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Il pensiero allo specchio

Sull’intervista di Karl Löwith a «Der Spiegel».

A tutta prima verrebbe da dire che portare a conoscenza del pubblico italiano questo testo di Karl Löwith rischia, malgrado le intenzioni, di non essere il miglior servizio reso alla sua figura di pensatore. Lo si potrebbe sostenere a partire dall’eventualità, non troppo remota peraltro, che la scoperta dell’esistenza anche di un suo Spiegel-Gespräch, finisca per riavviare ancora una volta quel gioco di specchi con la grande ombra che da sempre accompagna da presso il suo Denkweg, così da presso da rischiare non di rado di occultarlo: quella di Martin Heidegger. Tanto più che la situazione parrebbe prestarsi perfettamente ad un impiego simile, nella misura in cui, prima facie, questa intervista/colloquio risalente all’ottobre 1969 riprende molto in piccolo ciò che è stata quella heideggeriana del ’66 (com’è noto pubblicata, per volere dell’autore, solo dopo la sua morte nel 1976)1. Insomma, parrebbe in tal modo delinearsi l’ennesima esemplificazione di una presunta incolmabile differenza di rango fra i due autori, nonché la ratifica ulteriore del carattere irrimediabilmente epigonale del pensiero löwithiano al cospetto della riflessione del suo maestro.

Ora, se questo è vero, vale a dire se un tale rischio si presenta concreto, diventa quasi necessario, allo scopo di scongiurarlo, cominciare questa breve presentazione chiarendo ciò che questa intervista non è né può in alcun modo essere.

Va perciò precisato, in primo luogo, che si tratta di una conversazione occasionale, del tutto contingente. Non tanto, dunque, focalizzata sulla figura specifica del pensatore in questione, quanto piuttosto sul suo ruolo ufficiale, sulla sua funzione. In altri termini: a partire dalla circostanza dello svolgimento in quei giorni a Düsseldorf del IX congresso tedesco di filosofia (organizzato dalla Deutsche Gesellschaft für Philosophie e presieduto in quell’occasione da Ludwig Landgrebe), «Der Spiegel» si rivolge, attraverso i suoi redattori, ad un “filosofo di professione” (evidentemente tra i più significativi) per conoscere la sua opinione in merito allo stato dell’arte e, più in generale, alle possibilità e prospettive della sua “disciplina” nella cornice della Germania di quegli anni. Di conseguenza, l’eco ulteriormente heideggeriana riecheggiante nel titolo dell’intervista (il “wozu” di apertura richiama il celebre saggio heideggeriano del 1946, raccolto negli Holzwege)2 va senz’altro stemperata. Non è in queste pagine che andranno cercate le tracce di una qualche gigantomachia o parricidio; a simili movenze, fisiologiche all’interno del percorso di emancipazione di un filosofo, Löwith, com’è noto, ha pagato altrove e per intero il proprio debito3.

Una volta appurato ciò che non è lecito chiedere a questo testo, pena il suo asservimento ad una operazione ermeneutica fallimentare, oltre che disonesta, è possibile con più serenità provare a metterne in rilievo le caratteristiche peculiari. In effetti, interrogandolo per quanto esso è realmente in grado di offrire, sarà possibile lasciarvi emergere degli spunti inattesi che decisamente, pur nella discrezione dovuta alla loro brevità, istradano verso alcuni luoghi topici della riflessione löwithiana più matura.

