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Il cinema visionario di Lars von Trier

 

1.

Ad ormai trent’anni dal suo primo lungometraggio compiuto e distribuito (Befrielsesbilleder, meglio noto col titolo inglese Image of relief, 1982), è possibile ricercare i nuclei delle problematiche fondamentali al fondo della cinematografia di Lars von Trier, autore proteiforme e visionario come pochi. A partire da The Kingdom (1994), che in quanto destinato alla televisione gli ha permesso di allargare il proprio pubblico, von Trier si è presentato come un disturbatore di pubbliche certezze, uno «spaventa-famiglie», come allora lo definì Mario Sesti1, ed è forse all’interno di questa etichetta che vanno ricercati gli aggregati che si addensano nella nebulosa della sua mente creativa.

Rendere friabile ed incerto il terreno sotto i piedi dello spettatore è chiaramente uno tra i massimi divertimenti del cineasta, qualcosa a cui non riesce a resistere né vuole farlo. Questo principio motore elementare ha occasione di esprimersi, in alcuni film nei confronti di temi inerenti la vita quotidiana ed apparentemente marginali, in altri sull’essenza stessa della struttura sociale, sulla sua origine e soprattutto sulla sua legittimità. Lungo entrambe le direttrici il regista ama, non tanto suscitare scandalo (quello è per lui, più che altro, uno strumento), quanto mostrare l’illusorietà dei fondamenti sui quali poggiano alcune certezze individuali e collettive trattate di volta in volta. Questo versante della sua vis polemica possiede di sicuro anche una forte radice autobiografica, dato che il regista è figlio unico di una coppia di naturisti che si consideravano orgogliosi del loro comunismo e del loro ateismo, ma che poi lo iscrissero ad un istituto (la Lundtofte Skole di Lyngby-Taarbæk) a quel tempo noto per i suoi sistemi pedagogici molto autoritari. Dunque, fin dalla prima adolescenza von Trier ha vissuto sulla propria pelle le sensazione di Verfremdung che scaturisce dal trovarsi fra due estremi: i campi nudisti, dove le regole erano considerate gli unici corpi estranei e da tenere lontani, e il sistema di disciplinamento di stampo quasi prussiano. Molto probabilmente, già allora deve aver iniziato a manifestarsi nel giovane Lars una forte diffidenza nei confronti di entrambi gli estremi: l’allegra anarchia flower power e i dispositivi tradizionali di irreggimentazione.

Quando il futuro regista abbandona la Lundtofte Skole, a 15 anni, e ovviamente con l’approvazione degli stessi genitori che lo avevano iscritto, ha già avuto i primi contatti con il mondo dello spettacolo, ha recitato un piccolo ruolo in un serial TV, e ha anche già deciso di tentare il concorso per entrare al prestigioso Danske Filmskole2 di Copenhagen, dove riesce ad accedere nel 1979 e gira i suoi primi cortometraggi, fino al 1983, quando abbandona l’Istituto dopo aver completato il rito di passaggio obbligato, ossia la realizzazione del suo primo lungometraggio in 35 mm., il suddetto Befrielsesbilleder, prodotto proprio dal Danske Filmskole e dalla radio DR.

