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Divenire animale, di Astragali Teatro

È nuovamente di scena lo zoon politikon
L'uomo al bivio tra l'animale alato e il costruttore di muri



Per Marx, i proletari della Comune parigina che – nel 1871 – avevano tentato di fare della loro città un'immagine riflessa dell'utopia comunista si erano proposti di “dare la scalata al cielo”. È una vibrante figurazione simbolica dove sembrano confluire in sintesi due archetipi greci: quello dell'impeto ribelle iperbolicamente blasfemo che avrebbe spinto i titani ad assaltare la dimora iperurania degli dei, e quello del progetto politico rivoluzionario posto al centro degli Uccelli di Aristofane (una città ideale costruita a mezza strada tra terra ed empireo, e concepita sia per ovviare ai mali delle comunità umane sia per minacciare di morte un pantheon di divinità rapaci e indifferenti).

A sua volta, Aristofane – per costruire la sua ferocemente comica figurazione simbolica d'una eterea polis sospesa tra la pesante realtà ateniese del 414 a.C. e l'astratto al di là degli ideali o delle fedi religiose – aveva chiamato in causa due archetipi dell'ermeneutica greca: l'immaginario gnostico dell'orfismo (che figurava in forma di uovo cosmico e di entità alate l'origine del tutto e i primi dèi manifestatisi), l'immaginario totemico della religiosità 'popolare' e delle favole (dove gli uccelli, al pari di ogni specie animale, si comportano e parlano come uomini; ma risultano connotati da sacralità e poteri identici e alternativi a quelli tipici di entità divine: caratteristiche destinate a perpetuarsi – in chiave laica - nei linguaggi moderni e post-modern dei cartoons e del cinema di animazione).

Le varianti combinatorie innescate da simili giochi cognitivi e poetici non si esauriscono qui. Divenire animale, per esempio, si vale - da un lato - della prospettiva fantastica e delle risultanze compositive di Uccelli un po' come Aristofane si era servito dei mitologemi orfici: per fondarvi sopra una mirabile costruzione spettacolare comico-politica commisurata al deplorevole status contingente dell'estremo tracollo ateniese. Ma, dall'altro, rivisita e trasforma le componenti-base del classico ellenico sottoponendole a 'reagenti' drammaturgici e scenici tipici d'una prospettiva teatrale che sappia far proprie, in termini contemporanei, sia la lezione migliore del Verfremdungeffekt brechtiano sia l'insegnamento poetico-sapienziale della parabola sulla ricerca d'una confluenza spirituale unificante tra avventura del singolo e trans-figurazione comunitaria tracciata in termini di fiaba mistica da Il verbo degli uccelli di Attar.

Non a caso, la ri-scrittura della celeberrima commedia proposta da Fabio Tolledi fa perno sul nucleo critico cui sceglie di affidare tutto il suo gioco di risibile suspense il capolavoro aristofanesco: la costruzione di quel formidabile muro di cinta (a opera degli uccelli, però dietro suggerimento umano) che dovrebbe servire sia a proteggere la celeste metropoli ideale dalle intrusioni di campioni d'umanità simili a quelli che hanno reso invivibile per i cittadini onesti il contesto sociale ateniese del V secolo a.C., sia a impedire ogni rapporto tra gli dei e la terra soffocando così tutte le fonti di sussistenza della religione olimpica. Vera e propria chiave di volta della commedia, quel muro è – nelle intenzioni dell'autore – il più eloquente segno scenico forte tanto della necessità di tener fuori dalla perfetta civitas dell'uomo-animale lestofanti, sfruttatori, azzeccagarbugli, parolai, falsari, ecc. ecc., quanto della scelta di dar vita a una pura comunità utopica pronta persino a sfidare l'arrogante civitas dei.

Il muro fantasticato da Aristofane, insomma, intende esibirsi agli spettatori dell'antica polis soloin quanto semiseria 'misura di sicurezza' di uno stato deciso a proteggersi da ogni forma di inquinamento etico-politico. Peccato però che – già prima, ma soprattutto dopo l'era vissuta dal grande commediografo – la realtà storica si sia premurata di prendere molto sul serio quella fantasia: sino a farne addirittura, lungo gli ultimi decenni, in ogni angolo della terra, uno dei più eloquenti e sanguinosi simboli delle contraddizioni umane. Con i fili spinati dei lager e dei gulag di tutti i colori e di tutti i nomi, con le alzate di cemento che tagliano in due Berlino, Nicosia, la Palestina ecc., la recinzione destinata a preservare un qualche mondo superiore da 'germi' che potrebbero infettarlo – declinata in mille forme anche troppo concrete – abbandona definitivamente le ambiguità dell'immaginario comico, per diventare 'igienica' pratica di violenza seriale e quotidiana.

