La mentalità primitiva e il gioco

  • Stampa

 Introduzione
di Giuseppe Russo

Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) aveva pubblicato da appena un anno il suo lavoro maggiormente conosciuto in Italia, La Mentalité primitive (Paris, Alcan 1922), quando accettò l’invito a scrivere un testo in inglese per la rivista The Criterion, diretta da Thomas S. Eliot e edita dalla londinese Faber & Faber, per molto tempo diretta proprio da Eliot. Questa prestigiosa rivista era nata nell’ottobre 1922 e continuò le sue pubblicazioni fino al gennaio 1930. In quegli otto anni furono ospitati scritti di autori a dir poco cruciali nell’Europa interbellica, da Virginia Woolf a Ezra Pound, da W.B. Yeats a W.H. Auden, nonché le prime traduzioni in inglese di Proust, Valéry, Cocteau e anche di Pirandello.

Le tematiche affrontate in questo saggio da Lévy-Bruhl riguardano i rapporti tra le dinamiche mentali del giocatore (in particolare, del giocatore accanito, quello che lui definisce essential gambler) e la cosiddetta “mentalità primitiva”, che a suo avviso sovraintende numerose operazioni della vita quotidiana dei popoli non civilizzati: dalla consultazione di elementi dell’ambiente naturale circostante con scopi divinatori, alla profonda immersione psichica in un flusso di fattori superiori dai quali dipende l’esito di tale operazioni. In particolare, l’autore si interessa a quell’insieme di rituali, scaramanzie, ripetizioni archetipiche di gesti che è possibile ritrovare sia nel giocatore che sta per puntare alla roulette o per tirare i dadi, sia nell’uomo primitivo il quale “sente” che ciò che sta per fare, molto semplicemente, non dipende mai soltanto da lui ma sempre e anzitutto dal benestare di quelle potenze superiori (più volte richiamate nel testo) che è possibile invocare, sedurre, in alcuni casi perfino costringere ad intervenire. Si tratta di una espressione tipica di quella “teoria delle rappresentazioni collettive” formulata dall’autore nei suoi scritti precedenti e in quelli successivi, laddove Lévy-Bruhl insiste sull’impossibilità da parte del singolo di governare gli avvenimenti che lo riguardano senza rispettare in modo ossequioso il patrimonio di conquiste della vita pratica che la collettività ha messo a punto e che ne garantiscono la sopravvivenza.

Sono abbastanza evidenti anche le analogie con la posizione del moderno investitore di borsa che, di fronte all’impossibilità di prevedere con la desiderata certezza il risultato finale delle proprie tecniche di investimento (anche quando le conosce alla perfezione), si trova inesorabilmente gettato in un vortice di possibilità disorientanti e perfino pericolose, ma dalle quali non ha alcuna intenzione di tirarsi fuori. La dipendenza identitaria dal sistema gravido di rischi a cui affidano la propria posizione sociale è sostanzialmente la stessa per il giocatore d’azzardo classico, per l’operatore finanziario moderno, per l’investitore in derivati o in altri prodotti del turbocapitalismo e per il capo tribù Nguni o Hiliganon che deve necessariamente raccogliere la sfida lanciata dal sovrano di una tribù rivale (pena il rovesciamento del suo potere a furor di popolo, ovvero la perdita del riconoscimento sociale, che in certi gruppi equivale alla morte) ma non sa in quale momento può farlo, usando quali gesti e quali parole rituali, invocando quali forze superiori, accompagnando le sue azioni con quali gesti e così via.

Negli anni successivi alla stesura di questo saggio, Lévy-Bruhl raggiunse la sua piena maturità di antropologo pubblicando opere fondamentali quali Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive (1931) e La mythologie primitive (Primitive Mythology, 1935), nelle quali si riprendono temi già in parte affrontati ne La Mentalité primitive, ma elaborandoli in sintesi di ampio respiro e che hanno rappresentato i traguardi più significativi raggiunti dalla ricerca antropologica prima della generazione degli strutturalisti alla Lévi-Strauss e in alternativa alla scuola culturalista di Boas, Malinowski, Codrington e Lowie.

Il testo è privo di note, pertanto tutte le note presenti sono del curatore.