Nei primi Ottanta ancora non è del tutto chiaro che l’argomento principale della sua concezione cinematografica sarà il grande mistero antropologico: come possano gli esseri umani vivere insieme nonostante l’infondantezza delle strutture destinate a garantire l’ordine? E ancora non è chiaro nemmeno al regista che i risultati migliori, su questo campo tematico, li otterrà nei momenti in cui lascerà libera di esprimersi la sua immaginazione visionaria. Tuttavia, il percorso è già tracciato, e infatti molte immagini di Befrielsesbilleder presentano una carica di suggestione estetica elevatissima, anche se confezionata in forme e soluzioni ancora acerbe e parzialmente ancorate alla cinematografia angloamericana dei primi anni ’80. La scelta di virare in monocromia dominante variabile (ocra, verde foresta, rosso scarlatto, etc.) molte sequenze realizzate sia in interni che in esterni, soprattutto per enfatizzare le diverse bande di oscillazione del diagramma ideale della tensione drammaturgica del film, manifesta chiaramente una notevole attenzione alle suggestioni che le immagini dovrebbero provocare nello spettatore. Dopo tutto, quelli sono stati gli anni nei quali si è verificato un massiccio fenomeno di riflusso nella cinematografia internazionale: terminati gli anni ’70, caratterizzati – fra le altre cose – anche da una massiccia predilezione per le realizzazioni off, nelle strade e nei palazzi, all’insegna di un realismo dal forte impatto visivo su entrambe le sponde dell’Atlantico, i registi tornano negli studios e cercano di farsi venire nuove idee metabolizzando le lezioni di maestri come Tarkovskij o Fassbinder.

 

2.

Ma è nella trilogia Forbrydelsens element (1984), Epidemic (1987), Europa (1991), che la tendenza visionaria del cineasta decolla e comincia a raggiungere i suoi primi risultati notevoli, anche se alternati a momenti meno riusciti. L’Europa sommersa da acque fetide e stagnanti di Forbrydelsens element, un immenso territorio che ha rimosso il proprio passato e sembra destinato ormai alla deriva morale oltre che materiale, è in parte pensata e ripresa con modalità che ricordano Blade Runner, ma è anche il nonluogo augeiano sul quale si verifica la momentanea «coesistenza di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre»3. Su questo spazio molto particolare, infatti, il protagonista, un detective che si illude di essere anche psicologo, si sposta incessantemente nel tentativo di catturare un serial killer applicando il metodo Stanislavskij, in modo da entrare nella sua mente e ipotizzare dove possa essersi nascosto. L’ubiquità delle sostanze liquide incrementa l’insensatezza di questa ricerca e aumenta lo spessore della dimensione onirica del film, nel quale sembra davvero concretizzarsi un concetto ottimamente espresso da Foucault nella sua introduzione a Le rêve et l’existence di Leo Binswanger, ossia che «la plastica immaginaria del sogno è la forma della contraddizione del senso che rivela»4. In questo caso, esattamente come in Europa (1991), le immagini che inducono a pensare ad una costruzione onirica tendono nello stesso momento a slittare verso l’elaborazione visionaria alla Swedenborg, e di esse può essere detto ciò che R.W Emerson disse dei syner del grande mistico svedese, ossia che vanno trattate «con precauzione. È dannoso scolpire queste evanescenti immagini del pensiero. Vere nella transizione, diventano false se si fissano. Per avere un giusto concetto di Swedenborg è necessario un genio quasi uguale al suo»5, cosa che potrebbe tranquillamente essere detta anche di Lars von Trier. Ma, trattandosi di cinematografia e non di letteratura mistica, l’ipotesi di una opposizione inconciliabile vero/falso dipendente dalla durata dello sguardo o dalla sua intensità, qui salta del tutto: non deve esserci una simile linea di demarcazione, laddove è proprio l’efficacia dell’immagine in quanto tale a penetrare nella sensibilità dello spettatore e a rendere morbida la plastica onirica cui accennava Foucault.