Ciò vale senz’altro in riferimento a quello che è insieme il tema del congresso di filosofia e l’oggetto principale dell’intervista: il rapporto tra filosofia e scienza, o meglio il rapporto tra filosofia e scienza quale immagine eminente del nesso problematico tra la filosofia ed il proprio tempo. Che ne è, questo in buona sostanza il significato ultimo di tale questione, della filosofia allorché essa da ancilla theologiae si scopre ancilla scientiae? E ancor più: che senso e che forma assume un simile rapporto laddove la scienza si rivela essere non più l’episteme su cui tradizionalmente il sapere filosofico commisurava se stesso – nel secondo libro della Metafisica, 993 b 20, Aristotele definisce la filosofia «episteme tes aletheias» – bensì la scienza-tecnica che impregna di sé l’intera epoca moderna? Quando la sophia diventa sapientia e la sapientia a sua volta potentia, quando il sapere si fa nulla più che saper (poter) fare? Esplicitamente Löwith si chiede: come è ancora possibile una scienza del tutto (posto che una filosofia «è possibile solo se si occupa dell’“intero” (das Ganze)»)4 in una situazione in cui le scienze parziali (e sempre più parziali), positive mostrano progressi tanto costanti e sorprendenti da assurgere ormai al rango di fatali, progressi che la stessa filosofia non è più in grado né di dominare né di comprendere? Come è possibile un sapere del tutto se la stessa idea di totalità (quali che siano i suoi fondamenti) vacilla, diventa problematica, se i suoi parametri tradizionali – gli enti della Metaphysica specialis, secondo la dizione wolffiana: Dio, uomo e mondo5 – non richiamano nulla più che sia unanimemente conosciuto e riconoscibile?

In questo senso è fuori dubbio che il tema discusso nell’intervista mantenga intatto a tutt’oggi, a quarant’anni di distanza, il suo portato di attualità: ora come allora è questo il fronte lungo il quale ne va del presente della filosofia, del rapporto della filosofia con il presente, dell’ambizione filosofica di continuare ad essere il proprio tempo appreso in pensieri.

Attualmente la filosofia – questa l’assunzione da cui, secondo Löwith, deve partire una disamina minimamente onesta – appare incapace di tenere il passo della scienza, i cui costanti avanzamenti da almeno un secolo dettano i tempi e pongono le condizioni, ovvero le sfide principali, al pensiero. Al cospetto di un tale dato di fatto, la replica löwithiana suona quantomai chiara nel proporre una sorta di antidoto nella forma di una versione riveduta e corretta dello aner philosophos, capace cioè di far fronte alle urgenze dei tempi, versione per la quale egli rinviene una concreta incarnazione nella figura di Alfred North Whitehead. A tale riguardo, si ha in verità l’impressione chea valere sia qui più la funzione che non la sostanza, nel senso che, sebbene il nome del filosofo inglese ricorra un certo numero di volte negli scritti del Löwith di questo periodo, non è legittimo sostenere che egli si sia realmente ispirato alla sua riflessione o ne abbia riproposto singole movenze. Piuttosto, la figura di Whitehead sembra fungere per Löwith da esempio eminente – eminente appunto perché concreto, esistente – allo scopo di chiarire quali sono le condizioni minime indispensabili entro le quali si possa tornare a pronunciare sensatamente quella parola sulla quale egli stesso ha deciso di scommettere, tra la diffidenza generale, per garantire alla filosofia un presente e un futuro, tirandola fuori dalle secche in cui si trova impantanata: mondo (sive cosmo, sive natura).