 


 
apri/salva il file pdf






Lucien Lévy-Bruhl

 LA MENTALITÀ PRIMITIVA E IL GIOCO

(1923)

 

L’origine della passione per il gioco va ricercata senza dubbio nelle nebbie più remote delle epoche storiche. La sua presenza, tuttavia, può essere riscontrata negli stadi più diversi della società. È qualcosa di altrettanto comune quanto lo sono l’uso di narcotici o di sostanze eccitanti come il tabacco o il betel. I popoli dell’Estremo Oriente, e i Cinesi in particolare, si abbandono totalmente al gioco; è uno dei loro vizi più diffusi. Ma in Occidente le cose non vanno diversamente. Carte, dadi, roulette, scommesse sulle corse dei cavalli o su altri sport, lotterie di stato (ma la lista è a dir poco incompleta) bastano a farci capire quanto il gioco sia riuscito a diffondersi fra i costumi delle nazioni moderne. E ha raggiunto tutte le classi sociali, dalla più umile alla più elevata.

La psicologia del giocatore è stata studiata in molti modi. Drammaturghi e romanzieri ne hanno fatto uno dei loro soggetti preferiti. Qui non intendo tornare sulle loro osservazioni e sulle loro analisi: voglio semplicemente svolgere un’indagine in poche pagine per capire se esistano affinità intime o segrete tra la mentalità del giocatore e quella che, piuttosto impropriamente, definiamo “mentalità primitiva”.

Per brevità e chiarezza non prenderò in considerazione l’enorme varietà dei tanti tipi di giocatori che possiamo incontrare nelle nostre città. Il giocatore razionale e in grado di autocontrollarsi, per il quale il rischio è più un divertimento che una passione, che sa limitare le proprie perdite al baccarà, nelle corse dei cavalli o al mercato borsistico (così come colui il quale limita il consumo di sigari pensando alla propria salute) non possono riguardarci qui. E non ci occuperemo neanche di quei giochi nei quali l’abilità, la destrezza o le qualità intellettive risultano più determinanti delle probabilità. Ci occuperemo unicamente del “giocatore essenziale”: quello pronto a sacrificare tutto al desiderio irresistibile di dominare la fortuna, quello che per nulla al mondo vuole o può sottrarsi a questa sfida, quello la cui passione è tale che preferisce giocare, pur sapendo con assoluta certezza che perderà, piuttosto che non giocare affatto. Questo è il giocatore che possiamo trovare in certe stanze dove si pratica il gioco d’azzardo, in certi club malfamati, a Monte Carlo e altrove. I giocatori accaniti possono avere qualsiasi estrazione sociale, ma finiscono per somigliarsi tra loro in modi impressionanti. Il settentrionale è apparentemente più flemmatico e impassibile; il meridionale spesso si tradisce per la sua gestualità, quando è felice ma soprattutto quando è disperato. Non possono esserci dubbi sul fatto che le condizioni delle loro menti siano simili. Ma le nostre conoscenze della mentalità primitiva possono aiutarci a fare ulteriormente luce su tali condizioni?

Nella maggior parte delle cosiddette società primitive per le quali disponiamo di informazioni adeguate, il gioco era noto da prima dell’arrivo dei bianchi. Non è certo scomparso in seguito e, proprio come accade da noi, anche tra di loro talvolta la passione è così violenta che il giocatore rischia fino al punto di perdere sua moglie, i figli e se stesso.

Si è spesso osservato che l’indigeno, prima di iniziare a giocare, segue scrupolosamente una serie di preparativi. Digiuna, si purifica, balla, cerca di fare determinati sogni e punta la propria posta solo quando ci è riuscito. Tutte queste pratiche possono essere spiegate senza troppe difficoltà. In base alle rappresentazioni collettive della tribù, la vincita e la perdita dipendono da potenze invisibili – più o meno definite, più o meno personificate a seconda delle società – che a volte sono prive di una individualità distinta, altre volte assumono le forme di “spiriti”. È del tutto impossibile immaginare che una persona possa vincere senza il consenso di queste potenze! L’Indiano non inizierà a giocare finché non avrà la certezza – oppure, il che è ritenuto equivalente, la ferma convinzione – che è riuscito a procurarsi i favori di tali potenze. Le pratiche sopra indicate hanno questo scopo, sebbene non sia questo il loro unico oggetto. In un modo che per noi risulta di difficile comprensione, esse tendono anche ad influenzare tali potenze, ad esercitare una sorta di costrizione su di esse per mezzo di atti magici. Si potrebbe dire che sono l’equivalente della preghiera, se ribadiamo quanto Codrington ha avuto modo di dimostrare1, ossia che i popoli primitivi concepiscono sempre la preghiera come dotata di un certo grado di efficacia operativa.