Il bianco e nero di Epidemic (1987), interpretato dallo stesso von Trier insieme a Niels Vørsel e a Udo Kier, magari non ottiene lo stesso effetto, tuttavia può essere considerato una prima soluzione alternativa a quella praticata negli altri due film della trilogia. Mentre nelle altre due pellicole si eccede volutamente e programmaticamente nella costruzione di visioni irrealistiche realizzate con gamme cromatiche da allucinazione universale e che vogliono trasmettere la sensazione dell’assenza di vie d’uscita, qui si eccede con pari premeditazione in un iperrealismo da false documentary, evidenziato anche dalla presenza per l’intera durata del montato del titolo in caratteri maiuscoli in alto a sinistra del campo, seguito perfino dal logo del copyright. I temi non sono però diversi: la morte, la malattia, l’abbandono, la deriva, la sopravvivenza dopo la fine della tenuta del collante sociale, il comportamento delle persone quando le regole saltano o si dissolvono per cause di forza maggiore. La trama insiste ulteriormente sulla falsa dinamica finzione/realtà, in quanto nel film la storia che il regista e il suo sceneggiatore stanno cercando di realizzare diventa realtà intorno a loro, li assedia, li perseguita, li minaccia, ma un po’ li prende anche in giro. E lo stesso regista, con Epidemic, senza voler abbassare i livelli di aspettative rispetto agli altri due film della trilogia europea, in questo modo mostrando anche come egli non ami molto ripetersi, se non episodicamente.

 

3.

Ottenuto un discreto successo di critica internazionale con la sua trilogia, von Trier comincia a far parlare di sé anche per le sue occasionali dichiarazioni politically uncorrect. Lo scopo di questa strategia comunicativa non è soltanto quello di ottenere una maggiore visibilità, che comunque esiste così come esiste in molti uomini dello show biz. C’è anche la curiosità di misurare le reazioni degli umani sui quali si interroga, rispetto alle sue provocazioni6. È ben nota infatti l’inclinazione esibizionista del regista, ma gli scandali che ogni tanto suscita vanno considerati un effetto di questa curiosità antropologica, non certo una causa.

Questa combinazione di interesse artistico ed egolatria non rappresenta un fenomeno cinematografico nuovo né tanto meno originale. Innumerevoli potrebbero essere gli antecedenti elencabili, a partire da Stroheim (che il cineasta danese ha più volte rivendicato come uno dei suoi maggiori precursori, e al quale ha “scippato” l’idea di preporre la particella nobiliare al cognome, che in realtà è semplicemente Trier), ma nel suo caso – certo non sempre, ma nemmeno in poche circostanze – i risultati appaiono davvero geniali e quasi sempre votati al primato dell’elemento visionario.

Nel 1995 Lars von Trier e Thomas Vinterberg firmano il famoso manifesto estetico del loro movimento, noto come Dogma 95, il cui testo è disponibile in rete7. Anche questo è un modo per far parlare di sé, dopo tutto, dato che fra i dieci punti-chiave della dottrina ce ne sono alcuni (divieto di riprendere scene violente o che prevedano spargimento di sangue, ma anche abolizione di filtri e supporti ottici) che lo stesso von Trier sarà il primo a non rispettare. Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che il regista danese è troppo incontenibile per poter accettare vincoli operativi nel suo modo di girare. Va poi ribadita la sensazione che, in fondo, il cineasta si diverta sempre molto nel suo lavoro, che prenda sempre un po’ in giro il pubblico poiché questo lo aiuta a perfezionare le sue realizzazioni, e che pertanto attribuirgli un eccesso di serietà sia sostanzialmente sbagliato, forse perfino fuorviante. Se, dunque, aggiungiamo questo fattore alla forza propulsiva principale della sua opera, che è pur sempre la demolizione di alcune certezze sulle quali la società occidentale si regge e si perpetua, otteniamo il ritratto di un cineasta realmente e letteralmente antiborghese, il che davvero non è poco, di questi tempi. Anche per questa ragione non conviene tanto trattare la sua opera secondo una mera scansione cronologica, che non appare particolarmente significativa, quanto secondo quegli aggregati tematici cui si accennava all’inizio e che dovrebbero formare le costanti della sua parabola creativa.