Ovvero, come recita uno dei song-chiave di Divenire animale: “Grande invenzione/ Grande trovata/ Un muro che separa l’umanità/ […] E in quel recinto/ puoi celebrare/ con grande gusto/ la tua sovranità/ e poi chi sta aldilà/ non ha diritto a pensare/ di avere nessuna dignità”. Ed è proprio attraverso la nitida restituzione scenica del doppio versante su cui oggi occorre saper interpretare i discorsi politici potenzialmente dischiusi dal simbolo-muro che l'ensemble di Astragali offre agli spettatori non già l'ennesima, più o meno dignitosa e intelligente, ri-lettura interpretativa di un monumento classico della teatralità, bensì una nuova scrittura scenica in grado di omaggiare Aristofane del dono al commediografo (forse) più gradito: l'utilizzo dello spirito della sua comicità, contro la lettera apparente delle clausole comiche da lui formalizzate all'altezza del 414 a.C.

In questa nuova scrittura, e nella prospettiva registica che ne consegue e che ne attualizza le direttrici espressive, le identiche intenzioni applicate al motivo-chiave della costruzione preposta alla salvaguardia della città celeste risultano operanti anche nei confronti di un'altra struttura fondamentale della commedia: lo schema tripartito uomini-animali-dei adottato dall'autore per manifestare in chiave favolistica le componenti principali e le forze alternative in gioco nel discorso politico sullo stato della polis ateniese. Quasi anticipando a modo suo quella formula antropologica aristotelica che individuerà la dimensione umana nel modus vivendi tipico di un “animale destinato a stare in società con i suoi simili”, Aristofane porta in scena due comuni mortali impegnati nella bizzarra scelta di forzare la volontà degli dei assimilandosi a un certo genere animale, per fondare con esso una aerea comunità politica assolutamente nuova rispetto a quelle che affliggono la superficie terrestre.

Morale della fabula: l'uomo potrebbe costruire una società giusta non già – come si è soliti pensare – se sapesse guardare in alto verso gli dei, ma se imparasse a 'dare la scalata al cielo' facendosi uccello tra gli uccelli. Ovvero, qualora sapesse guardare in basso, verso l'animalità: una animalità, però, in grado di volare divinamente (come un tempo erano divine le creature alate secondo l'orfismo). E di trascendere – così - l'imbelle rassegnazione a qualsivoglia status quo. Ora, anche nella rivisitazione di Astragali vale l'assioma, pur esso sottolineato musicalmente da un apposito song, per cui “Tra dio e animale/ Non c’è distanza”. Ma la sua portata effettiva viene subito posta in relazione non accessoria col duro postulato ipotetico: “Se non ci metti cemento e militari”. Qui, dunque, si tratta di una 'trascendenza' che, mentre invita a guardare - oltre gli egoismi dell'uomo storico - verso la divina animalità capace del volo utopico, non si scorda l'ineludibile risvolto sporco di sangue che un muro di favola può tendere ad occultare. Dunque, cancella così dal suo orizzonte ogni astrazione sociale e religiosa, e punta esclusivamente in direzione d'una possibilità-altra del reale.

Ciò che un simile gioco teatrale finisce col porre sotto scacco matto in presenza dello spettatore non è soltanto l'insieme delle troppe repubbliche ideali o città del sole disegnate da molti maȋtres à penser lungo i secoli dei secoli, bensì l'effettivo consistere politico (nonché, soprattutto, il diritto-necessità a perpetuarsi) del modello-città – la polis matrice e luogo di politeia - da cui discendono tutti i nostri concreti agglomerati urbani: sino a ieri veri o presunti spazi elettivi delle più evolute forme di societas; oggi spettrali micro universi di ordinata disaggregazione. Non è poco. Anzi. È il riproporsi del modello scenico che, a suo tempo, un Bertolt Brecht descriveva in questo modo: “Avete ascoltato e avete veduto/ ciò ch'è abituale, ciò che succede ogni giorno./ Ma noi vi preghiamo:/se pur sia consueto, trovatelo strano!/Inspiegabile, pur se normale!”.

Applicare quel modello al presente non è facile. Occorre, innanzitutto, aver ben chiara un'avvertenza di non poco conto: che, a rendere davvero artisticamente “strano” a teatro “ciò che succede ogni giorno”, poco o nulla potrebbe servire un certo seriosissimo (quasi ieratico) preteso brechtismo di larga parte della moda 'estraniante' che ebbe corso in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo passato. Molto, invece, risulta in grado di produrre la difficile pratica di quella meditata levità giocosa alla quale si intonano le scelte espressive degli attori di Astragali: dalle coloriture tra il vibrato e lo stridulo in cui si mascherano le voci, a una gestualità declinata lungo le falserighe di parades e gags. Il tutto entro un fitto mosaico spettacolare di songs, di siparietti epici semiseri, di lazzi e di sketchs: tramato di cangianti cromatismi al punto da far pensare ora ad un varietà-music hall ora ad un ben congegnato film d'animazione (ma un 'film' la cui vera anima sia tutta nella viva corporeità attoriale che dà forma di mirabili supermarionette alle figure umane ed animali di un tanto saviamente infantile quanto profondamente incisivo immaginario ludico).


Divenire animale, di Astragali Teatro; maggio 2012 – Teatro Paisiello - Lecce. 
Regia di
Fabio Tolledi
con
Gaetano Fidanza, Lenia Gadaleta, Iula Marzulli, Eleonice Mastria, Manuela Mastria, Antonio Palumbo, Roberta Quarta, Stefania Romano, Simonetta Rotundo, Serena Stifani

song
Canio Fidanza, Fabio Tolledi