Quando queste cerimonie sono compiute, l’Indiano comincia a giocare. E se, al contrario delle sue aspettative, egli perde, può restare deluso ma non sconcertato. In tal caso dirà a se stesso che il suo avversario conosce una magia più potente o preghiere più efficaci. Nella sua mente non c’è nulla di simile al concetto di “probabilità”, non possiede una nozione corrispondente alla parola “fortuna”. Egli si trova semplicemente in presenza di una decisione che può essere soltanto a favore oppure contro di lui, a seconda se gli sia riuscito oppure no di rendere a sé favorevoli le potenze dalle quali la decisione dipende.

Questa spiegazione non riguarda soltanto la vincita o la perdita al gioco, ma si applica ad un gran numero di altre circostanze nelle quali i primitivi fanno valere le rappresentazioni collettive e ragionano alla medesima maniera. Il successo in una competizione – ha spiegato Culin, trattando di popoli e contesti culturali dei nativi nordamericani2 – non è mai dovuto a cause naturali. Il cavallo oppure l’uomo che taglia per primo la linea del traguardo, non è quello meglio allenato, il più veloce, il più forte fisicamente etc. Queste condizioni sono considerate necessarie ma non sufficienti. Il vincitore è quello che, grazie a determinate operazioni magiche, era già certo del proprio successo. Dal momento che tutti i competitori hanno fatto uso di tali pratiche, ciascuno a modo suo, l’evento finale mostra chi tra di loro è stato in grado di portare le potenze invisibili dalla propria parte. È proprio per questo che si tiene la gara. Altrimenti, a che pro fare certi sforzi contro la decisione di queste potenze? Il solo provarci sarebbe una follia.

Non funzionano diversamente le cose riguardo la guerra. Se si potesse conoscere in anticipo quale delle parti in conflitto utilizza gli incantesimi più potenti, quale possiede le formule per rendere invulnerabili i propri guerrieri e paralizzare quelli nemici, etc., non ci sarebbe alcuna battaglia. Quelli che sanno di possedere un’artiglieria magica inferiore a quella del nemico non rischierebbero mai un’azione contro di loro. In Sudafrica un capotribù dei Cafri3 ha aspettato mesi e perfino anni prima di intraprendere un conflitto. Non gli bastava sapere che i suoi uomini erano più numerosi e coraggiosi, meglio allenati e comandati: doveva prima essere soddisfatta la condizione mistica della vittoria. Quando gli stregoni e i divinatori ufficiali garantirono che tale condizione era finalmente rispettata, allora e soltanto allora la guerra potè iniziare. Nelle menti dei soldati e dei loro capi la guerra a quel punto era diventata una semplice scampagnata militare, una pura formalità. Il nemico aveva «dato loro da mangiare». Ma se il nemico resisteva energicamente, e soprattutto se riusciva ad infliggere perdite agli aggressori, allora questi procedevano ad una ritirata frettolosa. L’evento dimostrava infatti che il nemico possedeva arti magiche e incantesimi più potenti, e in questo caso l’unica cosa saggia da fare era sottrarsi a tali potenze il più rapidamente possibile.

Analogamente, il cacciatore non disdegnerà mai alcuna delle pratiche utili a fargli ottenere il favore delle potenze invisibili dalle quali dipende il successo nella caccia. Proprio come il giocatore o il guerriero, prima di mettersi all’opera egli digiuna, purifica il proprio corpo, si sottopone a preparativi magici, si astiene dai rapporti sessuali, cerca di avere dei sogni favorevoli, ma soprattutto fa ogni cosa utile a procurarsi la benevolenza e il consenso dell’animale che sta per cacciare. Anche se stimolato dalla fame, a volte egli aspetterà molti giorni piuttosto che uscire per andare a caccia prima di sapere con certezza che il successo gli arriderà. Altrimenti non gli servirà a nulla essere abile e instancabile: la preda gli sfuggirà, resterà invisibile o comunque fuori dalla sua portata. Ci sono poi ulteriori precauzioni da osservare quando l’animale viene ucciso. Per fare in modo che la caccia possa essere fortunata anche in futuro, l’animale deve essere in pace [con chi lo ha ucciso], deve accettare la propria morte, il genio di quella specie deve essere tranquillizzato, il cacciatore deve purificarsi, etc.