Una di queste è senz’altro di provenienza religiosa, e potremmo definirla il “capolinea della secolarizzazione”. A von Trier interessa, non tanto verificare cosa resti dell’elemento religioso nell’uomo postmoderno, che secondo gli studiosi di questa materia sta vivendo piuttosto una «deprivatizzazione della religione»8, quanto sondare le forme che i surrogati del sacro assumono una volta che si è data per irreversibile e per “consumata” la svolta del secolarismo nelle sue ultime convulsioni possibili. Poiché il punto di vista non è quello di un uomo sorretto dalla fede ma quello di uno scettico incapace di suggerire la retta via da prendere, e tuttavia certo dell’assurdità della strada scelta dal mondo, ecco che le immagini non vorranno tanto alludere a realtà parallele che avrebbero potuto essere e non sono a causa della società, ma più spesso si soffermeranno in maniera insistente sul ciò-che-è, dato per fatale ma allo stesso tempo per fatalmente errato, o peggio corrotto. L’assenza di soluzioni alternative permette al regista di affondare meglio il coltello in quelle praticate, mostrandone gli elementi perversi, ambigui o semplicemente falsi.

La stessa dimensione del sacrificio – che è una delle costanti, da Le onde del destino(Breaking the Waves, 1996, prima pellicola realizzata dopo il manifesto di Dogma 95) a Melancholia (2011), passando per Dancer in the dark (2000) – risulta spogliata fin dall’origine di qualsiasi connotato enunciativo e si propone come mera diagnosi, fredda e priva di vie d’uscita. Quando certa critica accusò Breaking the Waves di sorridere al Cattolicesimo in un’anacronistica variante flagellatoria, non si era resa conto che al centro di quel film non c’è affatto la parabola della santa-prostituta votata al martirio, bensì il complesso dei fattori sociali che tale parabola determinano. Il che tuttavia non ne fa nemmeno un’opera biecamente strutturalista, anche perché la focalizzazione non è per niente neutrale e la collettività che governa lo sviluppo degli eventi è vistosamente condannata, e lo è sia dalla stessa suddivisione del film in capitoli secondo una scansione molto solenne sia dall’apparato visionario che agita soltanto la protagonista e non riguarda nessuno di quanti le stanno attorno. Tanto che, nel godere al momento della purificazione per condanna e conseguente estinzione della “diversa” (declinazione del principio classico del capro espiatorio), la comunità ammutolisce e si rinchiude in una forma di autismo che è chiara ammissione di colpevolezza. È la colpevolezza del sacrificatore, che interessa a Lars von Trier; non l’innocenza della vittima. Inoltre, la colpa è presentata come inesorabile esattamente come le conseguenze del suo esercitarsi sulla vita di Bess determinandone il sacrificio, in quanto due movimenti diastolici dello stesso organo malato, che è poi il cuore della società in quanto tale.

A sua volta, la vittima non è mai realmente innocente, o quanto meno la sua innocenza apparente non è circondata da quell’aura di purezza che ci si aspetterebbe se davvero di innocenza si trattasse. Tant’è vero che sia Bess (Emily Watson) in Breaking the Waves che Grace (Nicole Kidman) in Dogville, non solo accettano pigramente la prostituzione come calvario improbabile, ma per percorrere la via della loro assurda espiazione devono accentuare i lati più inverosimili dei rispettivi caratteri apparendo, la prima poco meno che una demente in balìa delle onde che danno il titolo alla sua vicenda, la seconda un’improbabile montanista divorata da un fuoco penitenziale che può estinguersi solo scontando la pena della mortificazione sessuale prima di ribaltare la situazione; ma in entrambe le storie si allude non poco all’eventualità di una conciliazione masochistica delle due pulsioni. Tutt’altro che due sante, insomma; semmai, due esibizioniste represse e malriuscite ma fortemente soggettivizzate, due fuochi analoghi di quella medesima ellisse antropologica che vede all’estremo opposto l’individuo compiutamente inquadrato nell’organizzazione sociale9.