È soltanto a partire dalla collocazione – più ancora che dalla posizione – di un Whitehead, ovvero dal di dentro della scienza e dei suoi più recenti progressi, che acquista valore e senso l’opzione per una prospettiva cosmologica, che richiami in causa cioè il mondo-tutto (Weltall) in un senso filosoficamente pregnante e non alla stregua di una mera evocazione tanto vaga quanto sterile, ennesimo disperato tentativo di ancoraggio dinanzi al naufragio imminente. In altre parole, l’esperienza di Whitehead6 si situa in un salutare interstizio rispetto a due opzioni contrapposte, ma parimenti estreme, che Löwith ritiene vadano stigmatizzate. Da un lato, l’eccesso di immedesimazione della filosofia nei confronti della scienza, sfociante in uno zelo mimetico di cui il neopositivismo appare la concrezione più lampante. Una filosofia che rischia in tal modo di risolversi nel ruolo di certificatrice, di giustificatrice ad oltranza delle istanze (im)poste dai saperi positivi, nei cui riguardi sancisce così, in modo irrimediabile, il proprio statuto ancillare. Dall’altro, una filosofia arroccata pavidamente nelle proprie tradizionali posture, dall’alto delle quali pretende, con piglio spocchioso, di potersi limitare ad ignorare ciò a cui non riesce più a far fronte. Tale sarebbe il caso della riflessione di Heidegger e Jaspers. Se il primo, in virtù della radicalità della sua interrogazione, è riuscito in certa misura a scongiurare un tale pericolo, non così il secondo, il cui itinerario speculativo (pur arricchito da una concreta familiarità con il sapere e la pratica scientifica) culmina in una «vaga lettura di cifre della trascendenza»7. Come a dire che, ossessionata dal rischio di essere confusa prima e risolta poi nel sapere positivo, certa filosofia finisce per ipostatizzare una determinata (lusinghiera) immagine di sé con ciò ricadendo, più o meno consapevolmente, nelle braccia, sempre aperte, di chiese vecchie e nuove8. E così, allo scopo di mantenere aperta la distanza del sapere dal saper fare essa finisce per renderlo pressoché indistinguibile dal saper credere (sapere di fede), con ciò trascurando colpevolmente quella sentenza heideggeriana che invece dovrebbe sempre fungerle da termine di riferimento, da unico dogma tollerabile: la filosofia è atea in linea di principio9.

 

Proseguendo lungo il percorso profilato da queste brevi considerazioni, ritengo possibile delineare un’ipotesi esplicativa in merito a quello che, löwithianamente (ma non solo), potrebbe definirsi un rapporto trofico tra la filosofia ed il proprio tempo. Lo enuncio come segue: la posizione “naturale” della filosofia verso il presente sta in una costante oscillazione fra inattualità ed antiquatezza, o meglio: nella gravosa conquista (e nella conseguente, onerosa tutela) di un’inattualità che scongiuri il rischio costante dell’antiquatezza. Uso, non a caso, queste parole d’ordine (unzeitgemäß e antiquiert) che per bocca di due tra i più acuti interpreti della Neuzeit – Friedrich Nietzsche nelle vesti di profeta e Günther Anders in quelle di diagnostico – circoscrivono efficacemente l’orizzonte, lo spazio di manovra che la modernità dischiude al cospetto del sapere filosofico. In tal senso l’inattualità sta per la Grundstimmung, per il fondamentale sentimento del proprio tempo che è peculiare alla filosofia, la quale pur nel tentativo di afferrarlo, di comprenderlo non per questo deve cedere alle tentazioni di immedesimarvisi o di appropriarsene. In entrambi questi ultimi casi (soltanto apparentemente diversi tra loro), essa finirebbe per confondersi totalmente con il presente, perciò stesso decretando il proprio carattere accidentale, superfluo. Dal che si evince che per la filosofia il raggiungimento di una compiuta attualità produce, paradossalmente, lo stesso esito di una radicale alienazione: l’antiquatezza. Ergo: laddove in un centramento pieno rispetto al qui ed ora alligna per essa il già menzionato rischio dell’indulgenza, di un rinnovato giustificazionismo ad oltranza nei confronti del reale (attualmente nella forma di un sì ed amen rivolto alle mirabilie di cui si fa latrice la scienza-tecnica), è nel posizionarsi a lato, in lieve sfasamento, appena fuori fuoco che la filosofia può trovare lo spazio adeguato al proprio tempo.

Inattualità nei confronti del presente che non va però confusa con una eventuale marginalità, nella misura in cui la prima risulta una condizione elettiva in quanto scelta e perseguita, equivalente perciò ad un esercizio ek-statico, ad una pratica di libertà, dal momento che scientemente, faticosamente la filosofia si ritrae dinanzi ad una possibile e comoda identificazione totale con la propria attualità. La seconda, al contrario, si rivela una condizione subita, imposta, decretata dall’esterno, che somiglia molto da presso a quell’esito emergenziale – stinto surrogato secolare di una oramai improponibile istanza fideistica – al quale, secondo Löwith, sarebbe pervenuta la riflessione jaspersiana.