Possiamo ritrovare pratiche del tutto simili nelle tribù devote alla pesca, ad esempio i nativi della British Columbia nord-occidentale che pescano il salmone o quelli della Nuova Guinea che pescano il dugongo, ma anche quei popoli tribali che vivono dei campi da loro stessi coltivati. Sempre e dovunque le medesime cause mistiche presiedono al successo dei loro sforzi. I “primitivi”, che in genere non lavorano più del necessario, prendono tutte le precauzioni opportune. I loro strumenti, le loro armi, perfino le loro trappole sono spesso realizzate con grande ingenuità ma anche con un notevole senso artistico. E tuttavia, anche gli strumenti più raffinati, le migliori armi e le trappole meglio realizzate, cosa potrebbero mai ottenere da sole? Nulla, senza il consenso delle potenze invisibili. Quando un campo è stato ripulito e seminato, essere vanno invocate perché gli steli possano piantarsi bene nel suolo e crescere rigogliosi, e perché il raccolto possa essere mietuto quando ha raggiunto la giusta maturazione, ed anche per tenere lontane presenze in grado di devastare tutto: ratti, maiali, cervi, uccellacci, etc. Dunque, ogni fase del lavoro agricolo, dalla semina al raccolto, è accompagnata da una serie di operazioni magiche. Spesso, per essere produttivo, il lavoro in sé deve essere caricato di magia, per così dire. Se il lavoro nei campi e nelle piantagioni ricade sulle spalle delle donne, ciò accade perché si ritiene che il principio della fecondità che risiede nelle donne sia direttamente collegato alla terra e alle piante. E così, in molte parti dell’Africa equatoriale, se una donna è sterile il marito non può far altro che divorziare, se non vuole che le sue piantagioni siano contaminate dalla sua sterilità.

Dal momento che l’interrogativo fondamentale in ogni impresa di questo tipo è: «Saremo fortunati? Le potenze invisibili ci concederanno il successo?», è ovvio che sarebbe molto utile poter conoscere la risposta in anticipo. I rischi si corrono solo se il risultato non è certo, e l’azione può essere rinviata finché non arriva il responso desiderato. Di qui l’enorme attenzione riservata, fra le società primitive, ai sogni e ai segni, e l’autorità universalmente riconosciuta a chi è in grado di interpretarli. Di qui anche l’incredibile (per noi) parte giocata dalla divinazione in queste società. Viene pratica in qualsiasi momento e per ogni tipo di relazione, dalla più importante alla più triviale. Prima di mettersi all’opera l’uomo primitivo non trascura mai di consultare il divinatore, e le ossa utilizzate stabiliscono se egli riuscirà nella sua impresa oppure no. Analogamente, la divinazione mostra cosa fare a chi si trova in difficoltà. Ad esempio, in un villaggio compaiono degli uomini bianchi come non se ne sono mai visti prima; forse sono dei fantasmi, oppure degli stregoni in grado di provocare le peggiori sciagure. Cosa si deve fare? Cosa è meno pericoloso: proibirgli l’accesso al villaggio, evitare contatti con loro oppure lasciarli entrare? Verranno avvelenati dei polli oppure sarà esaminato il fegato di un maiale e la decisione dipenderà dall’esito di questa prova.

La varietà delle pratiche divinatorie è pressoché illimitata e il solo elencarle riempirebbe molto pagine. Va però notato come la maggior parte di queste siano predisposte in modo da fornire senza ambiguità una risposta ad interrogativi del tipo sì/no. Così, i Papua della Nuova Guinea strappano un cespuglio dal terreno per sapere se devono cominciare una guerra oppure no. Se le radici vengono fuori insieme al cespuglio, la riposta è affermativa, altrimenti è negativa. Sull’isola di Motu4, un capo vuol sapere se può attaccare il nemico. Con la mano sinistra egli si torce il dito medio della mano destra: se si sente lo schiocco la risposta è “no”, se ciò non accade, la risposta è “sì”. È una risposta esplicita e diretta come può esserlo rosso/nero oppure pari/dispari nella roulette. E ancora una volta ci avviciniamo alla modalità del gioco. Infatti la condizione mentale di un primitivo che ricorre alla divinazione perché si trova in difficoltà – ad esempio, perché vuol smascherare uno stregone – è molto simile a quella del giocatore che rischia i suoi averi lanciando i dadi. Schomburgk5 ha descritto bene le emozioni che si impadroniscono degli indigeni della Guyana britannica quando guardano un liquido bollire in un pentolone per capire da quale lato traboccherà, poiché ciò indica chi è colpevole di un omicidio. Quando il liquido aumenta di volume e sta per traboccare, l’eccitazione degli indigeni cresce fino a raggiungere livelli parossistici nel momento in cui il verdetto sta per giungere.

In questo come in tanti altri casi analoghi, la divinazione assume le forme del gioco d’azzardo e quelli che la praticano sono a tutti gli effetti dei giocatori; ma con questa importante differenza, già notata sopra: che per la mentalità primitiva non esiste qualcosa come la “fortuna”. Il responso del test è la risposta delle potenze invisibili alle quali è stata rivolta la domanda e che si sono radunate per decidere.