In altre parole, il solo fatto che esista un soggetto (individuale o collettivo) che si proclami autorizzato a decidere su un qualunque aspetto della vita di un altro soggetto è, nella visione di von Trier, un abominio, qualcosa di drasticamente incompatibile con la stessa natura dell’uomo e che lo fa precipitare in un abisso. Già in Image of relief  il momento in cui la donna dà inizio alla tortura del suo uomo presenta questa duplicità: lo spettatore è disorientato e non riesce a capire da che parte stia la ragione, semplicemente perché non sta da nessuna parte. L’atto stesso che fa intervenire un soggetto sull’altro rende impossibile il mantenimento di un rapporto, tanto meno l’instaurazione di un’etica. Il marcio sta nel meccanismo sociale in quanto tale, non nei suoi singoli (e sempre sostituibili) attori o vittime.

 

4.

C’è dunque un filo rosso che collega idealmente questo problema alla più densa riflessione di Dogville (2003), opera che avrebbe dovuto avviare una nuova trilogia del regista, stavolta dedicata all’America, progetto che sembra però abbandonato dopo l’incolore Manderlay (2005). L’umanità qui rappresentata non è una semplice parodia di quella che dovrebbe essere una giovane comunità borghese, ma piuttosto una specie di gioco delle parti al cui centro è situato il meccanismo sociale nella sua nudità, e nella sua nudità questo meccanismo non può nascondere la propria, fallimentare assurdità. La comunità non è difettosa in quanto agitata da tensioni primitive, né perché basata sul teatro delle apparenze che nasconde orrori comuni o particolari. La comunità è impossibile semplicemente perché, da un lato gli uomini non possiedono la moralità sufficiente a formarla, e dall’altro si basa su una violenza assolutamente incontenibile, una violenza che non può essere mimetizzata o tenuta a freno più del tempo convenuto fra i personaggi recitanti. Ma l’immoralità e la violenza sono due facce della stessa medaglia, né un incremento etico potrebbe in alcun caso venire in soccorso dell’uomo rendendo la vita sociale finalmente possibile, come per un incantesimo.

Nel caso particolare di Dogville, la problematica viene calata in una idealizzazione archetipica della società americana, e perciò insiste sulla logica del profitto come espressione circostanziale dello svolgimento. Anche per questa ragione il personaggio di Grace risulta così volutamente fuorviante: sembra impossibile che un’intera collettività possa precipitare tanto in basso e mostrare il suo vero volto per così poco, fino a pagarne le conseguenze nel colpo di scena finale. Certo, la taglia sulla testa della ragazza modifica degli equilibri, ragion per cui deve essere lei a cominciare a “produrre” abbastanza perché la collettività non ceda alla tentazione dello scambio. E poiché è giunta nel villaggio mentre era in fuga e non possiede altri beni che il proprio corpo, deve necessariamente fare di questo il proprio opificio: ciò che accade nella seconda parte del film. Ma proprio quando tutti i membri della cittadina sono ormai coinvolti nel complicato progetto di riduzione in schiavitù della ragazza, lo spettatore scopre che le cose non stavano esattamente così, e che, anzi, avendo lei e non quella strana comunità carceraria un concreto potere di vita e di morte sugli altri, Grace si era limitata a svolgere un esercizio di comprensione del senso del potere che stava per assumere, alla fine del quale non può che essere strage.

In Dogville l’elemento visionario è concepito in chiave minimalista e riguarda il set in quanto tale, pensato come qualcosa di simile ad un Monopoli visto dall’alto, nel tentativo di concentrare in uno spazio ridottissimo – volutamente simile ad un palcoscenico teatrale sia per le dimensioni che per la ruvida consistenza della superficie – l’intera rete stradale di una piccola città10. Ma all’interno di questa cornice abbastanza claustrofobica, è evidente che von Trier ha voluto svolgere anzitutto una riflessione sull’origine stessa del potere e della struttura sociale, che ha toccato il continente americano dopo essersi soffermata sull’Europa nella trilogia di cui abbiamo parlato in precedenza, ma che non è proseguita con analoga efficacia con la tappa successiva, Manderlay (2005), opera piuttosto scialba, poco ispirata, in buona parte debitrice del sistema scenico de L’opera da tre soldi di Brecht, e per di più priva di quella componente oblativa che dà invece tanta sostanza a Dogville.