L’inattualità come ubicazione volutamente defilata (posizionalità eccentrica, per dirla con Plessner) corrisponde così alla collocazione insieme autentica e naturale per una filosofia che nel rimanere adeguata al suo tempo non comprometta la propria identità e il proprio statuto più genuino, scandito secondo le sue originarie tappe di pathos, ethos e bios, vale a dire: in primo luogo come apprensione patica (come affezione, pathos) del tutto, del mondo come totalità, sulla quale viene gradualmente ad edificarsi un atteggiamento (un habitus, un ethos) e finalmente una vera e propria postura esistenziale, un modo di stare al mondo (il bios theoretikos).

 

È dunque solo riappropriandosi consapevolmente della sua naturale inattualità, autenticandosi in essa, che la filosofia può tornare a dialogare proficuamente con il proprio tempo anche al fine di indicargli una direzione possibile lungo la quale incamminarsi. Ed è appunto in questo senso che va intesa l’opzione cosmologico-naturalistica del Löwith maturo (la sua antropologia cosmocentrica), opzione saldamente radicata in un’interrogazione sull’uomo, in un’autointerrogazione dell’uomo, della quale si propone come l’esito più coerente. È infatti a partire da un nucleo antropologico fissato nelle sue linee fondamentali già nello scritto di abilitazione (Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, 1928)10, che Löwith muove alla ricerca della cornice ad esso più adeguata, lungo un percorso che lo condurrà da quella relazionale degli inizi, passando per quella storico-sociale degli anni ‘30 e ‘40, sino a maturare gradualmente la convinzione che l’in cui e il verso dove (l’arché e il telos) di ogni consapevole riflessione antropologica si radica in quell’eccedenza ed eccentricità (eterocentrismo) nella quale si imbatte, e suo malgrado si infrange, qualsiasi proposito di ricondurre l’uomo interamente a se stesso11.

Venuto meno Dio, dei tre enti sommi restano soltanto uomo e mondo, laddove quest’ultimo viene però esperito e compreso ancora e sempre secondo l’imprimatur impostogli dalla Weltanschauung cristiana: un ente privo di una reale consistenza d’essere, o meglio la cui cifra ontologica finisce per risolversi nella sua disponibilità, il suo essere nell’essere a disposizione. A nostra disposizione. Di qui la graduale riduzione del mondo ad una sorta di protesi antropica, tanto nella forma di una sua prestazione eidetica (teoretica o coscienziale), quanto nei più rozzi termini di uno strumento: il serbatoio-magazzino (lo heideggeriano Bestand) a cui, in totale buona coscienza, attinge a piene mani la scienza-tecnica.

È allora prendendo le mosse dallo scacco finale che patisce questo tentativo di definitiva riconduzione della Welt a Menschenwelt, del mondo all’uomo – dal carattere illusorio di questa antropologia antropocentrica – ovvero ponendo nel modo più radicale la propria autentica questione, la questione di sé (la Menschenfrage), che l’uomo è in grado di riaccedere – ovviamente soltanto per via negativa, appunto come scacco e come eccedenza – ad un’istanza ulteriore che pur eccedendolo non lo trascende (almeno nel senso religioso del termine) e che in tal modo può ergersi a suo parametro e misura. Al cospetto di una tale istanza, in riferimento ad essa, possono così tornare a suonare sensate, se non proprio familiari, espressioni come queste: «la divina ed eterna totalità di ciò che per natura esiste e rimane così com’è, id quod substat»12.

Sta tutta qui anche la ragione per la quale, a mio avviso, risulta necessario superare la oramai classica definizione di “naturalismo” (vero e proprio topos ermeneutico) per definire questo itinerario speculativo, dal momento che un’etichetta simile rischia di presentare la natura/cosmo alla stregua di un ultimo trascendentale sul quale il pensiero löwithiano si sarebbe finalmente acquietato, cristallizzato, rinvenendovi il proprio nietzscheano “piuolo”. Al contrario, la dizione qui proposta di antropologia cosmocentrica (e della traiettoria complessiva del Denkweg löwithiano nei termini di uno sviluppo da un’antropologia antropocentrica ad un’antropologia cosmocentrica) sfugge a questo rischio nella stessa misura in cui sottolinea il policentrismo che, nella forma di una costante oscillazione tra uomo e mondo – alla ricerca, entro il loro rapporto, di equilibri né relativi né perituri –, a quella filosofia è connaturato.