 

Convinta che tutto il successo, come ogni altro evento, dipenda in ultima istanza da queste potenze, la mentalità primitiva è solo in minima parte interessata a indagare sulle cause, mentre desidera ardentemente conoscere in anticipo le decisioni ritenute più importanti. Se tali conoscenze non vengono spontaneamente fornite dalle rivelazioni (sogni, segni, presagi), la mentalità primitiva inizia a cercarle per mezzo della divinazione, e spesso tale divinazione ha le caratteristiche del gioco. L’uomo primitivo pratica la divinazione – ossia, in un certo senso, gioca – per sapere se può mettersi in viaggio, se può iniziare la costruzione di una capanna, se il bambino che sta per nascere sarà un maschio o una femmina, se un certo tipo di medicina aiuterà una persona malata, se il malato guarirà, se il pescatore riuscirà a pescare, e così via all’infinito. La consultazione del destino non va considerata una semplice manifestazione esteriore dell’attività della mente primitiva; al contrario, è in tutto e per tutto un elemento della sua attività, al punto che nella maggior parte dei casi non è concepibile l’una senza l’altra.

Nella nostra civiltà, come ben sappiamo, la mente opera in modo diverso e la sua curiosità si rivolge in innumerevoli direzioni del tutto sconosciute alla mentalità primitiva. Tra di noi si registra un’elevatissima varietà di occupazioni, in ciascuna delle quali il risultato dipende da una complessa combinazione di operazioni realizzate senza l’intervento di forze soprannaturali. Si provi a confrontare il fabbro dell’Africa occidentale – che spesso ha una notevole abilità – col suo omologo dei nostri paesi. Il primo deve avere il suo mantice fatto con pelle di capra che sia stata scuoiata viva, etc. Neanche uno delle migliaia di dettagli della lavorazione è privo delle sua caratteristiche magiche e, per riuscire, ha bisogno del concorso delle potenze invisibili. Senza di queste, l’arte stessa del fabbro professionista risulterebbe inefficace. Da noi non accade nulla del genere. Il successo o il fallimento nelle nostre attività dipende unicamente da cause che possiamo osservare, indagare, analizzare e, in certi casi, perfino modificare. Una persona preferirebbe coprirsi di vergogna, piuttosto che avventurarsi in certe affermazioni. Qui da noi non c’è posto per la divinazione o il gioco.

Eppure, anche nella nostra civiltà, è possibile scorgere indizi di tendenze ben diverse. Queste fanno la loro apparizione non appena ci si imbatte in problemi che non sono totalmente regolati da metodi stabiliti in modo rigoroso dalla scienza o dalle abitudini. Il carpentiere che fabbrica un asse, il chimico che prepara una soluzione, sanno esattamente quale sarà il risultato del loro lavoro e non avvertono la minima sensazione di rischio collegata a ciò che fanno. Ma può dirsi lo stesso per chi maneggia grosse somme di denaro per affari? Il banchiere o l’operatore finanziario? Senza dubbio anche le loro occupazioni possiedono determinate tecniche ed è necessario conoscerle per usarle correttamente. Essi cercano di avere sempre le informazioni più complete e aggiornate possibili, calcolano con tutta la prudenza del caso le conseguenze delle decisioni che stanno per prendere, si preparano in anticipo per situazioni che possono sempre volgersi al peggio. Ma tutto ciò accade perché sanno che in ogni momento può verificarsi qualcosa di imprevisto che può far saltare improvvisamente le loro previsioni. In una parola, essi sanno di essere dei giocatori. Alcuni speculatori non sono nient’altro che giocatori; magari non hanno lo spirito del giocatore accanito, ma possiedono la stessa passione e le medesime qualità mentali.

Analogamente, nelle faccende politiche, l’osservazione più scrupolosa, l’esperienza e la riflessione non bastano mai a districarsi del tutto in certe situazioni che sono in continua evoluzione e a coordinarne gli elementi, se sono troppo complessi. Queste qualità non possono garantire in anticipo la strada da percorrere con sufficiente sicurezza. Il politico deve tirare a sorte e rischiare – in altre parole, giocare. In guerra, i piani d’azione più solidi, le operazioni preparate con la massima saggezza e fin nei minimi particolari possono essere bloccate all’improvviso da qualche accidente del tutto imprevisto – un ordine trasmesso in modo impreciso, un cambiamento improvviso delle condizioni del tempo, etc. Napoleone diceva che nelle questioni militari, il 25% dipende dal caso. Con certi generali come con certi politici, la mentalità del giocatore è facilmente ravvisabile – il piacere del rischio, la sensazione che il risultato finale dipenda da qualcosa di imponderabile ma su cui il singolo si vanta di avere una misteriosa e inspiegabile influenza, la fiducia nelle stelle, etc. È anche vero che la speculazione finanziaria, la politica e la guerra sono abbastanza lontani dal vero e proprio gioco d’azzardo e piuttosto vicini a quei giochi nei quali il ruolo delle probabilità è limitato, mentre contano molto di più – almeno nel lungo periodo – le singole qualità mentali e il carattere degli avversari. Ci sono fin troppi esempi nella storia di come una manifestazione eccessiva dello “spirito del giocatore” possa condurre prima o poi alla catastrofe, sia nelle faccende pubbliche che in quelle private.