In realtà, anche la splendida Medea del 1987 – nata da una costola di una scrittura di Dreyer abbandonata – faceva interferire il tema del sacrificio originario con quello della violenza fondativa dell’ordine sociale, sebbene in quel film le soluzioni estetiche pensate per le riprese fossero talmente suggestive da far retrocedere in ordine di importanza l’elemento speculativo. E di certo ha molto a che vedere, se non con l’origine del potere, quanto meno con il suo esercizio anche il thriller ospedaliero The Kingdom (Riget, 1994, serial Tv in 8 puntate), dove il registro è piuttosto affine al grottesco che non al drammatico ma non per questo è meno incisivo. Si pensi ad esempio all’atmosfera di cospirazione che fa del collegio dei docenti del Policlinico universitario una cupola mafiosa priva di ogni etica: splendida ed illuminante trovata!

L’equilibrio tra componente sacrificale e potere dell’immagine, in fondo, può essere interpretato anche come individuazione di un punto di equilibrio precario tra due spinte opposte: centrifuga la prima, centripeta la seconda. L’una si rivolge al mondo esterno partendo dalla pellicola, l’altra cerca di ipnotizzare lo spettatore all’interno delle sequenze. Questo equilibrio, indubbiamente raggiunto in lavori come Medea, Breaking the Waves o Dogville, è proprio ciò che salta del tutto in Antichrist (2009), facendone uno dei film meno riusciti del regista danese. A partire dal modo grossolano con cui è mostrata la morte del bambino nella parte iniziale del film e dalla pretesa che questo incidente, avvenuto per puro egoismo dei due genitori erotomani, debba trascinare in un vortice psicotico sia i protagonisti (W. Dafoe e Ch. Gainsbourg) che lo spettatore, risulta abbastanza evidente che questo film è stato realizzato soprattutto per un’esigenza di autoanalisi del regista, che non ha mai nascosto di sentirsi spesso animato da una forte tensione sadica che fatica ad esprimersi, ma che non riesce ad esprimersi nemmeno in questo che dovrebbe essere il lavoro più sincero di von Trier, quello nel quale egli si espone maggiormente. Come ha ben scritto Giancarlo Zappoli, che però alla fine tende a salvare l’opera, «l’idea del film nasce da un lungo periodo di depressione e finisce con il costituire una sorta di tentativo di terapia su grande schermo»11. Il modo in cui si anima la natura intorno alla coppia intenta ad autoflagellarsi, alla fin fine, si esaurisce in un delirio visionario del tutto sterile, che imita palesemente le idee pensate da Sam Raimi trent’anni prima per La Casa (The Evil Dead) e che non coinvolge lo spettatore se non in modo molto superficiale e intermittente.

