellenza, di ogni merito, di ogni qualità. Infatti, il mondo della comunicazione è stato fino al nuovo millennio caratterizzato da quell’attitudine che il poeta Giacomo Leopardi ha attribuito agli italiani del suo tempo […], in cui nessuno doveva essere riconosciuto meritevole più di un altro. Sicché dice Leopardi, ognuno “è pressappoco ugualmente onorato e disonorato”11.

Quando la cultura è completamente inglobata dalla comunicazione, sembra sostenere in questi anni Perniola, forse diventa problematica la stessa opposizione tra cultura e ignoranza. E questo complica ulteriormente la questione.


Note con rimando automatico al testo

1 Cfr., in particolare, Mario Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1991; Id.; Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004; Id., Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009.

2 J. W. Goethe, Viaggio in Italia, trad. it. di A. Oberdorfer, Vallecchi editore, Firenze 1970, p. 217 (si tratta di un’osservazione goethiana del 19 marzo 1787).

3 Benedetto Croce, Pulcinella e le relazioni della commedia dell’arte con la commedia popolare romana, in Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Laterza, Bari 1911.

4 Anton Giulio Bragaglia, Pulcinella, G. Casini editore, Roma 1953.

5 Alessandro Fontana, La scena, in Storia d’Italia, volume primo, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, pp. 793-866.

6 Heidegger, Nuova corrente, n. 76-77, 2 voll., 1978.

7 Mario Perniola, L’essere-per-la-morte e il simulacro della morte, in Heidegger, cit., p. 207.

8 Ivi, p. 210.

9 Baltasar Gracián, Oracolo manuale e arte della prudenza , trad. it. di A. Gasparetti, Rizzoli, BUR, Milano 1967, aforisma 77, p. 73.

10 Mario Perniola, L’essere-per-la-morte e il simulacro della morte, cit., p. 214.

11 Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, cit., pp. 119-120.

 

 

La differenza italiana

di Mario Perniola


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