Il giocatore che potremmo definire “professionista”, l’uomo che non gioca solo per divertimento o per incrementare le sue entrate, con tutto il suo autocontrollo e la capacità di limitare i rischi; insomma l’uomo che è letteralmente posseduto dal demone del gioco, che ne fa la sua principale, se non unica, occupazione giornaliera, che consacra al gioco la sua vita e le sue fortune e che, in breve, non ha altri interessi, che cosa vuole? Solo vincere. E cosa spera di fare con le sue vincite? Certo non pensa a soddisfazioni materiali di qualsiasi tipo che i soldi delle sue vincite potrebbero procuragli. Nemmeno gli passano per la mente: è del tutto insensibile a questo argomento. Proprio come il povero, il giocatore trova nel possesso dei meri segni effettivi del benessere quell’appagamento virtuale che tutto il suo benessere gli potrebbe procurare se davvero spendesse i soldi. Ma non sogna affatto di accumularli gelosamente, come invece fa il povero. Pensa unicamente ad usare i suoi soldi per giocare di nuovo. Nei suoi occhi le banconote sono soltanto munizioni a disposizione per la successiva battaglia. Se vince un grande somma di denaro, tale da permettergli di smettere di giocare e ritirarsi – come si suol dire – per godersi la sua fortuna, normalmente non ci penserà nemmeno a fare una cosa del genere. Rischierà nuovamente una parte della sua vincita, poi un’altra, finché non avrà perso tutto, se la sorte è contro di lui. Perciò, ciò che realmente cerca, in aggiunta all’emozione, è il brivido particolare del gioco, quel genere di eccitazione che per lui è diventata indispensabile quanto l’oppio lo è per il tossicomane: il mero fatto di vincere.

E allora, da cosa dipendono per lui la vincita o la perdita? La matematica proverà a parlargli di leggi dei grandi numeri e di calcolo delle probabilità. Ma questo non susciterà in lui alcun interesse, a meno che non abbia delle concrete applicazioni immediate. Alla roulette possiamo vederlo facilmente con una matita tra le mani, mentre segna le serie di numeri che escono o studia un metodo infallibile per far saltare il banco. Il fatto che sia possibile dimostrargli che tutte le strategie usate da altri prima di lui sono fallite miseramente, e che sia possibile spiegare perché non hanno mai funzionato, non scuote minimamente la sua fede: egli è indifferente sia al ragionamento che alle esperienze pregresse, e questo rappresenta il primo tratto in comune con l’uomo primitivo. Ma consideriamo anche un tipo di giocatore più modesto, che non ha l’ambizione di far saltare il banco ma semplicemente quella di vincere ciò che gli sembra possibile vincere. L’evento favorevole al quale anela con tutta l’anima non viene da lui attribuito ad una catena di cause ed effetti analizzabili e comprensibili razionalmente, e quindi in una certa misura prevedibili. Il fattore decisivo è sempre qualcosa di misterioso ed incomprensibile, che egli chiamerà “possibilità”, “fortuna” o “sorte”. Vincere dipenderà in modo totale e immediato6 da questo fattore, proprio come il successo nella caccia, nella pesca o nel combattimento dipendono – agli occhi dell’uomo primitivo – in modo totale e immediato dalle potenze invisibili, se esse sono favorevoli o viceversa ostili.

Questo collegamento diretto e mistico tra l’evento temuto o auspicato e qualcosa che è collocato al di fuori della realtà positiva rappresenta una caratteristica ben nota del mondo in cui l’uomo primitivo si trova ad agire. Ma è anche una caratteristica del mondo in cui vive il giocatore. In altre parole, la mentalità del giocatore professionista, nei suoi aspetti essenziali, è orientata nella medesima direzione in cui è orientata quella dell’uomo primitivo. Con la parola “mentalità” io intendo in questa sede un ampio complesso nel quale rientrano molti elementi emotivi elaborati in forma di concetti7.