Ma l’equilibrio tra le due forze opposte saltato in Antichrist viene nuovamente raggiunto, e in maniera piuttosto convincente, in Melancholia (2011), la pellicola presentata in concorso al Festival di Cannes e che ha determinato il premio come migliore interpretazione femminile a Kirsten Dunst e l’allontanamento come persona non gradita a von Trier, per le sue dichiarazioni provocatorie contro Israele e le misleading words a favore di Albert Speer e di Hitler. La battuta in conferenza stampa il 18 maggio 2011 in risposta ad un cronista («What can I say? I understand Hitler. He did some wrong things, absolutely, but I can see him sitting there in his bunker at the end ... I sympathise with him, yes, a little bit») e subito diffusa dal Guardian12, rappresenta forse il momento più alto raggiunto finora nella parabola delle provocazioni collezionate dal regista. Va ribadito, a questo riguardo, che von Trier ha creduto per buona parte della sua vita di essere figlio di un ebreo ashkenazita, Ulf Trier, compagno per lunghi anni della madre Inger, la quale solo sul letto di morte gli ha rivelato che invece Lars è figlio di un borghesissimo compositore di Copenhagen, che di lui non ha mai voluto saperne nulla. Da allora deve essersi innescato un meccanismo di confronto/scontro con questa radice ebraica che, data la psicologia molto particolare del cineasta, dopo anni di riflessioni e punzecchiature, presumibilmente ha trovato modo di esplodere in una cornice così palesemente inadatta come è il festival di Cannes e nei toni peggiori possibili. E poiché un vero regista è sempre più bravo a dirigere gli attori che a recitare, se in pochi hanno creduto che facesse sul serio nel momento in cui ha parlato di Hitler in quei termini, ancor meno saranno stati disposti a credere alle sue scuse tardive e con le quali può aver suscitato anzi l’impressione di essere preoccupato più di evitare problemi alla distribuzione della pellicola che non di aver offeso i 2.500 ebrei censiti nei registri delle sinagoghe danesi e tutte le altre comunità ebraiche del vecchio continente.

Tornando al film, dato l’oggetto principale indagato da von Trier secondo la nostra trattazione, ossia l’infondatezza delle strutture sociali, rispetto alle quali la via di fuga privilegiata è di tipo solipsistico-visionario, prima o poi era inevitabile che realizzasse una pellicola di argomento esplicitamente apocalittico. Di più, se questo fosse l’ultimo lavoro nella produzione del regista danese, sarebbe un eccellente modo per congedarsi dal suo pubblico. Ma allo stesso tempo, Lars von Trier non sarebbe il diabolico geniaccio che è, se considerasse Melancholia il suo saluto finale. L’argomento centrale di questo lungometraggio può essere considerato la polisemia della nozione stessa di “fine del mondo”, da un punto di vista interiore come esteriore; ragion per cui c’è bisogno di illustrare due vicende e non una sola, che non saranno né simmetriche né equivalenti per valore e durata. La prima ripete il plot di Festen (1998) dell’amico e sodale Vinterberg, non come imitazione ma come seconda esercitazione sul medesimo spunto (pratica prevista dal manifesto Dogma 95); e, dato che il mondo che deve saltare è quello della famiglia, la prima parte risulta più breve e rapida sia come diegesi che come riprese. La seconda coinvolge una volta e per sempre l’intero pianeta Terra, destinato ad essere distrutto da un corpo celeste che dà il titolo al film e che, prima sembra allontanarsi per la non troppo desiderata salvezza dei presenti, quindi fa il suo lavoro chiliastico e pone termine alle ipocrite relazioni umani ancora esistenti. Dato un simile argomento, non deve sorprendere che il livello visionario di certe immagini sia tanto invasivo nel rapporto con il pubblico: deve esserlo per forza! Dürer non si faceva mica tanti scrupoli nell’illustrare con le sue incisioni l’Apocalisse di Giovanni; né se ne faceva Hieronymus Bosch nell’infittire di figure mostruose e di combinazioni innaturali le sue tele sullo stesso argomento. Molti critici (Mereghetti, Maltese, Escobar, Crespi) si sono detti estremamente delusi da questo film, sia per la durata (135 min.), ritenuta eccessiva, che per certe scelte estetiche, come la ripetizione anaforica della sequenza in slow motion in cui Justine si trascina con l’abito da sposa sul prato, lottando contro l’inerzia di una natura ostile e dalle tonalità molto preraffaellite, estetica chiaramente citata nella locandina à la Millais. Ma un film sulla fine del mondo deve presentare certe caratteristiche in termini di eccessi visivi, iterazioni di sequenze, ipertrofia del senso pittorico. E di certo Lars von Trier era il regista adatto a realizzarlo in questo e usando determinate tecniche di ripresa, proprio perché è per indole un regista eccessivo e che in questa pellicola ha potuto superare i limiti del fattore oblativo individuale e delle tessiture violente di una collettività circoscritta, per scatenarsi in una sola volta contro l’intera umanità. Per uno come lui, era un’occasione troppo ghiotta; per una deliziosa attrice come Kirsten Dunst, anche.