Sostenuto da siffatto fondamento, diventa infine comprensibile ed apprezzabile, in ottica squisitamente teoretica, anche quella tesi provocatoria pronunciata nel corso dell’intervista in merito ad una incompatibilità di fondo e di principio tra filosofia e marxismo, tesi che a tutta prima apparirebbe una semplice concessione che, con un certo compiacimento, Löwith fa alla sua immagine di inattuale, in una posa quasi ostentata da vecchio conservatore. Al contrario, tale presa di posizione (del tutto a prescindere dal giudizio di merito che si possa darne) attesta nel modo più evidente la coerenza dell’impianto löwithiano, che nella stessa impostazione marxista – stante pure l’esplicito apprezzamento per alcuni dei suoi esponenti, quali Marcuse o Habermas13 – rinviene la condanna, tanto più censurabile in quanto volontariamente, dogmaticamente autoimposta, ad una limitatezza e parzialità dello sguardo (vale a dire, ad uno sguardo “interessato” e per questo irrimediabilmente non teoretico, sguardo che sa già sempre cosa trovare in ciò che guarda) nella quale si cela una paradossale, ma non per questo meno pericolosa, approssimazione del sapere alla fede, del Wissen al Glaube.

A rendere il senso di un simile aut-aut si presta perfettamente la celebre chiusa del ZurKritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung, laddove Marx scrive: «Radikal sein ist die Sache an der Wurzel fassen» («essere radicali vuol dire cogliere la cosa alla radice»). Ebbene, proprio condividendo sino in fondo una tale precondizione, Löwith si trova ad imboccare il sentiero opposto a quello marxiano, per cui allorché Marx prosegue, affermando che «die Wurzel für den Menschen ist aber der Mensch selbst»14 («ma la radice per l’uomo è l’uomo stesso»), Löwith obietterebbe, in quel tono insieme sommesso e fermo che gli è naturale: «die Wurzel für den Menschen ist aber nicht der Mensch selbst».


 

 

 

 

Note con rimando automatico al testo

1 Si tratta, ovviamente, di: Nur noch ein Gottkann uns helfen (tr. it., Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel”, a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987).

2 Il titolo originale dell’intervista è: Wozu heute noch Philosophie? Il saggio heideggeriano è invece il celebre: Wozu Dichter? (1946; tr. it., Perché i poeti?, in: M. Heidegger, Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 247-297).

3 Il momento di più diretta ed aspra contrapposizione fra Löwith e l’antico maestro è rappresentato dalla raccolta di saggi del 1953: Heidegger. Denker in dürftiger Zeit (tr. it., Saggi su Heidegger, a cura di C. Cases e A. Mazzone, Einaudi, Torino 1966). L’esempio più maturo di una presa di distanza finalmente netta ed insieme serena è invece offerto dal saggio del 1969, scritto in occasione degli 80 anni di Heidegger: Zur Heideggers Seinsfrage: Die Natur des Menschen und die Welt der Natur (tr. it., La questione heideggeriana dell’essere: la natura dell’uomo e il mondo della natura, in: Aa.Vv., Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, a cura di F. Volpi, Donzelli, Roma 1998, pp. 75-88).

4 Cfr. infra.

5 Al paradigma proposto da Chrisitan Wolff nel suo Philosophia rationalis sive Logica del 1728, si rifà esplicitamente Löwith in quella che è senza dubbio la sua opera di riferimento per quest’ultimo periodo: Gott, Mensch und Welt in der Metaphysik von Descartes bis zu Nietzsche (1967; tr. it., Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 2000).