È facile verificare questa analogia, almeno se si sta attenti a non esagerare e a non fare confusione. L’uomo primitivo, in genere, tenta la propria sorte per cercare di sapere in anticipo se avrà successo in ciò che sta per fare oppure no. Ad esempio, per mezzo di pratiche divinatorie cerca di assicurarsi la vittoria nel caso debba combattere. Il rischio non riguarda la consultazione in sé. Al contrario, si avvicina alla divinazione proprio con lo scopo di scoprire se potrà correre i suoi rischi senza perdere. Se il responso è sfavorevole, egli si asterrà dall’azione. D’altronde, questa sequenza di operazioni distinte non esiste nei giochi di probabilità: la vittoria o la sconfitta dipendono in tutto dal gioco in sé. Nel momento in cui il giocatore avverte la sensazione che la probabilità sia contro di lui, ecco che perde. Non ottiene un responso in anticipo, però prende una decisione che cambia tutto in modo definitivo e irrevocabile.

Si tratta di una differenza essenziale, che ci aiuta ad evitare di confondere troppo la mentalità del giocatore e quella del primitivo. Ma ce ne sono altre, forse meno rilevanti ma facili da osservare, che sono il risultato dell’assetto generale di una società civilizzata. E tuttavia, nonostante queste precisazioni, quanti tratti le due mentalità hanno invece in comune! Come il primitivo aspetta con enorme impazienza il verdetto di una divinazione o di un’ordalia, così il giocatore freme prima di ricevere le carte o mentre la roulette sta girando, restando in attesa in un parossismo di emozioni. Il primitivo si rassegna all’esito della pratica divinatoria ma, se può, ricorre in appello, ossia continua ad invocarla finché il responso non gli è favorevole. Analogamente, il giocatore che ha appena perduto si sottomette al decreto della fortuna ma non per questo si scoraggia, e appena possibile torna alla carica per ritentare la sorte.

Come il primitivo, il giocatore ha la strana ma profonda sensazione che le potenze dalle quali dipendono la sua felicità e la sua sfortuna possano essere in qualche modo sollecitate, che sia possibile conciliarsi con esse, ma anche influenzarle e perfino costringerle. Come il primitivo, il giocatore ha la sua arte magica, i suoi feticci, i suoi rituali e i suoi tabú. Spesso, prima di cominciare a giocare, aspetta l’“ispirazione”, un segno dall’alto, proprio come il capo dei Cafri non dà inizio ad una guerra finché il divinatore non gli ha assicurato che la vittoria è certa.

E ancora, come il primitivo, il giocatore che accumula successi, oltre al piacere della vincita in sé, prova una sensazione di superiorità, di potere che aumenta, una sorta di elezione. Parafrasando Spinoza, egli passa da un grado inferiore di perfezione ad uno superiore, come dire che prova un’espansione, un ampliamento, una dilatazione del suo essere. Se invece è vittima della sfortuna, precipita in uno stato di depressione, prostrazione e, per usare un’espressione più brutale, di schiacciamento8. Passa cioè da un grado superiore ad uno inferiore di perfezione; ossia, si sente ridotto, impoverito, abbandonato, ferito nel profondo del suo essere. E non si tratta di semplici metafore. Agli occhi dell’uomo primitivo la divinazione fa sapere se le potenze invisibili sono dalla sua parte (nel qual caso ciò che desidera si realizzerà con certezza e le sue azioni saranno coronate dal successo) o se invece sono sorde alle sue preghiere (e in questo caso si sentirà debole, impotente, perfino minacciato). Analogamente, per il giocatore vincere coincide con la vittoria, perdere con la sconfitta, e allo stesso tempo la vittoria significa che egli è uno degli eletti, la sconfitta che è un reietto. È in questo che risiede il significato profondo del gioco, più che nella vincita o nella perdita materiale. Al momento decisivo il giocatore si sente nelle mani di una potenza superiore che sta per pronunciarsi. È dalla sua parte? Allora si sente accettato, protetto, salvato da tale potenza; è riuscito a fuggire dalla debolezza e dall’isolamento della sua irrilevante individualità. Se invece il pronunciamento è contro di lui, allora la potenza lo ha respinto, escluso, condannato. È ridotto alla miseria del suo singolo essere, privo di forze e di sostegno.

È per questo che fondamentalmente non c’è nulla di più serio e di più tragico del gioco. Come abbiamo notato, basta guardare in faccia i giocatori nel momento in cui si sta per decidere la loro sorte. In quel momento si stabilisce se saranno scelti o esclusi. Le parti più nobili e più basse delle loro nature sono coinvolte. Non ci sono cose paragonabili a questo momento, nient’altro fa crescere così intensamente l’emozione.