Dell’ormai 56enne cineasta si può forse dire, a questo punto, che la sua vicenda artistica può esser fatta rientrare in una tradizione squisitamente nordica che a suo tempo fu ben sintetizzata da Borges in uno dei suoi ultimi scritti: «Io credo che tutto questo faccia parte del destino scandinavo, nel quale pare che ogni cosa succeda come in un sogno in una sfera di cristallo. Per esempio, i Vichinghi scoprono l’America diversi secoli prima di Colombo e non succede nulla. L’arte del romanzo viene fondata in Islanda con la saga e questa invenzione non si diffonde»13. Anche per apprezzare in modo compiuto e, se possibile, definitivo la concezione cinematografica di Lars von Trier ci vorrà del tempo, e non è detto che alla fine non saranno soprattutto alcuni elementi della sua eredità raccolti da altri, ad essere collocati nelle caselle opportune. Ma per fortuna il cineasta danese è ancora in piena attività, ha ancora molto da dire, e di sicuro non perderà l’occasione di far parlare ulteriormente di sé, dato che il suo prossimo lungometraggio annunciato (The Nymphomaniac, uscita prevista nella primavera del 2013) dovrebbe essere un porno, addirittura pensato in due differenti versioni: una hard e una soft. Come tutti sanno, non è la prima né la seconda volta che von Trier annuncia di voler realizzare un film pornografico, e probabilmente anche stavolta si tratta di una semplice twist notice, ma ormai a queste tecniche comunicative fuorvianti siamo abituati. Staremo a vedere.

 

Note con rimando automatico al testo

1 M. Sesti, Il caso von Trier, in: «L’Espresso» del 4 settembre 1997.

3 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione ad un’antropologia della surmodernità, a cura di D. Rolland, Milano, Eleuthera 2005, p. 97.

4 M. Foucault, Il sogno, a cura di M Colò, Milano, R. Cortina 2003, p. 9.

5 R.W. Emerson, Uomini rappresentativi, a cura di M. Pastore, Torino, F.lli Bocca 1904, p. 115.

6 Tra queste, la dichiarazione risalente al 1996 in cui afferma di non prendere mai aerei perché ne avrebbe troppa paura, e di viaggiare solo in auto, dalla quale deve scendere ogni 2-3 ore per sentire il terreno ancora presente sotto i propri piedi. Pare che non sia mai stato vero, oppure che si sia trattato di una fobia precedente e di breve durata. Si tratta chiaramente di depistaggi informativi a scopo pubblicitario.

7 http://it.wikipedia.org/wiki/Dogma_95#Film_aderenti_al_Dogma_95 (versione bilingue: inglese e italiana).

8 J. Casanova, Oltre la secolarizzazione, a cura di M. Pisati, Bologna, Il Mulino 2000, p. 379.

9 Tuttavia fa riflettere che siano due donne, come lo è Medea nel film omonimo del 1987, mentre l’efferatezza e la violenza sono in linea di principio due arti maschili, nel cinema di Lars von Trier, tranne che in Antichrist. In ciò vi è forse più classicismo di quanto egli stesso vorrebbe.

10 Alcuni critici hanno osservato che questa soluzione scenica potrebbe essere stata mutuata da Our Town, lavoro teatrale di Thornton Wilder molto noto negli anni Quaranta e Cinquanta negli ambienti off Broadway, ma di cui Lars von Trier sostiene di non aver mai neppure sentito parlare. Il pubblico italiano lo conosce soprattutto per la riduzione televisiva realizzata nel 1968 da Silverio Blasi per la Rai.

13 J.L. Borges, Oral, a cura di A. Morino, Roma, Editori Riuniti 1981, p. 46.