6 Il tentativo più organico di proporre una riflessione cosmologica da parte di Whitehead è il testo (tratto da un ciclo di lezioni tenute ad Edimburgo nel 1927/28) del 1929: Process and Reality. An Essay in Cosmology(tr. it., Il processo e la realtà. Saggio di cosmologia, a cura di N. Bosco, Bompiani, Milano 1965). A proposito del rapporto di Löwith con la scienza, non è vano ricordare che ancora ai tempi dell’università (prima a Monaco e poi a Friburgo), egli intraprese con successo gli studi di biologia accanto a quelli di filosofia. A Friburgo, in particolare, ebbe come docente il padre dell’embriologia e futuro premio Nobel Hans Spemann.

7 Cfr. infra.

8 Senza alcun proposito di fomentare “guerre di religione” mai sopite, verrebbe da dire che la vicenda della filosofia italiana nel XX secolo rappresenti un caso emblematico di un simile atteggiamento di fondo. Stanti pure i suoi indiscussi meriti, resta infatti innegabile che l’egemonia neoidealistica con il suo ostracismo aprioristico e incondizionato verso i saperi positivi abbia alla lunga compromesso la capacità della nostra cultura filosofica di dialogare (anche soltanto per poterlo adeguatamente criticare) con il proprio tempo.

9 A onor del vero, Löwith ritiene che per alcuni aspetti la stessa ontologia di Heidegger abbia mancato di rispettare questa norma, pervenendo così ad esiti non dissimili da quelli di Jaspers. A tal proposito, si può guardare al passaggio dell’intervista dedicato all’interpretazione heideggeriana della tecnica, secondo la quale essa sarebbe un «destino inviato (Geschick) dall’essere». Lapidariamente, sentenzia Löwith: «di un tale destino dell’essere (Seins-Geschick) io non ho la benché minima esperienza» (infra).

10 Tr. it., L'individuo nel ruolo del co-uomo, a cura di A. Cera. Guida, Napoli 2007.

11 Relativamente a questa lettura del Denkweg löwithiano sub specie antropologica (ovvero come sviluppo da un’antropologia antropocentrica ad un’antropologia cosmocentrica), che per evidenti ragioni potrà essere qui soltanto accennata, sia consentito il rinvio a: A. Cera, Io con Tu. Karl Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie, Guida, Napoli 2010.

12 Dio, uomo e mondo…, cit., p. 9. Poco prima, si legge: «se il mondo non è la creazione mitica di un Dio, né un’opera tutt’altro che perfetta dell’uomo, allora esso esiste da se stesso, è sempiterno (immerwährend), in quanto senza inizio né fine, to theion, divino, già come cosmo, poiché ad esso, in quanto “tutto” (holon), non manca nulla» (ivi, p. 7).

13 Nel 1942, a un anno dall’uscita di Ragione e rivoluzione, Löwith – che all’epoca, come del resto lo stesso Marcuse, si trovava negli Stati Uniti – pubblica una recensione su «Philosophy and Phenomenological Research», che innesca una replica di Marcuse cui fa seguito una seconda recensione löwithiana, ospitata stavolta da «Social Research». I documenti di questo dibattito sono disponibili anche in italiano, curati da Orlando Franceschelli, su: «Micromega», Almanacco di filosofia ’97, pp. 223-235. Per quanto riguarda Habermas, va invece menzionato un suo importante contributo dedicato al pensiero löwithiano, pubblicato sulla rivista «Merkur» nel 1971, dal titolo: Karl Löwiths stoischer Rückzug vom historischen Bewußtsein, (tr. it., Karl Löwith. La rinuncia stoica alla coscienza storica, in: J. Habermas, Profili storico-politici, a cura di L. Ceppa, Guerini e associati, Milano 2000, pp. 151-171).

14 K. Marx, ZurKritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung, in: Id.,MEGA (Marx und Engels Gesamtausgabe), Band I/2, hrsg. von Internationale Marx-Engels Stiftung, Berlin 1993, pp. 173-187 (la citazione si trova a p. 177).