«Un giorno», ha scritto un missionario nel Transvaal, «mi trovai in un villaggio fra certi uomini occupati a lanciare ossa di tallone di pecora su una stuoia stesa a terra. Dissi loro che questo era un gioco d’azzardo e che avrebbero fatto meglio ad abbandonare questa usanza. Uno di loro mi rispose: “Ma questo è il nostro libro, non ne abbiamo altri. Tu leggi il tuo libro ogni giorno perché ci credi; noi facciamo la stessa cosa: abbiamo fede nel nostro libro!”»9.

Questi nativi del Transvaal non riuscivano a capire per quale motivo avrebbero dovuto essere rimproverati perché sprecavano il loro tempo nella consultazione delle ossa. Ai loro occhi non si trattava di un divertimento, di un’occupazione frivola, ma esattamente il contrario. Cosa può esserci di più serio e importante che comunicare in questo modo con gli spiriti, con gli antenati dai quali dipendono la felicità o la sfortuna, sia pubblica che privata? Analogamente, il vero giocatore si sente – sebbene in modo meno naïf – in contatto immediato con l’oltre. La vincita o la perdita toccano le fibre più sensibili del suo essere. Per lui il gioco possiede un significato metafisico e quasi sacro.

Queste poche pagine avranno conseguito il loro obiettivo se avranno mostrato che lo studio della mentalità primitiva e quello della mentalità del giocatore possono aiutarsi reciprocamente e se, almeno per certi aspetti, l’uno getta luce sull’altro.

 

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Russo)

 

 

 

 

1 Cfr. R.H. Codrington, The Melanesians. Studies in their Anthropology and Folklore, Clarendon Press, Oxford 1891.

2 Cfr. S. Colin, American Indian Games, in: «American Anthropologist», vol. 5, Washington 1903, pp. 58-64. L’«American Anthropologist» è l’organo ufficiale della American Anthropological Organization. Pubblicato con frequenza quadrimestrale a partire dal 1888 e tuttora attivo, rappresenta uno dei fiori all’occhiello della letteratura antropologica negli Stati Uniti.

3 Termine di origine coloniale (dall’arabo Ka-fir: “infedele”, “non musulmano”) in uso fino alla Seconda guerra mondiale per indicare i popoli di etnia Bantu delle province sud-orientali della Repubblica Sudafricana e del Lesotho. Si tratta di una ventina di gruppi etnici imparentati tra loro. Il temine scientifico utilizzato oggi è Nguni.

4 Oggi Motu One, nelle isole Marchesi, coppia di isole note anche come Îlots du Sable.

5 Cfr. R.H. Schomburgk, A Description of British Guiana, geographical and statistical, Simpkin, Marshall & Co., London 1840.

6 Corsivi dell’autore.

7 In La mentalité primitive (1922), l’autore ha fornito una definizione più paradigmatica del suo modo di intendere questo problema, da cui dipende la formulazione della nota “legge della partecipazione”. «Tra questo mondo e l’altro, tra la realtà sensibile e l’aldilà, il primitivo non distingue. Vive veramente con gli spiriti invisibili e con le forze impalpabili. Queste realtà sono, per lui, le più reali (…) Tutti gli oggetti e tutti gli esseri sono implicati in una rete di partecipazioni ed esclusioni mistiche; esse anzi ne costituiscono il contesto e l’ordine» (L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, a cura di C. Cignetti, Einaudi, Torino 1966, pp. 18-20). Questa parte del pensiero di Lévy-Bruhl è palesemente debitrice degli studi di Richard Thurnwald sui Melanesiani delle isole Salomone e dell’arcipelago Bismarck, nonché dei bollettini etnologici di J. Chalmers e R. Neuhass sui Papua della Nuova Guinea.

8 L’immagine qui adoperata dall’autore proviene dal linguaggio medico ma non ha un buon equivalente in italiano. Sentirsi «like a squashed bladder» (come una vescica schiacciata) si usa in ginecologia per indicare lo stato in cui può trovarsi la vescica della donna nella fase finale della gravidanza.

9 Il missionario in questione è padre E. Thomas, che raccontò questo episodio in uno scritto in francese pubblicato sul «Bulletin de la Société de Géographie de Neuchâtel», n. VIII (1895). Il medesimo aneddoto è ricordato dall’autore nel cap. 7 de La mentalité primitive (p. 184 dell’ed. cit.), dove questo tipo di divinazione è descritta ricordando il gioco degli aliossi, l’equivalente degli astragali greci.